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4 gennaio 2024 4 04 /01 /gennaio /2024 07:16
Cattedrale di Palermo (foto di Maurizio Crispi)

Ho appreso che la signora Motisi (Scola da nubile) che abita al terzo piano del condominio di Via Lombardia 4 dove io vivo è deceduta, dopo lunga malattia, nel pomeriggio del 3 gennaio.
Scendevo le scale verso le 19.00 per andare ad accompagnare mio figlio Gabriel e mi sono imbattuto in quelli di un'agenzia di onoranze funebri che portavano gli arredi e tutto quanto fosse necessario per allestire la camera ardente.
Mi sono molto rattristato.
I Motisi erano più giovani dei miei genitori di un decennio circa, ma si insediarono in questo stabile nello stesso periodo dei miei: un edificio che, di recentissima costruzione (eravamo nei primi anni Sessanta), fu popolato da famiglie ancora relativamente giovani e numericamente in crescita alla ricerca d'un alloggio più comodo e più confortevole.
Siamo stati sempre gli stessi a vivere qui.
Più o meno, in questo stabile siamo tutti aborigeni: non c'è stato molto ricambio.
Qui ci hanno sempre vissuto i primi proprietari oppure i loro eredi. Di rado si sono insediati nuovi affittuari; qualche volta (ma sono stati casi rari) sono arrivati degli inquilini.
Forse anche per questo tipo di storia c'è sempre stato in questo edificio, molto forte, un senso di famiglia allargata, che - possibilmente - manca in altri condomini
A ciò contribuisce senza dubbio il fatto che siamo in pochi: infatti ci sono soltanto 14 unità abitative, rispetto ad alcuni altri mega-condomini

Ogni anno (o quasi) purtroppo si deve fare il conto di chi non c'è più e questo è l'andazzo degli ultimi tempi.

La notizia della dipartita della signora Motisi mi ha profondamente rattristato anche per via della quasi coincidenza di tempistica.
Il suo decesso è avvenuto nel pomeriggio di ieri, mentre quello della mia mamma si è verificato nella notte tra il 3 e il 4 gennaio del 2010, con una sfasatura di alcune ore soltanto tra l'uno e l'altro
Quindi, nel dolermi per la scomparsa della signora Motisi, non posso che rimemorare la dipartita della mia mamma e della sua ultima notte, prima del trapasso che per lei fu come un lieve addormentamento, senza dolori o sofferenza.

Dove vanno coloro che non sono più?
Chi è credente ha pronta una risposta consolatoria ed è propenso a sostenere che vadano nel Cielo (secondo le formulazioni cristiane)
E chi non crede?
Ognuno si costruisce le sue personali teorie al riguardo
Quello che posso dire io è che i Morti sono in qualche modo sempre con noi
Ci guardano
Ci osservano
A volte dialogano con noi
Noi diamo loro voce, in realtà
Ci sono a volte come presenze impalpabili, come una brezza o un alito che si muove nell'aria delle nostre case e che ci fa vibrare
Compaiono nei nostri sogni e con loro interagiamo
Vivono e continuano a vivere perché siamo noi a mantenerli in vita nella nostra memoria
E quando noi non ci saremo più cosa accadrà?
Ecco questa è una bella domanda e apre una prospettiva su di un insondabile mistero
Se esiste una differente dimensione che ci attende nel post-morte, ecco, forse allora ci incontreremo con loro, con i nostri cari estinti (e questo è un pensiero consolatorio, al quale è ben difficile sottrarsi)

La mamma nel giorno del suo novantesimo compleanno (foto di Maurizio Crispi)

Questo scrissi l'anno scorso: Il 4 gennaio 2010, nelle prime ore del nuovo giorno, quando ancora faceva buio, la mamma se n’è andata via lievemente, in punta di piedi, quasi senza disturbare nessuno, come aveva sempre detto nei suoi desiderata.
Per andarsene, ha colto il momento in cui io, seduto accanto a lei in poltrona per vegliarla, mi ero addormentato.
Quando mi sono risvegliato, forse perché invaso dall’improvviso silenzio del suo respiro appesantito, la sua anima bella era volata via.
Dopo poche ore, alle 5.00, è suonata la sua sveglia che la mamma la sera prima, mi aveva chiesto di puntare alla solita ora, quando lei si alzava per supervisionare i preparativi del risveglio di mio fratello che erano affidati ad un badante (ma lei non rinunciava ad essere presente, per verificare che tutto andasse per il verso giusto)
Quella sveglia ci ha ricordato che la vita, anche senza di lei, continuava e che, pur assente da quel momento in avanti, avrebbe continuato a vegliare su di noi.
Mamma, dovunque tu sia, riposa in pace.
Continui a vivere nel mio cuore.

 

 

E il cuore quando d’un ultimo battito
Avrà fatto cadere il muro d’ombra,
Per condurmi, Madre, sino al Signore,
Come una volta mi darai la mano.
In ginocchio, decisa,
Sarai una statua di fronte all’Eterno,
Come già ti vedeva
Quando eri ancora in vita.
Alzerai tremante le vecchie braccia,
Come quando spirasti
Dicendo: Mio Dio, eccomi.
E solo quando m’avrà perdonato,
Ti verrà desiderio di guardarmi.
Ricorderai d’avermi atteso tanto,
E avrai negli occhi un rapido sospiro.

La Madre (Giuseppe Ungaretti)

Questa poesia di Ungaretti piaceva tantissimo alla mamma (lei amava Ungaretti, assieme a Quasimodo e a Caldarelli), tanto che la feci leggere in chiesa, durante il servizio funebre; il lettore di questa intensa e commovente lirica fu mio figlio Francesco. 

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25 novembre 2023 6 25 /11 /novembre /2023 12:43
Maria Patrizia Salatiello, 1972, Capo Gallo (Foto di Maurizio Crispi)

Mia cugina, Maria Patrizia Salatiello, amava molto la Palestina e la causa della Palestina. Ricordo che quando eravamo ancora studenti di Medicina mi prestò un libro di liriche scritte da poeti palestinesi da cui era rimasta molto colpita. Quel libro tardai a leggerlo e così, alla fine, rimase saldamente insediato tra i miei libri.

La sua passione per la Palestina si estrinsecò in numerose viaggi in Palestina e a Gaza City, di cui il primo avvenne nel 1997 (se non vado errato). Successivamente, prese corpo il progetto di portare aiuto alle martoriate vicissitudini dei Palestinesi con le sue competenze professionali e si sviluppò a partire dal 2011 un percorso di studio sull'impatto delle bombe, degli attentati e delle continue azioni di guerra e di oppressione da parte degli Israeliani  sui bambini e quindi sulle forme che in essi prendeva la Sindrome Postraumatica da Stress. L'avvio di questo progetto avvenne dietro invito da parte del CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud) e si concretizzò in numerosi viaggi e permanenza presso le strutture sanitarie di Gaza City dove si raccoglievano i bambini vittime di tali traumi. Lo studio e l'osservazione avvennero con il tipico strumentario dei neuropsichiatrici infantili con competenze psicoterapeutiche e prese corpo successivamente in un volume dal titolo "Essere bambini a Gaza: il Trauma infinito" (Edizioni Frenis Zero, 2016) che oltre ad essere un apprezzato saggio scientifico su di un tema poco attenzionato che è quello dei bambini sottoposti a traumi di guerra è anche diario e resoconto di viaggio, assieme appassionato e dolente.

