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30 ottobre 2015 5 30 /10 /ottobre /2015 00:30
(da noi a me)
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(da noi a me)
(da noi a me)
(da noi a me)
(da noi a me)
(da noi a me)
(da noi a me)
(da noi a me)

(da noi a me)

Niente, solo la pioggia che cade triste

Ed è solo uno sgocciolìo quieto.

L’ora è tarda, la casa vuota

Armadi traboccanti di vecchi indumenti, carte e carpette, libri polverosi vecchi di tre generazioni

Tutto da rivedere e da soppesare

In un cassetto, una lettera che mi scrisse mia madre, molti anni fa, quando ancora non esistevano i cellulari, lettera a cui forse non risposi mai

Un piccolo folder con foto in formato piccolo e piccolissimo che formano una piccola carrellata sulla storia familiare, raccolte da mia madre e poi dimenticate in un fondo di cassetto

Mio fratello che, dalle foto, mi guarda con il suo sguardo fiero, a volte spaventato, di quando era piccolo e poi adolescente.
Nelle sue foto di adolescente, c’è spesso tristezza nel suo volto allungato A volte, però, fierezza e fiducia Ricordo che, a volte, da adolescente, mi chiudevo in bagno e lì, in solitudine, piangevo e singhiozzavo per mio fratello, pregando silenziosamente perché un miracolo gli rendesse la salute e la capacità di camminare

Foto di famiglia, come si usava un tempo, tutti in tiro, nel giorno della prima comunione e della cresima, Salvatore nel punto focale del gruppo, un po’ emozionato

Mio fratello, attorniato dal suo gruppo di amici ridenti che lo omaggiavano spesso di foto spassose per strappargli un sorriso

Mio padre in uniforme da ufficiale e in divisa da campo, con la bustina che si usava allora

Ancora mio padre, magrissimo (perchè aveva patito la fame), appena tornato dal campo di prigionia, ma già attivo e laborioso, che cammina a passo svelto lungo via Ruggero Settimo, dando l’impressione di uno che ha molto da fare e molti sogni che gli frullano per la testa

Io, in foto tessera, vestito da da ufficiale e con la barba

Le mie continue trasformazioni camaleontiche Barba sì, barba no Baffi sì, baffi no, Capello lungo hippieggiante, nel tempo giusto per farlo, oppure capello corto stile nazi o ancora rapato a zero Io, con aria meditativa Io, con atteggiamento da guerrigliero Io, palestrato

Noi, da piccoli, sulla spiaggia, per me mio fratello era un eguale, anche se non poteva fare le stesse cose che facevo io, e quei giorni sulla spiaggia di Mondello, giorni assolati con le merende di pane e uva erano splendidi

Ogni cassetto che si apre è una capsula del tempo che riserva inattese sorprese e riporta indietro con whoosh che a volte mi lascia stordito

Continuo a sentirmi un sopravvissuto in quelle stanze che sembrano popolate di fantasmi e non ancora risorte a nuova vita

Once upon a time... Nel passato ci sono le favole e i drammi Il futuro ci attende con il ripetersi di vecchi copioni, anche se a volte ce ne sono di nuovi ed inaspettati. Ed qui che sta tutta la meraviglia

E’ strano che io parli del futuro, quando il mio tempo si fa stretto, quando c’è sempre margine e meno strada da percorrere, meno storie da scrivere, e quando l’apertura di sempre nuove e sorprendenti capsule del tempo mi risucchia indietro con prepotenza

In definitiva, chi sono io? Dove vado? Cosa faccio? Cosa ci faccio qui?

 

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29 ottobre 2015 4 29 /10 /ottobre /2015 07:08
La famiglia dei Gattoni
(da un mio post precedente - 2013) [...] Prima che arrivassero i miei cugini dalla Sardegna (e da allora avemmo la capanna assieme a loro) era consuetudine cercare dei co-locatari, per dividere la spesa. Fu così che la mamma, un anno, fece ritorno dagli uffici della Società (era sua l'incombenza di occuparsi di queste faccende), annunciando che nella prossima stagione avremmo diviso la capanna con la famiglia Gattoni.
Quando sentii questa notizia, fui eccitatissimo dalla novità, ma non dissi nulla a nessuno, pur iniziando a fantasticare attorno a questi misteriosi "gattoni".
Poi, nel corso del tempo, ci furono sicuramente durante le conversazioni tra gli adulti numerosi accenni alla famiglia dei "gattoni". E, di quando in quando, capitava anche che la mamma e mio padre si interrogassero su come sarebbero stati questi "gattoni" come compagni di capanna. 
Io orecchiavo le loro conversazioni e questi accenni facevano vieppiù galoppare la mia fantasia. Sia come sia, arrivò il tempo dell'inaugurazione della stagione balneare e, con armi e bagagli, andammo al mare per la prima volta. 
A quel tempo dovevo avere quattro o cinque anni. La mamma mi raccontava spesso che appena arrivato, anziché cominciare a fare i miei giochi preferiti, io cominciai a cercare e a guardare in giro, instancabilmente. Entravo ed usciva dalla capanna, guardavo nei piccoli spazi dietro la cabina, sbirciavo da ogni parte, spostavo le sdraio addossate alle pareti e rimestavo in giro, mostrando una delusione via via crescente. 
Ad un certo la mamma mi chiese: "Ma cosa stai cercando, Maurizietto?" 
Ed io le risposi: "Ma..., mamma, mi avevi detto che quest'anno ci sarebbero stati i gattoni. Ed io non vedo nessun gattone!". 
E, naturalmente, a questa mia risposta fece segue l'immancabile coro di risate da parte degli adulti presenti.