Lo studio-memoir di Maria Patrizia Salatiello andrebbe sicuramente riletto oggi, poiché con gli eventi recenti di cui siamo testimoni indignati è ritornato ad essere tremendamente attuale.
E mi dispiace che pochi tra gli addetti ai lavori - a livello pubblico - se ne siano ricordato (anche soltanto menzionandolo) e abbiano voluto esprimere un grazie per questo potente contributo ante litteram alla strage dei bambini palestinesi.

Lo sto facendo qui io, in questo mio blog; mettendo assieme in un collage materiali vari reperiti attraverso il web.

 

Maria Patrizia Salatiello, Essere bambini a Gaza: il trauma infinito, Frenis Zero

Maria Patrizia Salatiello, Essere bambini a Gaza: il trauma infinito, Frenis Zero

Questa breve nota scrissi nel novembre 2012

Un pensiero di solidarietà e di vicinanza alla decina di Italiani, impegnati in progetti di cooperazione internazionale che, in questo momento, si trovano all'interno della Striscia di Gaza, sottoposta ai violenti bombardamenti degli Israeliani.
Tra questi, la palermitana Maria Patrizia Salatiello, secondo un'articolo comparso oggi sul Giornale di Sicilia.
Gli Italiani sono al momento ospitati in un "posto relativamente sicuro" assieme a molti altri operatori internazionali.
Ma in questo momento critico, mentre uomini donne e bambini palestinesi continuano a morire, nessuno può dirsi "veramente" al sicuro.

Maurizio Crispi

Gaza sotto attacco nel novembre del 2012 (dal web)

(Questo scrisse Maria Patrizia Salatiello il 6 luglio 2016 nel momento del "varo" del suo libro) Alla fine di ottobre del 2011 sono tornata a Gaza, una terra che amo tantissimo, dopo una dolorosa lontananza durata undici anni. 
Sono stata invitata dal CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud) a partecipare a un progetto in sostegno dei bambini che avevano subito gravissimi traumi dopo l’attacco israeliano chiamato “Piombo fuso” e che tanti morti aveva fatto fra la popolazione, soprattutto fra i bambini. 
Da allora sono tornata almeno una volta all’anno e in questo periodo vi sono stati altri due attacchi, “Margine protettivo” nel novembre 2012 e “Colonna difesa” a fine luglio 2014. Quest’ultimo è stato il più sanguinoso, il più distruttivo, il più angosciante e ha lasciato nella popolazione e nei bambini, ma anche negli operatori, ferite indelebili.
L’attacco è iniziato poco dopo che io avevo appena lasciato la Striscia.
Per me, per tutti quelli che sono legati a Gaza e alla sua popolazione, sono stati giorni d’angoscia.
Mi chiedevo cosa potevo fare, certo tanta controinformazione, ma e poi?
Così ho cominciato a scrivere. Per sentirmi più vicina ai bambini e ai colleghi palestinesi nella speranza di fare per tutti loro qualcosa di utile che sarebbe rimasto nel tempo.
Ne è nato un saggio scientifico, che ho voluto intitolare: “Essere bambini a Gaza: il trauma infinito”, perché la peculiarità dei traumi da guerra nella Striscia è, purtroppo, quella di non cessare mai.
Nel mio libricino parlo delle conseguenze che i traumi di guerra hanno sulla vita emotiva dei bambini in generale e sui bambini di Gaza in particolare, del concetto di trauma e di trauma da guerra, dei sintomi iniziali negli adulti e nei bambini, della loro evoluzione, degli studi scientifici, in particolare di quelli effettuati a Gaza, della loro metodologia, delle modalità d’intervento e di cura.
Ma il libro è anche un lungo racconto, che narra di me, di Gaza, dei suoi bambini, che amo chiamare i miei bambini. E’ una storia che inizia tanto tempo fa, una storia fatta di passione, di momenti che mi hanno aiutato a crescere, ma anche di sofferenza, di difficoltà, di angoscia.
Il CISS (Cooperazione internazionale Sud Sud, mi ha chiesto di scrivere una paginetta per le sue newsletter, la sto condividendo con voi.

Maria Patrizia Salatiello, Essere bambini a Gaza

"Questo libro è un saggio scientifico sulle conseguenze che i traumi di guerra hanno sulla vita emotiva dei bambini in generale, e sui bambini di Gaza in particolare. Ne consegue che vi si parlerà del concetto di trauma e di trauma di guerra, di PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress), dei sintomi iniziali negli adulti e nei bambini, della loro evoluzione, degli studi scientifici, in particolare di quelli effettuati a Gaza, della loro metodologia, delle modalità d'intervento e di cura. Sarà dato ampio spazio alla metodologia utilizzata da me e dai miei collaboratori nella nostra ricerca, di cui si darà ragione. Ma questo libro è anche un lungo racconto, che narra di me, di Gaza, dei suoi bambini, che amo chiamare i miei bambini. E' una storia che inizia tanto tempo fa, una storia fatta di passione, di momenti che mi hanno aiutato a crescere, ma anche di sofferenza, di difficoltà, di angoscia" (dall'introduzione di Maria Patrizia Salatiello)

 

L'autrice è docente di Neuropsichiatria infantile all'Università di Palermo, membro della Società psicoanalitica italiana e della International Psychoanalytical Association.
Nata a Palermo, l'8 marzo 1950, ci ha lasciato all'inizio del 2023.

Il testo che segue è un estratto di uno scritto più ampio che è stato successivamente pubblicato come capitolo in un libro collettivo per le Edizioni Frenis Zero, curato da Ambra Cusin e Giuseppe Leo.

Maria Patrizia Salatiello è docente di Neuropsichiatria infantile all'Università di Palermo e membro della Società psicoanalitica italiana e della International Psychoanalytical Association,

"Infanzia a Gaza" di Maria Patrizia Salatiello

(Maria Patrizia Salatiello) Nel lontano Natale del 1997 entrai per la prima volta a Gaza. Era da tempo che desideravo andarvi per lavorare con i bambini e allora ne ebbi finalmente la possibilità Devo dare ragione di questo mio desiderio che mi ha condotto a una lunghissima esperienza con questa terra martoriata.

La diaspora palestinese aveva portato a Palermo una piccola comunità palestinese, di cui feci conoscenza e con alcuni dei giovani che la componevano divenni molto amica. In particolare con Mohammad Mansur, che studiava psicologia. La nostra amicizia divenne anche collaborazione professionale, poiché egli entrò ben presto a far parte della cerchia di specializzandi con i quali tenevo un gruppo di supervisione clinica sulla diagnosi in Neuropsichiatria infantile.

In particolare con tre di essi e con Mohammad iniziammo una ricerca al Cep, uno dei quartieri più degradati di Palermo, dove iniziammo a lavorare con i bambini che avevano subito dei traumi. Era lo stesso lavoro che Mohammad aveva in animo di fare in Palestina, quando vi fosse tornato dopo la laurea. Non era assolutamente il caso che lui vi andasse prima, c’era il rischio che gli israeliani non lo facessero più rientrare in Italia e non avrebbe più potuto laurearsi.

La ricerca era possibile grazie alla organizzazione non governativa con la quale collaboravo, il CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud).

Dopo alcuni mesi feci il mio primo viaggio in Palestina, un viaggio conoscitivo che ebbe però subito l’effetto di un pugno nello stomaco.

Ero partita con l’Associazione per la pace, di cui era presidente Luisa Morgantina, che poi divenne eurodeputato e il cui impegno per la Palestina dura tuttora.

Era un viaggio di gruppo del tutto “alternativo”, che mi diede modo di conoscere la realtà della Cisgiordania e di Gaza. Fu una full immersion nella realtà di questa terra martoriata e l’ho appena definita un pugno nello stomaco. Sono cresciuta nell’orrore della Shoah, leggendo i libri di Primo Levi e il diario di Anna Frank, ma era pur vero che attraverso gli appassionati racconti di Mohammad avevo imparato ad amare la Palestina. All’inizio del viaggio il mio animo era come diviso in due, ma ben presto cominciai a toccare con mano la terribile situazione dei palestinesi, la cui vita, nelle grandi e nelle piccole cose, era resa un inferno dalle persecuzioni israeliane, che accomunavano Gaza e la Cisgiordania, anche se la situazione della Striscia era più pesante. La violazione continua dei diritti umani, l’esproprio delle terre, gli innumerevoli check point che rendevano gli spostamenti difficilissimi, i raid notturni nelle case, quando i soldati entravano per eseguire arresti indiscriminati, che nella migliore delle ipotesi portavano e portano alle cosiddette detenzioni amministrative, che consistono nel tenere in carcere una persona a tempo indeterminato, senza che venga formulata un’accusa e senza un processo.

Per questo dicevo che il viaggio per me fu come un pugno nello stomaco. Non riuscivo a credere che un popolo che aveva tanto sofferto, in un modo così disumano, potesse a sua volta diventare persecutore di un altro popolo.

Verso la metà del mio soggiorno entrai a Gaza, con Benedetta, la cooperante del CISS e potei prendere contatto con i colleghi del Mental Health Center, una grossa ong palestinese finanziata soprattutto dai paesi scandinavi. Alcuni psicologi di questa organizzazione stavano lavorando al follow up dei bambini che avevano partecipato alla prima intifada e che presentavano quella che le classificazioni internazionali chiamano PTSD. La sindrome post traumatica da stress era stata inquadrata nosograficamente sui reduci della guerra del Vietnam, la maggior parte degli studi erano stati sempre fatti sugli adulti e quindi le ricerche del Mental Health sui bambini erano pioneristiche.

Come eravamo rimasti d’accordo tornai con i miei allievi ai primi di luglio del 1998, portavamo con noi “i ferri del mestiere”, la scatola con i giochi che utilizzavo nelle sedute di osservazione con i bambini.

Atterrammo a Tel Aviv, dove subimmo i minuziosi controlli della Security israeliana, costituita da giovanissimi agenti, ben addestrati, che facevano anche degli estenuanti interrogatori, le domande più frequenti, ripetute più e più volte, volgevano su quale fosse la nostra destinazione, cosa eravamo venuti a fare e così via.

L’interrogatorio poteva durare anche un’ora. Così fu in tutti i miei viaggi in Palestina, ma imparai ben presto a restare calma, a non perdere la pazienza.

Prendemmo un taxi e arrivammo al valico di Erez. Con Benedetta lo avevo oltrepassato in macchina, questa volta invece fu molto più complicato. Arrivati al check point dovemmo scendere dal taxi e i  nostri bagagli furono passati al metal detector. Facemmo poi un tragitto a piedi e al check point palestinese trovammo ad attenderci Taisir, un ingegnere che stava lavorando alla potabilizzazione delle acque all’interno di un progetto del CISS finanziato dall’Unione Europea. Taisir ci fu collaboratore e amico per tutto il nostro soggiorno a Gaza. Mentre percorrevamo in macchina la strada che ci portava alla casa del CISS, nella quale avremmo alloggiato mi guardai intorno. C’erano bambini ovunque, Gaza è la terra dei bambini, che sono numerosissimi. E queste immagini dei ragazzini sono nella mia mente indissolubilmente legati alla Striscia, assieme al mare, di un azzurro tanto simile a quello della mia Sicilia. Ma erano anche evidenti i segni dell’estrema povertà. A Gaza c’erano pochissime possibilità di lavoro e così uomini e donne andavano a lavorare in Israele, c’era però bisogno di un permesso particolare, la carta verde e poi bisognava mettersi in coda al check point all’alba e tornare la sera tardi.

Adesso la situazione è peggiorata, Gaza è sigillata, i suoi abitanti non possono né entrare né uscire e riescono a sopravvivere soltanto grazie all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Io e i miei giovani colleghi imparammo ben presto a conoscere questa tristissima realtà, ma anche la fierezza di un popolo che continuava a lottare.

Trascorsi un mese a Gaza, lavorando con gli psicologi palestinesi. Mettemmo innanzitutto a confronto le nostre metodologie, quella testologica, utilizzata dall’equipe diretta dal dottore Samir Quota e la mia basata sull’osservazione in assetto di gioco.

La cosa interessante fu che i colleghi palestinesi, in particolare proprio Samir, s’interessarono moltissimo alla nostra metodologia e l’applicarono anche loro nel lavoro con i bambini.

Molto interessante fu l’incontro con un ragazzino di undici anni, Mohammad, che quando aveva soltanto sei anni aveva partecipato alla prima Intifada, durante la quale si era trovato in due situazioni traumatiche, all’interno delle quali era stato brutalmente picchiato dai soldati israeliani.

I due eventi erano rimasti impressi nella sua mente con la qualità delle immagini visive, che si snodavano nella sua mente come le sequenze di un film, interferendo pesantemente con la sua capacità di attenzione e concentrazione. Così, pur essendo abbastanza bravo a scuola, faceva una fatica terribile a seguire le spiegazioni degli insegnanti.

Era la prima volta che mi trovavo di fronte a un caso così evidente di PTSD in un bambino, ma avrei imparato a conoscerla bene nelle mie ultime quattro missioni.

C’è però un importante fattore che differenzia i traumi subiti dai bambini durante la prima intifada e quelli dovuti alle tre terribili operazioni militari di questi ultimi anni. I bambini che sfidavano i soldati israeliani tirando pietre erano soggetti attivi di queste esperienze e questo in un certo senso, li proteggeva dagli effetti del trauma.

I ragazzini che ho visto nelle mie quattro missioni sono stati soggetti passivi dei bombardamenti e questo li ha resi più vulnerabili.

Il lungo soggiorno non fu soltanto di lavoro, trascorrevamo il pomeriggio e la sera con Taisir, che ci mostrava con orgoglio il suo lavoro alla potabilizzazione dell’acqua e ci faceva partecipi delle difficoltà che stava incontrando per completare la messa in opera degli ultimi metri di tubazione. Gli israeliani facevano di tutto per intralciare e ritardare i lavori. Eppure il progetto era importantissimo, l’acqua di Gaza è pesantemente inquinata ed è anche salmastra.

Trascorrevamo la sera al ristorante, in riva al mare, discutendo animatamente per ore, c’era una grande comunione di idee, ma anche delle differenze culturali, sulle quali i miei giovani colleghi spesso diventavano intransigenti, mentre io amavo invece sottolineare gli elementi di comunanza.

L’estate successiva tornai a Gaza da sola. Volevo continuare la mia collaborazione con il Mental Health, certo, ma il mio scopo principale era riuscire ad avere un progetto con il CISS capofila e me stessa come responsabile scientifico. Avevo bene in mente quali dovessero essere modalità e finalità di questo progetto.

Mohammad si era appena laureato con me come relatore con una tesi in cui metteva a confronto i traumi dei bambini del Cep con quelli di Gaza.

Nell’ultimo capitolo della sua tesi di laurea scriveva: “Ogni volta che vedevo bambini, ogni volta che ascoltavo le mamme, ogni volta che leggevo le loro storie, mi si ripeteva nella mente una domanda, una sola domanda: che fare?

Questa domanda ne implica tante altre e bisogna ben formulare le domande per darsi delle risposte e bisogna capire le richieste che sia i bambini sia le mamme pongono per riuscire ad aiutarli, cioè per dare una risposta all’interrogativo: che fare?