 

Le cose che capitano da piccoli si ammantano di una patina che li rende “mitici”, a volte prima ancora che accadano (nelle attese e nelle aspettative); ma può anche succedere che anche gli eventi attesi vengano caricati e, per così dire, trasfigurati dall’apporto di elementi fantastici (o fantasticati).
Inoltre, può anche entrare in gioco la ripetuta narrazione ad agire come potente volano propulsore per far sì che un evento in sé piccolo possa entrare a far parte della propria mitologia di ricordi.
Raccontando a posteriori di questa circostanza, potrei anche aggiungere che, se a quel tempo mi fosse stata letta (o avessi letto) la storia di Alice nel Paese delle Meraviglie, avrei magari potuto immaginare di ritrovarmi davanti ad un’intera progenie di gatti del Cheshire. .. pronti a far parte delle celebrazione del mio non-compleanno (che cade appunto nei mesi estivi) e che però non avrei mai potuto vedere, poiché - a parte un ghigno incorporeo - in linea di massima il loro corpo rimane sempre invisibile.
Proprio di recente, mi sono imbattuto in una vera famiglia di “gattoni” pluri-generazionale, mentre correvo per i viali di Villa Trabia.
Non ho potuto fare a meno di far loro (ai “gattoni”) un piccolo servizio fotografico che mi ha rimandato con il pensiero e con le emozioni alla mitica famiglia “Gattoni” della mia infanzia.

 

 

 

 

La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni
La famiglia dei Gattoni

I Gattoni di Villa Trabia

More Gattoni di Villa Trabia

Il loro luogo sicuro è il recinto di una vecchia serra di cui sopravvive soltanto il basamento in arenaria

E i più timidi (nonché i più piccini) se ne stanno all'interno per uscire a sbirciare ciò che accade fuori solo di tanto in tanto. Ma la curiosità è - come sempre - più forte della paura

Il buco nel muro che per i più giovani dei Gattoni rappresenta l'interfaccia tra il claustrum del loro nido e il vasto mondo al di fuori

Gattone acrobatico che non ha nulla da invidiare a Philippe Petit...

Gattone terragnolo

Le didascalie alle foto

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21 ottobre 2015 3 21 /10 /ottobre /2015 07:20
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio
Luoghi di transito: e, in verità, siamo tutti di passaggio

“Our earthly condition is that of passers-by, of incompleteness moving towards fulfilment and, therefore of struggle...”

Ignoto (per me)

E siamo tutti di passaggio, belli e brutti, lenti o veloci, grassi o magri... Ma non sempre ci ricordiamo della nostra qualità di semplici passers-by...

Tutto è effimero...

Alcuni luoghi vicino ai quali mi trovo a passare mi mettono malinconia. Sono luoghi in cui qualcuno è nato oppure è morto. Sono luoghi di transito, in entrata o in uscita in questo mondo. Oppure, semplicemente luoghi di sosta, in un mondo in cui tutti sembrano avere sempre troppa fretta.

Luoghi che sono come delle soglie, a differenza dei cimiteri che, invece, si presentano in tutta la loro staticità.

E, accanto alla fioritura inattesa, la crudezza della baraccopoli dove vivono gli zingari e rappresenti di altre etnie balcaniche, nomadi e migranti, in condizioni precarie ma capaci di dar vita a edifici che per quante precari e per quanto edificati con materiali di risulta sono pur sempre “case”

Le strade nella loro precarietà a volte consentono di fissare l’eternità e il mistero insondabile delle cose, quando consentono di mettere assieme in un unico colpo d’occhio la bellezza non facilmente descrivibile di un albero in piena fioritura contro lo sfondo di un cielo terso e azzurro, ma anche una mela mangiucchiata e poi abbandonata, come se il suo proprietario avesse avuto troppa fretta per stare ancora a masticare o si fosse improvvisamente volatilizzato, transitando in un altro piano temporale (per chi ci crede), o anche la buffa ed incongrua giustapposizione di diversi e divergenti piani operativi, con l’incrociarsi di persone per cui il tempo si muove ad una velocità diversa e che si sfiorano appena senza vedersi.

Ci si chiede sempre quando incroci qualcuno chi sia e dove stia andando. E siccome tu stesso ti ritrovi a porti queste domande fondamentali, ti chiedi se l’Altro che incrocia il tuo cammino lo sappia oppure se sia assolutamente ignaro ed inconsapevole di tutto. Ti chiedi se qualcuno abbia trovato le risposte che tu non sei ancora riuscito ad avere...

A volte, è come se fossimo del tutto ciechi e sordi nel nostro andare e, del pari, totalmente ignari sia delle bruttezze che incrociamo sia delle poche inestimabili ricchezze che attraversano il nostro cielo come un rapido ed effimero raggio di luce, ma tale da illuminare il nostro interno con un fulgore accecante, anche se solo per pochi attimi.

Un tributo alla memoria che da anni sopravvive e che, di tanto in tanto, viene aggiornato...

Solo pochi si soffermano a guardare e a riflettere

Chi ha mangiucchiato quella mela e perchè poi, anziché gustarsela sino in fondo, l'ha abbandonata così all'improvviso? Forse che, dopo i primi morsi, ne sia stato avvelenato?

Tutto è effimero, anche la più bella fioritura

Il campo nomadi di Palermo immutabile nella sua precarietà

La meraviglia di un incongruo e stracarico trasloco a bordo di una Bianchina familiare, una "Station Wagon" d'epoca. Chi sono? Dove vanno?

Rosa Fresca aulentissima... ai piedi della statua dedicata al Santo Padre Pio

I miei commenti alle foto

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12 ottobre 2015 1 12 /10 /ottobre /2015 17:39
Sferracavallo, qualcosa è cambiato... e non in meglio
Sferracavallo, qualcosa è cambiato... e non in meglio
Sferracavallo, qualcosa è cambiato... e non in meglio
Sferracavallo, qualcosa è cambiato... e non in meglio
Sferracavallo, qualcosa è cambiato... e non in meglio
Sferracavallo, qualcosa è cambiato... e non in meglio

(Maurizio Crispi) Sferracavallo, il piccolo ridente borgo marinaro alle porte di Palermo, è un luogo nel quale mi piace fare ritorno di tanto in tanto, perchè è stato importante per alcune stagioni della mia vita importante.

Lì, negli anni della mia tarda adolescenza, dal lato dei villini più prestigiosi, a ridosso della propaggine di scogli conosciuta come "Punta Marconi", avevamo sulla stretta costiera rocciosa, dove erano gli scivoli a mare dei più prestigiosi villini della zona (tutti datati dal primo Novecento) una piccola concessione demaniale di pochi metri quadri, sulla quale - nella buona stagione - facevamo montare una piccola cabina di legno.
Fu questa sistemazione a farci abbandonare la tradizione della "capanna" mondellana. Ancora per una breve stagione, Salvatore che non voleva più andare al mare di Mondello a causa dell'impietoso sguardo altrui, si convinse a venire: solo che qui la discesa a mare era più disagevole.

Molti anni prima i miei cugini usavano venire con la loro famiglia a Sferracavallo, dove andavano in affitto, di volta in volta in case diverse.

Quelle di Sferacavallo furono le mie ultime stagioni al mare di stampo adolescenziale, con quelle lunghe ore di nuotate oppure di dolce far niente, a crogiolarsi al sole o a tuffarsi ritetuamente dallo scoglio più alto.
E poi la sera c'era il rito di andare in piazza a mangiare il gelato artigianale al gusto di gelso nero (che, allora, per Palermo era una novità assoluta).
Poi, ogni anno a chiusura di stagione, c'era da seguire la festa patronale dei Santi Medici Cosma e Damiano, che si concludeva con la processione e la vara dei Santi portata daglu uomini della confaternita a piedi scalzi, anche lungo le vie a fondo naturale tutte pietrose e gli spettacolari giochi di fuoco finali.

Per questi motivi, Sferracavallo mi è rimasto nel cuore, anche se non è facile riconoscere questi legami e seguirli dentro di me come sottili corde invisibili che conducono ad anni il cui ricordo è tuttora confuso, poichè allora - negli anni della tarda adolescenza - mi sentivo come uno senza un luogo e senza una patria, costretto a vagare senza mai potermi veramente fermare, sempre all'inseguimento di desideri mai appagati e di una normalità da cui mi sentivo escluso.

Sferracavallo era allora un posto per pochi eletti, dignitoso e tranquillo, avulso dal chiasso e dal brusio delle grandi masse.

Eppure nel corso del tempo qualcosa è cambiato e la natura del villaggio si è trasformata malignamente in parte per via dello sviluppo dei ristoranti in cui, pagando un modico prezzo standard, si mangia un ricco menu a base di pesce (per così dire, dalla A alla Z), in parte perchè con l'Autostrada A9 - e i relativi svincoli posti nelle vicinanze - è diventatata facilmente accessibile con l'auto da persone alla ricerca di sbocchi "festivi" e di divertimenti consumistici di bassa lega, con giostrine da quatto soldi e bancarelle di paccottiglia varia. Ma nello stesso per via dei due grandi centri commerciali di recente sorti da un lato e dall'altro (rispettivamente il "Conca d'Oro" ancora in territorio di Palermo e il "Poseidon" nell'area di Carini, è rimasta tagliata fuori dagli investimenti in attività commerciali (intrattenimento e ristoriazione) di qualità (e ci sarebbe molto da dire su come questi dissennati ipermercati e centri commerciali megagalattici influiscano sui fragili e delicati equilibri su cui si regge il tessuto socio-urbanistico delle periferie). Insomma, sembra essere diventato - soprattutto per quanto concerne - l'atmosfera domenicale un posto per sfigati e derelitti.

Oggi, il maestoso paesaggio della montagna incombente su Punta Barcarello e sul borgo marinaro crea un netto contrasto con la sporcizia e il degrado imperanti nelle zone pubbliche dello stesso della borgata: quelle che un tempo erano caratterizzate da plizia e nitore.
Dopo i lavori di restauro del fronte del porticciolo, realizzati più di due decenni addietro (quando già da molto tempo tempo avevo smesso di venirci), con la realizzazione di una piccola diga sopraelevata e vista sul mare, di grandi aiuole, abbellite da camminamenti e da panchine, oltre che da una fontana, il tutto è stato lasciato alla deriva.
Naturalmente, questo degrado risente del fatto che la borgata di Sferracavallo non possiede una sua amministrazione autonoma, ma fa parte di una delle circoscrizioni del Comune di Palermo, in cui vige il principio spendere per la realizzazione di grandi opere (con tutta la mangiatoia annessa alla concessione dell'appalto dei lavori) e poi non stanziare nessun capitolo di spesa per la manutenzione ordinaria e straordinaria.
Il fronte del porticciolo di Sferracavallo avrebbe potuto rimanere come un posto splendido, mentre invece sono il degrado e l'incuria a farla da padrone.
Acqua ristagnante (proveniente sia dalla pioggia sia dalle mareggiate), cartacce, resti organici di dubbia origine, puzze e una fauna di frequentatori che provengono dalle borgate infime della nostra bella città: abbigliamenti assurdi e sguaiati, donne grassone che mangiano dolciumi e schifezze varie con le loro boccacce che, sformate come ciabatte vecchie, spalancate senza ritegno lasciano intravedere denti marci e sgangherati, sigaretta alla bocca, perchè fumare è okkei e naturalmente la ciunga che viene rivoltata e rivoltata in bocca come un bolo da ruminante.
Non c'è evoluzione in meglio, quando l'unica maestra di questo sottopopolo è la più deteriore delle Televisioni che vanno in onda.
Programmi spazzatura, sitcom, aste, isoladeifamosi, amici, chilavisto e altre robacce, come il junk food che ingurgitano.

Io può io può, senza ritegno e senza alcuna autocritica.

Da rabbrividire.
Sembra di essere nella fiera degli orrori.

Mi dispiace davvero tanto, ma temo che con l'età io sto diventando un po' troppo razzista, se - in questo caso - di razzismo si può non parlare, o se non è soltanto pura e semplice indignazione per una violenza perpretata all'estetica e al sentimento della bellezza che sempre dovrebbero essere una delle nostre guide.

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10 ottobre 2015 6 10 /10 /ottobre /2015 07:07
Le sedute odontoiatriche non sono mai rose e fiori ( specie se l'inconscio ci mette lo zampino...)
Le sedute odontoiatriche non sono mai rose e fiori ( specie se l'inconscio ci mette lo zampino...)
Le sedute odontoiatriche non sono mai rose e fiori ( specie se l'inconscio ci mette lo zampino...)
Le sedute odontoiatriche non sono mai rose e fiori ( specie se l'inconscio ci mette lo zampino...)
Le sedute odontoiatriche non sono mai rose e fiori ( specie se l'inconscio ci mette lo zampino...)