Quasi tutti i bambini palestinesi e siciliani che ho visto hanno subito un trauma e quasi tutti i loro traumi sono causati da perdite, non necessariamente fisiche.

La morte, l’arresto o le ferite gravi delle figure di attaccamento, non elaborate dal bambino stesso e non contenute da chi si prende cura di loro, rimangono congelate nella loro mente.  E poi, anche dopo anni, risalgono in superficie e causano al bambino una sofferenza indicibile.

L’obbiettivo di questo studio sin dall’inizio non è stato quello di “studiare” i bambini che hanno subito violenza, ma quello di aiutarli a superare i loro traumi e di farli crescere in un ambiente sano che dia loro cure, amore e sicurezza….

…un intervento realmente trasformativo deve essere a tutto campo. Innanzitutto non si può prescindere da un mutamento radicale della situazione socioeconomica e politica, sia nelle realtà occidentali, sia in Palestina.

Nella piena consapevolezza di quanto sia lungo e difficile il percorso che conduce a un reale cambiamento di queste realtà, si deve comunque iniziare a intervenire sia sui bambini, sia sulle loro famiglie. Utilizzo come termine che designa, in senso concreto e metaforico, lo strumento di lavoro necessario: “Centri polivalenti per l’infanzia e le loro famiglie”.

Se è pur vero infatti che alcuni bambini palestinesi e del CEP hanno bisogno di interventi psicoterapeutici individuali o di gruppo, è altrettanto vero che la complessità dei loro problemi è tale che richiede modalità di lavoro che devono avere come principali caratteristiche la poliedricità e la capacità di mutare continuamente strategia, adattandola ai bisogni propri di ogni singolo bambino”.

Il mio rimase soltanto un sogno, io non riuscì ad accedere ad alcun progetto e mi rimase dentro una grande amarezza.

Certo, l’anno dopo ebbi la grande soddisfazione di essere invitata a un congresso internazionale a Gaza, al quale presentai una relazione dal titolo: “Women of Sicily, women of Palestine”.

Tornai in Palestina nel 2001 e andai in Galilea dove incontrai Mohammad. Era infine tornato a casa, una decisione difficilissima, che aveva preso dopo un lungo anno di riflessione.

Lo andai a trovare anche nel 2006 e trovai un professionista molto preparato nel campo dei traumi, ma entrare a Gaza era ormai diventato impossibile.

Dapprima la seconda Intifada, molto più dura della prima, poi l’ascesa al potere di Hamas fecero sì che Israele sigillasse la Striscia.

Fu una lontananza dolorosa, intrisa di una profonda nostalgia, anche se cercavo di tenermi sempre informata di quello che accadeva a Gaza e anche in Cisgiordania.

E vennero, nel dicembre 2008, i giorni terribili della guerra, l’operazione che gli israeliani hanno chiamato Piombo fuso e che ha fatto più di mille e cinquecento morti, di cui un terzo bambini.

Non appena i bombardamenti cessarono e gli israeliani riaprirono il valico di Erez Mohammad riuscì a entrare a Gaza, a dare sostegno alle persone traumatizzate. Mi chiese a lungo di andare con lui, ma, sia pure con dolore, rifiutai. Sarebbe stato velleitario, senza un’organizzazione italiana alle spalle.

Malgrado fossi certa di aver preso la decisione più saggia ero piena di sensi di colpa che portai con me a lungo.

Due anni dopo ricevetti da Salvo Maraventano, il responsabile del Ciss per la Palestina, la richiesta di partecipare a un progetto che si occupava dei bambini di Gaza, che erano stati gravemente traumatizzati dai bombardamenti e dall’invasione terrestre dell’esercito israeliano.

E così, infine, sono tornata a Gaza.

Se nel lontano 1997 ero rimasta colpita da Erez, questa volta ho trovato la situazione molto più complicata, più grave, controlli minuziosissimi in entrata e ancora di più in uscita. Soltanto i cooperanti internazionali possono entrare e pochissimi palestinesi ne possono uscire, per lo più per motivi gravi di salute. Gli abitanti di Gaza non possono più andare a lavorare in Israele. Si arriva al valico e bisogna posteggiare la macchina, poi a piedi ci si avvicina a un enorme edificio in cemento armato e acciaio. Prima di entrare c’è una guardiola, dove bisogna consegnare i passaporti e attendere, quanto non è dato sapere, dipende dal poliziotto di turno. Infine si viene chiamati e il passaporto è restituito, magari assieme a domande del tipo: “Do you have a weapon?”. “No, I don’t have”.

Si entra e uno per volta si viene interrogati dal poliziotto o dalla poliziotta, domande su domande, ma dipende moltissimo dal personale di turno, alcuni sono più gentili e meno inquisitori. E poi il primo tornello, una porta d’acciaio che non si sa quando si aprirà. Ed infine il lunghissimo camminamento, uno, due, forse tre chilometri, con la rete metallica ai lati e il tetto di lamiera. Nella mia prima missione l’ho fatto a piedi, trascinando stancamente il trolley. Poi per fortuna l’ambasciata turca ha provveduto delle macchinette elettriche.

L’altra triste novità i due check point palestinesi, chiamati arba arba e kamsa kamsa (quattro quattro e cinque cinque), uno di Fatah, uno di Hamas, e se nel primo si limitano a controllare il passaporto, nel secondo aprono e perquisiscono i bagagli, alla ricerca di carne di maiale o di alcolici, nulla di tutto ciò deve ormai entrare a Gaza.

E infine ho visto Youssif, il coordinatore palestinese del progetto, rientrato da poco dall’Italia, che ci attendeva con la macchina. Ci siamo diretti verso l’ufficio del CISS, l’aria era mite, molto più mite che nella West Bank, guardavo, contenta e triste insieme, fuori dal finestrino, contenta perché ero di nuovo lì a fare qualcosa per i bambini, triste per la situazione in cui intuivo avrei lavorato.

La macchina camminava per le strade di Gaza ed io ritrovavo le vie che mi erano familiari, i bambini a centinaia, i ragazzini che andavano a scuola. Non v’erano più macerie e si vedevano un sacco di cantieri edili aperti, ma le scuole erano ancora insufficienti e vi erano doppi e tripli turni.

E così ho iniziato la prima delle quattro missioni che ho fatto sino ai primi di giugno del 2014.

E’ stata un’esperienza davvero interessante, lo staff degli psicologi e degli animatori era piena di entusiasmo, anche se dovevano sobbarcarsi un lavoro molto duro. I bambini che seguivano erano tantissimi, alcuni di essi li ho visti anche io utilizzando sempre l’osservazione in assetto di gioco. Gli psicologi avevano scelto per me i casi che più li mettevano a dura prova, affinché io li potessi consigliare. Ma per me le consultazioni hanno avuto anche lo scopo di cercare di trasmettere il mio modo di lavorare con i bambini. Le sedute di osservazione venivano discusse tutti assieme e questi erano momenti fecondi di riflessione. 

Il mio lavoro si è potuto svolgere soltanto grazie a Youssif, il coordinatore palestinese del progetto, che aveva trascorso alcuni anni della sua vita in Italia, dapprima studiando e poi lavorando. Lì si era sposato e aveva avuto la prima figlia. Youssif mi ha sempre fatto da interprete, durante tutte e quattro le mie missioni e le sue traduzioni erano impeccabili non soltanto per la sua ottima conoscenza dell’italiano, ma soprattutto perché ha da subito capito lo spirito del mio modo di lavorare e ha rivelato una grandissima capacità di immedesimarsi con i bambini, che ha saputo tradurre seguendone i moti dell’animo.