Il mio rapporto con il Dentista, inteso come figura archetipica, è stato sempre problematico.

In passato, specialmente.

Più volte ho abbandonato il campo, perché ne ero spaventato e, per lungo tempo, evitavo successivamente di frequentare gli Studi dentistici.

Ma, per necessità di cose, ho sempre dovuto riprendere, sempre alla ricerca del mio Dentista ideale. Detto tra parentesi; nella mia prossima vita voglio nascere con un corredo già precostituito di denti denervati al titanio.

Anni addietro, quando ero proprio all’inizio del mio percorso di psicoanalisi, andai dal Dentista di allora. E questo andare era sempre accompagnato da una notevole ambivalenza e da una grande sofferenza interiore: mai che fosse una passeggiata. In quella seduta, ci fu qualcosa che mi turbò. Forse fu la procedura dell’anestesia, forse fu un odore di disinfettante più forte del solito: fatto sta che cominciai a sudare freddo, ad avvertire una sensazione di nausea, e ad avere il polso piccolo e frequente.

Io dal dentista, in sala d'attesa. La mia espressione non è una delle più feliciSi dovettero temporaneamente fermare le successive fasi estrattive: ed io - per evitare il collasso - dovetti stare a lungo con la testa tra le gambe.

Per quella volta me ne andai con un nulla di fatto (o forse l’operazione si fece egualmente, adesso non ricordo): ma, in ogni caso, quell'esperienza mi lasciò con un forte senso di disfatta e di incapacità. La sensazione di non “essere forte” in circostanze che richiedevano una dose in più di coraggio e di capacità di sopportazione del dolore.

L’indomani affrontai la mia seduta di psicoanalisi con il rimpianto ed insuperabile Francesco Corrao, nel corso della quale vennero fuori degli aspetti interessanti.

Il giorno che precedeva la seduta estrattiva mi ero trovato a guardare alcune sequenze del film di Joseph Losey (1972) che racconta L’assassinio di Trotsky, (avvenuto come è noto nel 1940, in Messico, dove il rivoluzionario russo si era ritirato in esilio)

Rimasi particolarmente sconvolto dall’immagine cruenta dell’attentato che portò Trotsky alla morte: come è noto, il suo sicario (presentatosi inizialmente come amico e rivoluzionario espatriato), dopo aver ottenuto la sua fiducia, lo colpì in piena testa con una piccozza. E il film nella sua sequenza clou presentava proprio questo evento, in tutto il suo realismo (piccozza piantata al centro della fronte, sangue rutilante che sgorgava dalla ferita profonda etc).

Io, turbato da una simile visione, avevo immediatamente cambiato canale, non intenzionato in alcun modo ad espormi ad ulteriori sofferenze.

Le immagini perturbanti - con tutto il loro potere intatto - furono immediatamente rimosse, ma riemersero il giorno dopo nel corso della seduta odontoiatrica, senza che me ne rendessi conto: vennero recuperate soltanto nel corso della seduta di psicoanalisi.

In sostanza, mi ritrovai a sperimentare un vero e proprio attacco di panico, in cui la figura del dentista e quella del sicario di Trotsky si congiungevano e in cui gli attrezzi da lavoro odontoiatrico e la piccozza dell’assassino si equivalevano. Il Dentista si trasforma da figura benevola in personaggio sadico, violento e crudele, come un padre divoratore dei suoi figli: e, alle spalle del sicario inviato ad uccidere in modo barbaro Trotsky, come punto di congiunzione, si staglia - altrettanto inquietante il sadico dentista, impersonato da Laurence Olivier che, nei panni del criminale nazista Szell dagli azzurri occhi di ghiaccio (conosciuto - tra le sue vittime dei lager - come l'"Angelo bianco") tortura con i suoi ferri del mestiere di odontoiatra Babe, il “maratoneta” (interpretato da un giovanissimo Dustin Hoffmann), ponendogli insistentemente ed ossessivamente la domanda “E’ sicuro?” (vedi la sequenza clou del film e leggi un mio precedente post, del 2009, dal titolo, “Il Maratoneta": un vero film cult da rivisitare, di tanto in tanto”).

Recentemente, proprio pochi giorni fa, lo stesso fenomeno si stava verificando nuovamente, mentre ero sotto le mani benevole e sapienti del mio amico Pippo. Questa volta il trigger è stato un odore di sostanze chimiche più intenso del solito: e subito dopo si è presentata quell’immagine (Trostsky con la piccozza piantata nella testa). E mentre ciò avveniva, ho avvertito i primi sintomi d’un incombente attacco di panico.

Questa volta, tuttavia, approfittando della pausa necessaria perché l’anestetico locale facesse effetto, ho detto a Pippo ciò che stava succedendo, riconnettendolo a quanto era già accaduto in passato. E ci siamo, ovviamente, fatti quattro risate: ma ciò è stato sufficiente per depotenziare i sintomi e per levare alla rappresentazione la sua forza maligna.

In fondo, la resistenza mentale alle situazioni di stress dipende dalla capacità di tenere sotto controllo il ritorno perturbante del rimosso oppure, semplicemente, dalla piena consapevolezza di ciò che sta accadendo dentro di noi. Ovviamente, se io non fossi passato attraverso l’esperienza della psicoanalisi non avrei raggiunto mai questa capacità di prendere le distanze dagli eventi perturbanti, per poterli esaminare e dire: “Ecco, questo è quello che sta succedendo”.

Immagini archetitpiche perturbanti riemergono spesso nei momenti di maggiore stress e, bisogna averne contezza, per poterle dominare.

E questo è uno dei pilastri su cui si fonda, sicuramente, un buon livello di resilienza.

La sequenza cluo nel film "Il Maratoneta": "E' sicuro?"