Sono tornata ad agosto 2012, la situazione a Gaza pareva tranquilla, ho lavorato alacremente ma poi è accaduto qualcosa che ha fatto sì che io entrassi a contatto con i bambini e con tutto il popolo di Gaza “dal di dentro”. Una notte infatti gli israeliani hanno bombardato la città, proprio mentre ero lì. Boati spaventosi, che hanno fatto tremare i vetri della casa che mi ospitava. In apparenza non ho subito uno shock particolare, la notte ho dormito tranquillamente e altrettanto tranquillamente mi sono svegliata. Ma non era così, ho reagito mettendo in atto il meccanismo di difesa della negazione. Me ne sono accorta il giorno dopo, lavorando con i bambini, che mi hanno permesso di entrare in contatto con la mia paura, la mia angoscia.

Non era previsto che dovessi tornare a Gaza molto presto, ma eravamo riusciti, io, Salvo, Valentina, Youssif, ad avere approvata una relazione a un congresso internazionale sull’educazione, organizzato dall’Università di Gaza e da una Università del Massachusetts, che doveva tenersi nel novembre del 2012.

Ed è stato in quei giorni che ho vissuto lo stridente contrasto fra la voglia di una vita “normale” dei palestinesi e la terribile realtà della guerra.

Quando sono arrivata la situazione fra Gaza e Israele era pesantissima. A Khan Younis, un ragazzino era stato ucciso da un colpo di mortaio israeliano. La risposta di Hamas era stata la solita, lancio dei razzi Qassam, ordigni artigianali che non hanno mai fatto vittime, ma si temeva la risposta di Israele. Sono entrata lo stesso a Gaza, ho partecipato al Congresso, che ha avuto un’ottima riuscita e si è concluso con una festa molto bella, un pranzo che non finiva più, una grande torta, piccoli fuochi d’artificio, uno spettacolo con dei ragazzi che hanno ballalo la Dabka, la danza popolare palestinese. Certo, tutte e due le notti precedenti c’erano stati degli sporadici bombardamenti, ma avevo imparato sulla mia pelle che quella era la normalità della vita a Gaza.

Il giorno dopo si è scatenato l’inferno. Gli israeliani hanno compiuto un omicidio mirato, colpendo con un missile la macchina del capo dell’ala militare di Hamas, che ha risposto moltiplicando il lancio dei Qassam.

La risposta di Israele è stata gravissima. Hanno iniziato a bombardare giorno e notte per dieci giorni e io ero lì, chiusa a casa con i cooperanti e Michele Giorgio, il corrispondente del quotidiano il Manifesto per la Palestina.

La mente umana è strana, come strana è stata la mia reazione, la notte dormivo malgrado il rumore assordante delle bombe a cui si è aggiunto il cannoneggiamento delle navi della marina militare israeliana.

Quando siamo riusciti a uscire da Gaza, appena passato il valico di Erez, i ragazzi piangevano. Si sentivano in colpa per essere in salvo, mentre tutti i nostri amici palestinesi, Youssif per primo, gli psicologi, gli animatori, tutti i bambini di cui ci eravamo fatti carico, erano rimasti lì, sotto le bombe, rischiando la vita e che, anche quando fossero sopravvissuti, avrebbero avuto una ulteriore riattivazione dei traumi.

E’ passato più di un anno e mezzo prima che potessi tornare a Gaza, l’Unità Territoriale Locale del nostro consolato a Gerusalemme ha tardato un tempo infinito a rifinanziare il progetto, proprio quando i ragazzini ne avevano più bisogno.  

Erano gli ultimi giorni di maggio del 2014 quando sono rientrata a Gaza e ho trovato una città bellissima. I palestinesi erano riusciti a sgombrare tutte le macerie e a ricostruire tutti i palazzi che erano stati distrutti dai bombardamenti. Avevano abbattuto il muro di cinta del porto e lo avevano ampliato, La sera le famiglie con i loro numerosi bambini, passeggiavano sul lungomare e si fermavano nei chioschetti del porto a mangiare il gelato.

Ma, come avevo pensato, l’ultimo attacco israeliano aveva aggravato al situazione dei bambini. Ho fatto delle consultazioni difficilissime con delle bambine gravemente traumatizzate. Sono andata via nella certezza di potere tornare presto ed invece pochi giorni dopo la mia partenza è iniziato il più terribile degli attacchi israeliani, l’operazione “Margine protettivo”.

E’ stato un massacro ed ancora una volta sono stati i bambini a pagare il più alto tributo di morte e mutilazione.

Non sono ancora tornata a Gaza, la ong di cui sono consulente non vuol lasciarmi andare e io me ne dolgo perché sono certa che potrei essere di aiuto ai bambini, ma anche agli operatori, che saranno anche loro profondamente traumatizzati.

Il mio pensiero va soprattutto alla mia ultima missione, quella prima di quest’ultimo inferno, quando la situazione mi  era parsa stranamente più tranquilla.

Ho già detto però come sia stata la mia missione più difficile da un punto di vista lavorativo. Ho visto tre ragazzine, una di esse, Maram, la conoscevo bene, poiché l’avevo incontrata di già durante tutte e tre le altre missioni. Con le altre due è stato il primo incontro, drammatico in entrambi i casi. Sono bambine con un trauma gravissimo e soprattutto una di esse appare essere senza speranza.

Proprio di essa vorrei narrare, poiché la sua storia e il materiale emerso durante le sedute di osservazione danno bene l’idea della sofferenza dei bambini di Gaza.

Iman è una ragazzina di dieci anni che vive con la sua numerosissima famiglia (sono tredici fratelli e sorelle, alcuni dei quali sposati e con figli), in un povero sobborgo. Le loro condizioni economiche sono molto brutte.

Durante Piombo fuso si rifugiano in una scuola dell’UNRWA, gli israeliani promettono una tregua di un paio di ore e così la ragazzina e i suoi vanno a casa a prendere dei vestiti. Malgrado la tregua cade un missile, che uccide molte persone, alcuni dei quali sono suoi familiari. Iman vede con i suoi occhi la cuginetta Fatima fatta a pezzi e i pezzi del suo corpo sparsi per la strada, Lei viene ferita a una gamba, resta del tutto cosciente e ricorda la vista del suo osso bianco.

Dopo questo terribile episodio Iman è sempre spaventata, la notte non riesce a dormire da sola, urla e piange mentre sta dormendo, si sveglia e prega più di una volta per notte perché ha paura di morire, di giorno non gioca con gli altri bambini, è come se fosse fragilissima. Le immagini del trauma sono sempre nella sua mente. Durante il primo incontro con lo psicologo la ragazzina appare molto stressata e annoiata, è evidente sul suo viso la gravità del trauma e la pressione che ella vive. Cerca di non parlare dell’incidente che ha vissuto. E’ da tanto che non sorride. Durante l’osservazione nella ludoteca si nota che non partecipa a nessun gioco, sta lontana dagli altri bambini.

 


 


 

Bene. Sono soddisfazioni. Oggi prima di pranzo, sono entrata nel sito internet della International Psychoanalitical Association e vi ho trovato il programma definitivo del Congresso che si terrà a fine aprile a Sidney in Australia. Fra i quindici relatori international ho trovato il mio nome e cognome e il titolo del lavoro: War trauma in children. Sono felice per ma anche per Gaza e i suoi bambini che riuscirò a fare conoscere e amare a un pubblico internazionale di psicoanalisti.