The Aaasination of Trotskij (1972, Joseph Losey), the full film

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3 ottobre 2015 6 03 /10 /ottobre /2015 07:13
No-ne, no one e cose così
No-ne, no one e cose così

No-ne No one Nessuno

Una casa vuota e silenziosa

Non c’è musica, né danza

Nel riquadro di una finestra foglie verdi mosse dalla brezza
s'agitano,
ma senza suono

In contrasto,
si apre nella mia mente lo scenario
d'una spiaggia affollata piena di gente suoni colori

Ma tu sei fuori da tutto,
disconnesso,
proiettato ad una distanza siderale

Guardare quei colori,
udire quei suoni è come stare a guardare
un film che non comprendi,
parlato in un idioma sconosciuto che non puoi articolare,
sbirciare un mondo abitato da esseri alieni

Rimane la Casa con il suo Silenzio
le sue Ombre
i suoi Fantasmi
e solo un pallido riverbero di ciò che accade all'esterno

Una caverna popolata da idee-ombra
sempre più rarefatte
dove s’approssima un buio più nero
d’una notte senza stelle e senza luna

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29 settembre 2015 2 29 /09 /settembre /2015 12:10
Il Cane, la Capra e il Leone, in un impasto onirico
Il Cane, la Capra e il Leone, in un impasto onirico
Il Cane, la Capra e il Leone, in un impasto onirico
Il Cane, la Capra e il Leone, in un impasto onirico
Il Cane, la Capra e il Leone, in un impasto onirico

Qualcuno ha lasciato aperta la saracinesca del mio garage: il leone mio ospite è uscito fuori e nessuno riesce più ad acchiapparlo.

Come farò? Non è un cane e non risponde al mio richiamo: e non è mica facile acciuffarlo per la collottola per ridurlo alla ragione. In meno d’una frazione di secondo potrebbe sferrarti una zampata micidiale con quei suoi possenti artigli.

Sì, nel mio garage tengo non solo il cane, ma anche una capra e questo leone.

La capra è venuta dopo il cane e ha sostituito le pecorelle di Tarling Street che si erano trasferite numerose e che, successivamente, si sono adattate a stare nei sottotetti.

Poi, siccome Frida non era soddisfatta della compagnia della capra che era sempre mugugnosa, poco cordiale e sempre intenta a ruminare, è arrivato il leoncino. E Frida è stata felice di averlo come ospite: presto lo ha adottato.

Il leone, ora é cresciuto a dismisura.

Però, soltanto ora che è scappato, mi sono reso conto che, da quando è arrivato, non gli avevo mai dato da mangiare.

Se è cresciuto e non è deperito, si sarà arrangiato da solo: forse avrà mangiato topi o scarafaggi.

Una volta quando ero bambino mi diedero una tartaruga terrestre. Grande fu la mia meraviglia nel tenere tra le mani questo essere rettiliano: dopo averla d io, per consiglio della mamma, la portai nel garage della casa di allora, umido e odoroso sempre di terra bagnata, perché alle sue spalle c’era un grande giardino selvatico. Mi dissero di tenerla là per l’inverno perché presto sarebbe caduta in letargo e, in funzione di ciò, si sarebbe cercata un anfratto tranquillo. Ed io, fiducioso, non le portai mai da mangiare, se non di tanto in tanto qualche foglia di lattuga. Ogni tanto andavo a trovarla e provavo a vitalizzala, dandole colpetti con uno stecco. Ma lei non si muoveva mai. Finché, con il sopraggiungere della primavera, andai a guardare meglio nel suo anfratto e la tartaruga era morta. Tutt’attorno a lei dominava un odore dolciastro di decomposizione che si mescolava a quello della terra umida e dello strato di foglie cadute. Ricordo che questa morte fu per me una grande delusione. Mi sentii tradito in qualche misura ed anche in colpa (al pensiero che non avevo fatto le cose per bene).

Ma il mio leone è ora un possente esemplare adulto, con i muscoli che guizzano sotto la pelle quando si muove ed una folta criniera fulva, e zanne possenti che si vedono, bianco giallastre quando ruggisce.

Come farò a catturarlo e a riportarlo dentro il garage?

E sì che gliel’avevo detto a tutti quanti: “Non aprite quella porta! E, se l’aprite, ricordatevi di chiuderla per benino subito dopo!”

Ma nessuno sta mai ad ascoltarmi.

C’è una festa nel cortile di casa. Ormai nel mio condominio e in quello di fronte ci abitano solo musulmani.

Posso vedere tutto bene dal mio vertice di osservazione: adesso io abito nel grande attico in cima al palazzo, le cui terrazze ampie e digradanti a scaloni come i Giardini di Babilonia, si sono trasformate in una foresta lussureggiante.

Forse il leone si sarà nascosto tra le piante della mia foresta.

E, di notte, in questo periodo che è quello del Ramadan si banchetta e si festeggia.

Dall’alto, sporgendomi oltre la ringhiera, posso vedere che tutte le luci sono accese, dentro gli appartamenti, e sembra che nessuno accenni soltanto a voler andare a dormire.

Si sentono risate e conversazioni sommessi, tintinnii di stoviglie e di posate.

Dal cielo, pendono festoni di corde a cui sono attaccate decine di bambini che cercano di dare la scalata al cielo per raggiungere un immaginario albero di cuccagna.

Sono un po’ preoccupato per loro: temo che qualcuno possa cadere e farsi del male.

Chiamerò the Catcher in the Rye. Sono certo che lui potrà aiutarmi.

Cosa dovrò fare prima di tutto? Aiutare i bambini ed impedire che cadano dabbasso? Oppure cercare il leone e riportarlo giù nel garage per impedire che faccia del male a qualcuno? Oppure occuparmi di Frida e della capra che sono rimaste entrambe giù in garage in attesa fiduciosa del loro pasto?

Che dilemma in insormontabile!

Sì, sì! Chiamerò the Catcher in the Rye. Lui saprà ben consigliarmi!

Nelle foto: I leoni rutelliani di Palermo (bronzi) e il monumento al Leone Morente a Lucerna (marmo)

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28 settembre 2015 1 28 /09 /settembre /2015 06:49
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)

(foto di Maurizio Crispi)

Sono stato assunto come bus driver. Mi reco sul posto di lavoro. Entro all’interno d’una grande casamatta, poco sviluppata verticalmente verso l’alto, ma con degli intricati sviluppi sottoterra.