Maria Patrizia Salatiello

(Maria Patrizia Salatiello, a fine 2019) Sto tentando un azzardo incredibile che, con tutta probabilità, resterà un sogno. Sto scrivendo un "paper" da presentare a un congresso internazionale di Psicoanalisi che si terrà a Sidney a maggio nel 2020. Credo che questo azzardo resterà  una delle tante mie  fantasie. Ecco comunque l'incipit: 
War trauma in children: the neverending story
Iman, la sua storia.
Iman è una ragazzina di dieci anni che vive con la sua numerosissima famiglia, tredici fratelli e sorelle, alcuni dei quali sposati e con figli, in un povero sobborgo. Le loro condizioni economiche sono molto brutte. Ha appena cinque anni quando Israele lancia il suo sanguinoso attacco alla striscia di Gaza che farà milletrecento ventitré morti di cui quattrocento quarantasei bambini. La incontro a maggio del 2014. Le dico chi sono e cosa faccio. Le chiedo cosa desidera fare e mi risponde che vuole parlare. M. P. “Raccontami”. I. “La notte faccio brutti sogni e poi li dimentico, alcuni però li ricordo. Ho sognato che mamma e tutta la famiglia erano morti e io restavo da sola”. M. P. “E’ proprio un sogno molto brutto”. I. “Sì”. M. P. “L’hai raccontato a qualcuno?” I. “A mamma e alla dottoressa, l’ho raccontato allo stesso modo, adesso vorrei parlare di mia cugina Fatima, è stata fatta a pezzi da un missile, io l’ho vista e poi ho visto la mia gamba ferita e l’osso bianco uscito di fuori”. Questo ricordo di ben cinque anni fa torna di continuo alla memoria della bambina con la vividezza delle immagini visive, iconiche, nei suoi racconti che ha fatto negli incontri con gli psicologi, in quelli con me e sembra precludere la via a ogni altra possibile comunicazione ed è il tema dominante dei suoi disegni.

Essere bambini a Gaza: il trauma infinito. Lo studio di Maria Patrizia Salatiello torna ad essere di piena attualità oggi. E andrebbe letto e divulgato

Addio Patrizia... La notizia della tua morte é stata come un fulmine per il mio cuore.
Era per me l'amica, la sorella, la mamma e anche una guida professionale ed ha lasciato la sua importantissima impronta sulla mia vita.
Era la mia relatrice della tesi di laurea che era una ricerca sul trauma dei bambini di Gaza e dalla prima sua visita lì è stata colpita, come me, dalla sindrome di Gaza.
In una delle sue missioni a Gaza ha vissuto un attacco israeliano feroce.
Neuropsichiatria infantile, psicoanalista e soprattutto umana, la sua umanità era la sua guida, ha messo la sua conoscenza al servizio dei dannati del mondo.
A Cinzia e Barbara e alla sua famiglia,mi unisco al vostro dolore, è anche il mio.

Mohammad Mansur


رحلت عنا بالأمس الدكتورة Maria Patrizia Salatiello والتي رافقتني في مسيرة تخرجي ببحث عن أطفال غزة في أواسط التسعينيات ومن وقتها صارت من أكبر المناصرين الأجانب لغزة وأطفالها، حيث تواجدت هناك عشرات المرات، حتى تحت القصف.
كانت صديقة واخت وام ومرشدة مهنية وتركت بصمتها في حياتي الشخصية والمهنية. لروحها السلام.

Mohammad Mansur

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20 ottobre 2023 5 20 /10 /ottobre /2023 06:56
Santa Irene

Oggi è il 20 ottobre ed è il giorno dedicato a Santa Irene. 
Quindi era il giorno in cui ricorreva la piccola festa familiare per celebrare l’onomastico della mamma. 
Era un giorno speciale in cui tanti della famiglia, anche se in orari diversi della giornata, venivano da noi, come anche tanti altri ed altre che ci tenevano a farle gli auguri.
Mio fratello, alla vigilia, mi ricordava sempre di trovare un regalino per lei. 
E poi, siccome lo consideravamo un giorno speciale, c’erano i dolci oppure una piccola torta. 
Era bello. 
Era un giorno spensierato. 
E quindi, anche adesso, che la mamma non c’é più (e non c'è più nemmeno mio fratello), io continuo a ricordarmene e a celebrarlo in silenzio, anche se ormai - in queste occasioni che potrebbero essere rievocative o celebrative - nemmeno con i miei cugini ci incontriamo più.
Fu mio nonno a volere per la mamma il nome Irene (che peraltro era già in famiglia perché lo portava una sorella della nonna). 
E perché il nonno volle proprio quel nome? 
Alla nascita della mamma (8 marzo 1918) la I Guerra Mondiale era ancora in corso e dunque lui volle fortemente questo nome come augurio per una prossima pace tra i popoli. 
Il nome Irene è di origine greca ed era quello portato dalla dea della Pace.
Eirene o Irene (in greco antico: Eἰρήνη, Eirḕnē) era nella mitologia greca la dea della pace, di cui costituisce la personificazione. Figlia di Zeus e di Temi, era una delle Ore. Il corrispondente nella mitologia romana era Pax.
E credo che mio nonno pensasse a questa simbologia del nome piuttosto che alle caratteristiche della Santa che, comunque, sono pure interessanti.

 

Irene di Tessalonica, o Irene di Salonicco (Aquileia, III secolo – Salonicco, 304), fu una cristiana che subì il supplizio a Tessalonica; è venerata come santa dalla Chiesa cattolica e da quella ortodossa.
Irene era la più giovane di tre sorelle; le altre due erano Agape e Chionia. Secondo la tradizione, questi non erano i loro nomi originali: divenute cristiane, furono battezzate e furono loro attribuiti i nomi di Agape, nome con il quale i Greci chiamavano la Carità, la stessa predicata da Paolo di Tarso durante i suoi viaggi; Chionia, che in greco significa neve, a ricordo della purezza; e Irene, che simboleggia la pace. Esse vivevano ad Aquileia ed erano figlie di genitori pagani.
Oltre che ornate di virtù, le tre sorelle dovevano essere anche molto ricche e di nobili origini.
Agape, Chionia e Irene furono sempre additate come modello di santità, da parte degli altri fedeli; alla giovanissima Irene furono addirittura affidati i Libri Sacri contenenti la parola di Dio, ed ella fu sempre una custode affezionata e scrupolosa: li depose dentro delle cassette e li posò insieme ai tanti scrigni che racchiudevano i suoi innumerevoli gioielli.

La cosa curiosa è che il sogno che segue è delle prime ore del 20 ottobre 2012, giorno dell'onomastico di nostra madre

Maurizio Crispi

La mamma (foto di Maurizio Crispi, 8 marzo 1990)

Sognavo di essere a casa di mio fratello che prima era anche di mia madre e quella dove ho abitato anche io [e dove sono tornato ad abitare da alcuni anni

C'era dovunque una grande confusione, tutto era fuori posto

Poi, mi rendevo conto che gran parte delle cose (mobili e suppellettili) venivano proprio dalla stanza della mamma che, dopo la sua morte, è rimasta così com'era

Forse, come una specie di tempio: sappiamo che c'è, ma non c'entriamo mai: solo una volta alla settimana vengono fatte le pulizie e si fa arieggiare

Io sono propenso a non cambiare niente: in fondo che motivo ce ne sarebbe?

La stessa cosa vale per mio fratello

Eppure, era tutto sottosopra

Andavo nella stanza a sbirciare

La porta era aperta (solitamente sta chiusa) e, all'interno, non c'era più il solito arredo di sempre, ma era arredata come un'anonima stanza da letto realizzata con semplici mobili di Ikea [orrore!]

Pareva più che altro una stanza d'albergo, senza nessun segno di vita vissuta

Pensavo di primo acchito che fosse stato il nostro collaborante domestico a fare tutti questi indesiderati cambiamenti, desideroso di farsi una camera tutta per sé

Assurdo! - riflettevo tra me e me - Che motivo ce ne sarebbe visto che la sua stanza già ce l'ha?

Era tutto confuso, però, e non riuscivo nemmeno a ragionare con lucidità, immerso com'ero in quella gran confusione

Più avanti, senza avere ancora risolto il mistero di come si fosse arrivati a quel punto, cercavo di fare ordine nel caos

Prendevo le cose le spostavo, cercando di catalogarle e chiedevo al nostro collaborante se avesse fatto delle foto della stanza prima di rimuovere tutto quanto, in modo tale da avere delle indicazioni su come ricollocare gli oggetti nella loro posizione originaria

Il collaborante si risentiva di questa mia domanda, come se lo rimproverassi

Mi sentivo angosciato, perché non riuscivo a ricordare come fossero disposti alcuni degli oggetti, ma ce n'erano anche altri che non corrispondevano a nessun mio ricordo

In questa fase del tentativo di riordino, mia madre era accanto a me e mi dava dei suggerimenti

Era come se con la sua presenza benevola mi volesse dire che non sono gli oggetti in sé, mantenuti come in un museo, ad essere importanti, ma che vale di più la memoria delle persone che si serba viva dentro di noi

Ero distratto di continuo da piccoli eventi microscopici

Vedevo un piccolo ragno esotico zampettare sul pavimento e cercavo di catturarlo, ma senza successo.

Ed ero incurante del pensiero che potesse essere velenoso

è un sogno di dolcezza e tristezza…
la tua mamma ti dice di andare avanti: anche se è assente, sarà sempre presente nella tua vita, a prescindere dagli oggetti…
In fondo, è un sogno bello, con tua madre al tuo fianco a mettere a posto le cose, no?

Anita Riotta

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21 giugno 2023 3 21 /06 /giugno /2023 08:25

E adesso sono otto anni da che mio fratello se n’é andato
ed io sono rimasto l’unico ufficiale in carica ad attendere i Tartari
- unico e solo, in verità

 

Ed é dura cosa starsene da soli nel fortino,
circondati da eventi avversi
Me lo ricordo come fosse ieri il giorno della sua dipartita.

 

Fratello, amico, dove sei?
Con te potevo parlare 
Mi ascoltavi serio 
Poi mi dispensavi il tuo sorriso,
guardandomi con quel tuo sguardo 
un po’ ironico e sornione
come a dire
In fondo, che importa?
Si sopravvive, si sopravvive!
Vedrai che ce la farai!
Andrà tutto bene
Non devi preoccuparti!
Non temere alcun male
Io sono con te

 

Don’t Worry, Be Happy!

Questa foto è stata fatto l'8 febbraio 2014, poco prima che iniziassimo a pranzare o forse subito dopo aver finito il nostro pasto. Le stoviglie sono accatastate in modo strano: uno dei miei soliti scherzi... In questa foto mio fratello guarda verso l'obiettivo con una certa aura di tristezza, ma nello stesso con la sua espressione sorniona. Alla data fatidica, all'ultimo appuntamento con il destino mancano ancora un anno, qualche mese e una manciata di giorni. Ma nè lui, nè io lo sappiamo. Così è la vita.

Questa foto è stata fatto l'8 febbraio 2014, poco prima che iniziassimo a pranzare o forse subito dopo aver finito il nostro pasto. Le stoviglie sono accatastate in modo strano: uno dei miei soliti scherzi... In questa foto mio fratello guarda verso l'obiettivo con una certa aura di tristezza, ma nello stesso con la sua espressione sorniona. Alla data fatidica, all'ultimo appuntamento con il destino mancano ancora un anno, qualche mese e una manciata di giorni. Ma nè lui, nè io lo sappiamo. Così è la vita.

L'ultima camminata (foto di Maureen L. Simpson)

(21 giugno 2022) 21 giugno 2015. In quel giorno fatidico siamo andati tutti quanti a piedi in pizzeria, ed anche la cagnetta Frida ci ha accompagnato
É stata questa l’ultima volta in cui sono stato lo spingitore di mio fratello Salvatore nella sua carrozzina 
Qualche tempo prima era stato ricoverato in terapia intensiva per un infarto e poi dimesso
Pareva che le cose stessero andando meglio
Faceva una terapia che gli avevano prescritto
I valori erano buoni
Ed invece no, evidentemente qualcosa è andato storto, qualcosa è sfuggito
Mentre eravamo in pizzeria, ma avevamo già finito, Salvatore ha cominciato a presentare un’intensa dispnea e ci siamo affrettati verso casa
Si è abbattuto in avanti
Io spingevo e cercavo di tenerlo con il busto sollevato per facilitarlo in questa sua estrema fame d’aria
E poi se ne é andato, ma non mi sono arreso
L’ho caricato in auto, nella sua "tatamobile", deciso a portarlo in ospedale
Ma dopo aver percorso alcune decine di metri, mi sono fermato, ho riflettuto, ho preso atto della realtà 
Mio fratello era morto, se ne era andato, se ne era volato in cielo
E allora, schiacciato da questa consapevolezza, l’ho portato a casa per l’ultima volta per dare inizio ai tristi riti del commiato
Oggi ricorre il settimo anniversario della sua dipartita, ma é come se fosse ieri

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14 marzo 2023 2 14 /03 /marzo /2023 08:29

Nessun uomo è un’isola,

completo in se stesso.

Ogni uomo è un pezzo del Continente,

una parte della Terra.

Se anche solo una Zolla viene portata via

dall’onda del Mare,

l’Europa ne sarebbe diminuita,

come se le mancasse un Promontorio,

o una Magione amica o la tua stessa Casa.

Ogni morte di un uomo mi diminuisce,

perché io sono parte dell’umanità.

E così non chiedere mai

per chi suona la Campana:

essa suona per te.

John Donne – Nessun uomo è un’isola (No Mann is an Island, Meditazione XVII, 1624)

Una meditazione in tre tempi
1.

Non so che dire
Certi eventi irrompono all’improvviso
Ti colpiscono duro
Ti lacerano
Ti fanno sentire in colpa
Ti fanno pensare a ciò che non hai fatto
A ciò che hai fatto e a come lo hai fatto
Rifletti sulle debolezze della memoria, 
sull’oblio e sul modo in cui, a volte,
mettiamo da parte le persone
Poi quando la realtà ti colpisce
al petto come un maglio
è troppo tardi per rimediare
Quando ciò accade
si è portati a pensare
alla propria infinita debolezza e fragilità 

 

Non dimentichiamo che,
quando una campana suona a morto
suona per ciascun vivente

 

2.

 

Il vento scuote gli alberi
Fa vibrare le finestre
Si sente fuori dalle mura 
un rimestio o un brontolio 
Ma anche una vibrazione
altalenante 
come se uno stuolo di monaci tibetani
stesse salmodiando l’OM

 

Carte e cartacce,
fogli di giornale, 
involti oleosi stropicciati
bicchieri di carta,
ma anche foglie secche,
danzano nel vento
si sollevano in piccoli vortici
e poi ricadono
fino a quando un turbine
più vigoroso non li prende
portandoli via con sé

 

Il vento allontana le persone,
le isola,
fa volare via i pensieri,  scompigliandoli,
via sciarpe e berretti
Le costringe a piegarsi per resistere,
ma poi le prende e le trascina
nell’Altrove

 

Dove? 
Forse a Erewhon
Forse a Kansas City
Forse a Xanadu di Kubla Khan 
O forse a Shangri-la
o in altri luoghi dove si possa
ricevere il dono (o la maledizione)
dell’eterna giovinezza

 

Dicono che nei giorni di vento
le anime dei defunti
possano più facilmente volare via
libere da catene e da fardelli

3.