Dopo aver percorso interminabili rampe in discesa mi ritrovo in un’enorme spazio vuoto: solo qualche panca allineata lungo le pareti e per il resto nulla: non c’è traccia di autobus o di altri dispositivi similari. Guardo, esploro anfratti, ma non c’è anima viva. Nessuno a cui chiedere informazioni. Mi avventuro per una scala a chiocciola che sprofonda nel sottosuolo, attorcendosi su se stessa. Mi pare che, seguendo questa via, potrei arrivare a certi macchinari di lucente acciaio che ho visto baluginare molte decine di metri più in basso. Ma , dopo poco, mi rendo conto che la strada è sbarrata da un’impenetrabile inferriata. E con me non ho nemmeno una lima.

Ritorno nell'immenso stanzone di prima. Questa volta c’è un uomo con addosso un’unifome stazzonata e un berretto con la visiera un po’ sulle ventitré. Quando mi avvicino, avverto che emana un sentore di vestiti non lavati da lungo tempo, di sudore e di tabacco a poco prezzo. Stancamente, mi chiede se io non sia tra i nuovi assunti.

Al mio assenso, mi dice: “E’ inutile che cerchi degli autobus o dei tram qui! Sì, questa era un tempo il Terminal delle autolinee, ma ora non più. Tutto il lavoro si svolge a distanza per mezzo di autobus-droni. Tutto il lavoro viene svolto per mezzo di uno schermo e con una consolle che consente di lanciare i comandi fondamentali”.

E, mentre mi fornisce queste spiegazioni, digitando delle lettere su di un piccolo tastierino e cliccando su invio, dispiega un enorme schermo. Mi spiega che stando seduto alla mia consolle, potrò teleguidare gli autobus con una panoramica totale sul fronte della direzione di marcia, oppure modificando opportunamente l’angolo di ripresa, a seconda delle necessità. E così dicendo preme altri tasti e lo schermo si segmenta in tanti diversi riquadri che danno una panoramica a 360° della situazione attorno all’automezzo-drone che dovrei telecomandare.

Son un po’ turbato, anche perché dovrò iniziare questo lavoro senza alcun tirocinio preliminare, ma procedendo per prova ed errore.

Ed intanto macino le parole che mi ha detto in coda, prima di congedarsi, l’uomo in uniforme. “Ormai, il sistema dei trasporti pubblici mondiale - ha soggiunto - sia che si tratti di bus, treni, aerei, navi è del tutto automatizzato e, con questi dispositivi di comando e controllo a distanza, i guidatori virtuali possono essere dislocati anche a centinaia - se non a migliaia di chilometri di distanza -; è un po’ come il meccanismo di funzionamento dei call center odierni, in cui di fatto non c’è mai un responsabile che sia reperibile o identificabile in quanto tale”.

E cosa succede in caso di guasti o di incidenti?” - ho replicato.

Intervengono sul posto delle squadre - pure automatizzate - di manutentori o di soccorritori. - ha replicato l’uomo in uniforme (e se fosse stato anche lui un drone? o un ologramma?) - E’ chiaro che con questo sistema possono aversi tra i trasportati - cioè gli utenti ultimi del servizio -, in caso di incidente, morti e feriti. Ma ai gestori nulla viene addebitato: si tratta soltanto di effetti collaterali di un sistema la cui mission principale è l’abbattimento dei costi. Via, mettiti al lavoro, non farti troppi problemi e vedrai che tutto andrà liscio come l’olio”.

Insomma, spero di farcela.

Ma, a differenza che nella vita reale, nel caso di incidenti, provocati da un qualsiasi errore del manovratore a distanza , sarà sufficiente premere un bottone e fare un rapido rewind, sicuro e indolore (per l'operatore).

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26 settembre 2015 6 26 /09 /settembre /2015 06:35
(Foto di Maurizio Crispi)
(Foto di Maurizio Crispi)
(Foto di Maurizio Crispi)

(Foto di Maurizio Crispi)

E’ il momento incantato tra il lusco e il brusco

Il silenzio totale delle strade appena illuminate dalla fioca luce dei lampioni

e le alte sagome scure delle magnolie

Nulla si muove, non una singola foglia

Persino i gatti del vicinato, noti per la loro vivace vita notturna sono andati a dormire

Nel buio, in cui si avverte la vibrazione della prima luce
ancora non percepibile ad occhio nudo, c’è il mistero

Ma è solo un attimo sospeso

Un auto arriva, lame di luce che tagliano l’oscurità

La magia d’un istante cade in frantumi

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24 settembre 2015 4 24 /09 /settembre /2015 11:23
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato
Una gita a San Vito Lo Capo, un luogo perduto nella memoria e ritrovato

Sabato 19 settembre 2015, abbiamo colto l'occasione e siamo andati fuori Palermo. Dopo la settimana di stress del ricovero di Gabriel, era proprio quello che ci voleva.
Siamo partiti non troppo presto, giornata incerta, con il cielo che a tratti si rannuvolava - o per meglio dire - si rivestiva d'una patina bianco-lattiginosa che velava il sole, e ci siamo diretti alla volta di San Vito Lo Capo.
Perché proprio a San Vito?
Mah!
Nel mio desiderio c'era quello di arrivare in un luogo dove si potesse stare a contatto con la natura, ma senza grandi folle, ma dove - nello stesso tempo - il mare fosse facilmente accessibile per noi e per Gabriel.
L'idea del bagno di folla vociante e chiassosa mi fa orrore: con l'età sono decisamente peggiorato.
Ma forse anche perché San Vito Lo Capo, fa parte ormai del mio bagaglio di luoghi fantastici, per quanto sia nello stesso tempo una location reale.
E' il fatto che, per la sua posizione geografica, e per la difficoltà e le lungaggini per raggiungerlo via terra lo abbia sempre immaginato come un'isola, un lembo di terra non appartenente alla Terraferma, così come sono molti dei luoghi utopici a cui si può arrivare dopo interminabili viaggi che mettono alla prova la pazienza del viandante o attraversando passaggi perigliosi, elementi che tendono a fare di un luogo - se non consegnarlo di peso al lavorìo della fantasia - in qualche misura una "capsula del tempo".
Nel mio ricordo, San Vito Lo Capo è un luogo di una bellezza magnifica, schietto e sempre poco affollato: ma troppi anni sono passati, in verità, dalla mia precedente visita (forse più di 20, con certezza almeno 15).
Ci siamo fermati, lungo la strada, poco prima di "Purgatorio" (una frazione di Custonaci, il cui nome ha fatto ridere Maureen) attratti da quello che sembrava un luogo di ristorazione rustico e qui abbiamo mangiato: Gabriel - a causa del protrarsi degli scossoni del viaggio in auto, cominciava a manifestare segni di insofferenza.
Ma anche noi avevamo un certo languorino.
Un posto che prima non esisteva del tutto: prima la strada che correva dal bivio con la Statale Palermo-Trapani era totalmente desertico.
Il posto rustico quanto basta era affollato di turisti che mangiavano indolenti seduti a tavoli di tavole di legno quasi grezze con molto gusto e indolentemente.
Anche noi ci siamo assoggettati al ritmo messicano.
Cibo buono, non c'è che dire: alla fine, a coronamento, un'interessante granita di fico d'india.
Abbiamo ripreso la nostra via e, in poco, abbiamo percorso i venti chilometri che ancora ci separavano dalla nostra meta, passando per Castelluzzo che, sempre, per me ha avuto la caratteristica di un'assolata e desertica cittadina messicana con il suo stradone, fiancheggiato da case cubiche con porte e finestre sbarrate e ricoperte da grandi tendoni colorati, a protezione dele soglie (pensate per tenere fuori sia il caldo sia le mosche) sbatacchianti nel vento, per non parlare della sua chiesetta baroccheggiante che sembra venir fori dritta dritta da uno spaghetti-western.
E, finalmente, passando il bivio che porta a Monte Cofano e, poco dopo, quello che sale verso la frazione di Macari, ci si para davanti il grumo di case ai piedi del promontorio che come un grosso dito di gigante si protende verso il mare, coronato - dal lato di Trapani - da una torre di una guardia e - sul versante di Palermo-  da un alto faro bianco svettante verso il cielo.
Ma a parte questa visione, subito prima della nostra discesa, San Vito non l'abbiamo vista: un sacco di automobili, tantissimi motorini, tantissima gente (nei prossimi giorni è fissato un "Couscous Fest" - dal 18 al 27 settembre - una 10 giorni gastronomica con tanta musica di bande moderne e di musicisti di spicco, tra i quali uno dei più attesi era sicuramente Caparezza, ma anche Elio e le Storie Tese). 
Dovunque lodevoli divieti di transito all'interno del paese e nei pressi della spiaggia, con predisposte aree di parcheggio - a pagamento o gratuite - molto distanti dal mare e servizi-navetta gratuiti.
A giudicare dal numero di auto, il paese e la spiaggia dovevano essere stipati di gente, di cui tanti sicuramente attratti dal Festival del Couscous.
Ho detto a me stesso: "Nooooooo! Anche San Vito Lo Capo è stato corrotto dal furore vacanziero che tutto livella!" e ho concluso che lì non potevamo fermarci: il prezzo per raggiungere la spiaggia sarebbe stato troppo alto.
Di San Vito Lo Capo ho il vivido ricordo di un pernottamento durante un mio trekking a piedi da Castellamare a Trapani seguendo le anfrattuosità della costa, ma ricordo anche tante escursioni con gli amici tra l'esordio della primavera e dell'estate, con la possibilità di decidere all'ultimo minuto di un pernottamento improvvisamente in una delle tante stanze di case private messe a pensione.
Ma, ora, quel tempo credo che sia finito: e, anche se non ho constatato direttamente con i miei occhi, penso che la cittadina sia stata corrotta dal verbo vacanziero che funziona come un trita-sassi capaci di annullare ogni diversità e ogni caratteristica unica e originale e che sia pieno di gastronomie che vendono kebab ad ogni pie' sospinto, hamburger di scarsa fattura e poi sacchetti di patatine a profusione, oltre ad ogni genere di junk food, e negozi di ammennicoli per turisti made in Hong Kong.
Rimane solo il posto: ma probabilmente è poco più di un guscio vuoto ed insulso.
La grande montagna alle spalle con i suoi pinnacoli arditi e le gigantesche fessure dove si incunea il vento fa da testimone muto allo scempio.
Ho pensato di dirigerci alla volta della vecchia tonnara (la Tonnara del Secco, a circa tre chilometri dal borgo abitato , in direzione di Scopello) che da sempre mi è piaciuta e di cui pure avevo il ricordo piacevole di pernottamenti improvvisati, sia con il sacco a pelo sia con la tenda nel corso di avventurose trasferte.
Qualche trasformazione del paesaggio circostante, sopravvenuta in anni recenti o addirttura in fieri, mi impedisce inizialmente di beccare la traversina che alla tonnara conduce: è in corso di edificazione nella grande piana desolata che faceva da contorno alla tonnara, un grande resort, ben più di un ettaro di terreno totalmente recintato, un grande edificio in posizione asimmetrica rispetto al resto della proprietà e una grande piscina in corso di definizione attorno alla quale si ergono numerose palme appena messe a dimora per creare la parvenza di un'oasi nel deserto; e poi viali e vialetti e tante altre piante messe pure a dimora, assieme a essenze della macchia mediterranea, quali l'ulivo, il cappero e la palmetta nana. O è una proprietà privata (ipotesi improbabile) o è un investimento per farne un resort di lusso (magari per banchetti o matrimoni), ma è sicuramente uno stravolgimento del posto e delle sue caratteristiche.
La tonnara è un vecchio amico e la rivedo con lo stesso piacere. Non delude le mie aspettative: per le sue caratteristiche può accogliere soltanto pochi. Non ci sono comodità né attrazioni vacanziere, soltanto duri scogli e tratti pianeggianti che ti fanno l'occhiolino, ma che sono aspri e pieni di sassi puntuti che li rendono simili al letto di un fachiro. Ma se ci si accontenta, si può ritrovare con facilmente qualche posticino sul quale accovacciarsi in posizione precaria o addirittura distendersi: l'acqua che lambisce la grande discesa inclinata che serviva per mettere in mare i barconi della tonnara è lambita da una leggera risacca e appare chiara e trasparente.
C'è un silenzio profondo, non offuscato dalle chiacchiere dei pochi convenuti o dal frastuono di device elettrronici.
Insomma, l'antica magia la ritrovo in pieno, assieme a quella di esplorare la scogliera alla ricerca di piccole pozze formatesi con la risacca delle onde più grosse e sul loro contorno delle piccole spiaggette di ciottoli.
Ma tutto è in decadenza. La tonnara sta crollando: il suo muro perimetrale possente è decorato di cartelli che recitano "Pericolo di crollo". Alcune parti dello stesso muro ammalorate sono crollate, lasciando intravedere squarci di azzurro e parte delle strutture interne.
Le porte e le finestre sono sbarrate.
C'è un piccolo varco lungo il muro: le pietre sono crollate e, facendo attenzione, si può sgusciare all'interno.
Quello che si vede dentro è pura desolazione paesaggio di rovine industriali post-apocalittiche.
Grandi capannoni, alcuni con il tetto crollato: questa di San Vito era una tonnara di pesca e di lavorazione dei prodotti derivanti dal tonno. Da qui la sua struttura molto complessa: è un peccato che debba andare in malora così.
Così come è appare soltanto come un relitto del passato, in attesa del definitivo tramonto e del momento in cui tutto tornerà ad essere polvere e pietre, mentre invece potrebbe essere una testimonianza del passato, ricca e articolata.
Potrebbe essere restaurata questa tonnara per farla divenire un centro multi-funzionale che possa ospitare eventi correlati con il mare o anche un museo interamente dedicato alla storia della Pesca del Tonno.
Se fossimo in un altro Stato accadrebbe esattamente questo: la struttura non sarebbe lasciata andare alla deriva in questo modo.
Dopo l'esplorazione delle pozze, qualche lancio di pietre nell'acqua, splash splash, e un bagnetto ristoratore per me, con una breve nuotata (ma da quanti mesi non nuotavo?), ci siamo avviati per fare ritorno alla macchina e, quindi, a casa. Ma, prima di partire, non rinuncio alla possibilità di una sommaria esplorazione dei meandri dell'immensa fabbrica della tonanra, approfittando di un varco nel muro che mi consente di sgusciare all'interno: e qui tocco con mano la desolazione, ma nello stesso tempo di un reperto di "archeologia industriale".
Maureen, spinta da me, ha colto l'occasione per correre per alcuni chilometri lungo la strada statale che fu teatro, sino a non molti anni addietro, della "mitica" 100 km podistica da Trapani a Palermo, poi miseramente affondata nelle panìe di amministrazioni che non hanno un occhio benevole per queste manifestazioni.
Terminale della corsa di Maureen è stato Castellamare del Golfo, in una pasticceria-gelateria del luogo, assai rinomata per tutte le sue produzioni artigianale, a partire dalle cassatelle con ripieno di ricotta fresca che, in particolar modo, al mattino sono un must assieme al caffé o al cappuccino.
Ma anche i gelati e le granite sono ottimi.
Con il bottino d'una bella guantiera di dolci abbiamo, infine, preso la via del ritorno, mentre il sole si tuffava dietro una cortina di nubi, lasciando impressa nella retina una pennellata di rosso acceso.

simbolo dell'intero territorio: la Tonnara del Secco, tappa obbligatoria per chi vuole conoscere la storia di questi luoghi. Degli aristocratici edifici facevano da contorno all'antica Tonnara, le cui reti venivano calate a pochi metri dalla riva per catturare i grossi tonni che in primavera percorrevano numerosi le acque del golfo di Castellammare nella loro corsa per la riproduzione.  Chi ha avuto la fortuna di assistere alle mattanze di San Vito Lo Capo, ricorda che i proprietari se ne stavano con i loro ospiti comodamente seduti sul terrazzo del "Palazzotto" mentre, a pochi metri di distanza, la "ciurma" faceva mattanza.  Le reti ormai non vengono più calate dal 1969, ma il luogo è ancora pieno di fascino ed i pescatori che lo frequentano raccontano volentieri come avvenivano le mattanze.  Accanto agli immobili della tonnara si possono ancora oggi ammirare i resti di antichissimi impianti di lavorazione del pesce, che risalgono al IV secolo prima di Cristo.  Qui si lavorava il pesce - anche tonni - che veniva catturato nel mare prospiciente.  Le vasche erano realizzate in cocciopesto e "in elevato", con una canaletta di scolo per lo scarico delle acque della lavorazione a mare.  Questa location è stata scelta per diversi film e fiction tra cui il famoso "Cefalonia". Nella foto, si può vedere uno scorcio della Tonnara del Secco, quando ancora aveva una parvenza di vita.

simbolo dell'intero territorio: la Tonnara del Secco, tappa obbligatoria per chi vuole conoscere la storia di questi luoghi. Degli aristocratici edifici facevano da contorno all'antica Tonnara, le cui reti venivano calate a pochi metri dalla riva per catturare i grossi tonni che in primavera percorrevano numerosi le acque del golfo di Castellammare nella loro corsa per la riproduzione. Chi ha avuto la fortuna di assistere alle mattanze di San Vito Lo Capo, ricorda che i proprietari se ne stavano con i loro ospiti comodamente seduti sul terrazzo del "Palazzotto" mentre, a pochi metri di distanza, la "ciurma" faceva mattanza. Le reti ormai non vengono più calate dal 1969, ma il luogo è ancora pieno di fascino ed i pescatori che lo frequentano raccontano volentieri come avvenivano le mattanze. Accanto agli immobili della tonnara si possono ancora oggi ammirare i resti di antichissimi impianti di lavorazione del pesce, che risalgono al IV secolo prima di Cristo. Qui si lavorava il pesce - anche tonni - che veniva catturato nel mare prospiciente. Le vasche erano realizzate in cocciopesto e "in elevato", con una canaletta di scolo per lo scarico delle acque della lavorazione a mare. Questa location è stata scelta per diversi film e fiction tra cui il famoso "Cefalonia". Nella foto, si può vedere uno scorcio della Tonnara del Secco, quando ancora aveva una parvenza di vita.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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