Fa caldo in questo giorno di Marzo
Questa sezione del cimitero
è battuta dal sole,
sotto un cielo implacabilmente terso

 

C’é - a poca distanza -
un rifugio ombroso
ai piedi di un cipresso secolare
Mi ci riparo
Accanto a me,
occhieggia con i suoi fiori
una margherita selvatica
cresciuta a fatica
tra gli interstizi d’una sepoltura

 

Avverto la pace
E se non fosse considerato strano
mi sdraierei volentieri 
su d'una lastra tombale
per assorbirne la tellurica frescura

 

Attorno a me s'erge
un fitto bosco di sepolture,
ornate di croci e colonne mozze,
custodite da angeli in preghiera
o dormienti,
adorne di scritture ultime,
alcune abitate e frequentate,
ingentilite da fiori freschi e piante ancora vitali,
altre neglette, dissestate,
con inferriate e recinzioni di metallo
divelte e rugginose

 

I defunti sono qui
attorno a me
Lo sento
Alcuni sono rappacificati e sereni
Altri levano le loro voci irose
per essere stati trascurati

 

Tutti aspettano qualcosa
L’ora che verrà 
o che mai arriverà

 

Si sente echeggiare il verso del corvo,
nero guardiano

Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
Una meditazione in tre tempi
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4 gennaio 2023 3 04 /01 /gennaio /2023 12:46
Irene Salatiello Crispi, mia madre, nel giorno del suo novantesimo compleanno (foto di Maurizio Crispi)

Il 4 gennaio 2010, nelle prime ore del nuovo giorno, quando ancora faceva buio, la mamma se n’è andata via lievemente, in punta di piedi, quasi senza disturbare nessuno, come aveva sempre detto nei suoi desiderata.
Per andarsene, ha colto il momento in cui io, seduto accanto a lei in poltrona per vegliarla, mi ero addormentato.
Quella sera mi aveva detto con fermezza che non si sarebbe messa a letto, ma che avrebbe passato la notte in poltrona. Forse perché aveva deciso di andarsene o forse perché sapeva che qualcosa sarebbe accaduto. Non so.
Quando mi sono risvegliato, forse sopraffatto dall’improvviso tacere del suo respiro appesantito, la sua anima bella era volata via.
Dopo poche ore, alle 5.00, è suonata la sveglia che la mamma la sera prima, mi aveva chiesto di puntare alla solita ora, quando lei si alzava per supervedere i preparativi di mio fratello e di metterla accanto a lei.
Quella sveglia con il suo trillo imperioso ci ha ricordato che la vita, anche senza di lei, continuava e che, pur assente da quel momento in avanti, avrebbe continuato a vegliare su di noi.

 

Mamma, dovunque tu sia, riposa in pace.

 

Continui a vivere nel mio cuore.

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22 giugno 2022 3 22 /06 /giugno /2022 14:19

Oggi ricorre il settimo anniversario della dipartita di mio fratello Salvatore ed è come se fosse ieri.
Ancora presente nella mia vita, come un gigante buono, un gigante che attraeva le persone attorno a sé, un faro esemplare per molti, fonte di ispirazione e di coraggio.
Ora non c'è più, ma c'è sempre vicino a noi.
Fratello mio, mi manchi!

l'ultimo miglio di mio fratello Salvatore Crispi (foto MLS)

 

21 giugno 2015. In quel giorno fatidico siamo andati tutti quanti a piedi in pizzeria, ed anche la cagnetta Frida ci ha accompagnato
É stata questa l’ultima volta in cui sono stato spingitore di mio fratello Salvatore nella sua carrozzina, con la mia famiglia
Qualche tempo prima - poco più di un mese -  era stato ricoverato in terapia intensiva per un infarto e poi dimesso
Pareva che le cose stessero andando meglio -  così mi avevano detto
Faceva una terapia che gli avevano prescritto
I valori erano buoni
Il sabato era stato visitato a domicilio da un cardiologo che aveva rassicurato
Ed invece no, evidentemente qualcosa è andato storto, qualcosa è sfuggito
In primis, non gli è stato fatta la coronografia. I medici - all'ospedale in cui era stato ricoverato - dissero che a causa della sua spasticità non era possibile effettuare l'esame con l'introduzione del catetere
Una scusa da incompetenti, perchè con degli accorgimenti specifici l'esame lo si sarebbe potuto fare
Ma lasciamo perdere, anche se ci sarebbe molto da dire sul fatto che un/a disabile. spesso, in ospedale e nelle strutture sanitarie in genere, viene discriminato/a e non gli/le si dedicano le dovute attenzioni
Mentre eravamo in pizzeria, ma avevamo già finito, Salvatore ha cominciato a presentare un’intensa dispnea e ci siamo affrettati verso casa
Ho cominciato a sospingerlo nella sua carrozzina
Si è abbattuto in avanti
Io spingevo e cercavo di tenerlo con il busto sollevato per facilitarlo in questa sua estrema fame d’aria
E poi se ne é andato, ma non mi sono arreso
L’ho caricato in auto, nella sua tatamobile, deciso a portarlo in ospedale
E lui sempre abbattutto non dava segni di vita
Dopo aver percorso alcune decine di metri, mi sono fermato, ho riflettuto, ho preso atto della realtà
Ho cercato di verificare i suoi parametri vitali, per quanto potessi senza gli strumenti di base
Mio fratello era morto, se ne era andato, se ne era volato in cielo
E allora, schiacciato da questa consapevolezza, l’ho portato a casa per l’ultima volta per dare inizio ai tristi riti del commiato
Oggi ricorre il settimo anniversario della sua dipartita, ma é come se fosse ieri
Se lui fosse qui con me, molte cose sarebbero più facili per me
E' pesante dover affrontare tutto da solo

Così mi scrisse la mia amica Cettina Vivirito il 23 giugno 2015, a proposito di mio fratello Salvatore:  "Che Salvatore se ne sia andato per il solstizio d'estate lo trovo bellissimo, lo trovo significativo, lo trovo giusto e naturale. Non ho conosciuto bene tuo fratello, a me è sempre bastato sapere che è tuo fratello, e la grande stima che ho sempre avuto per te si è naturalmente estesa a lui e in realtà a tutte le persone che ti sono vicine. Arrivederci Salvatore, ti invidio davvero per avere saputo scegliere un giorno tra i giorni, cuore puro il tuo che merita questo sole, questa luce, questo rispettoso e gaudioso silenzio".

Così mi scrisse la mia amica Cettina Vivirito il 23 giugno 2015, a proposito di mio fratello Salvatore: "Che Salvatore se ne sia andato per il solstizio d'estate lo trovo bellissimo, lo trovo significativo, lo trovo giusto e naturale. Non ho conosciuto bene tuo fratello, a me è sempre bastato sapere che è tuo fratello, e la grande stima che ho sempre avuto per te si è naturalmente estesa a lui e in realtà a tutte le persone che ti sono vicine. Arrivederci Salvatore, ti invidio davvero per avere saputo scegliere un giorno tra i giorni, cuore puro il tuo che merita questo sole, questa luce, questo rispettoso e gaudioso silenzio".

E questo mi ha scritto - in questa settima triste ricorrenza - Rosario Fiolo che, assieme a mio fratello Salvatore e al Coordinamento H Onlus ha partecipato a molte delle battaglie per la tutela dei diritti dei disabili nella Regione Sicilia

Caro Maurizio, anche se non ho inviato il mio messaggio di ricordo per ieri 21 giugno, settimo anniversario della scomparsa, non ho scordato Salvatore. E come potrei!?
Avrei scritto, ma mi sono lasciato prendere dai problemi e dagli affanni quotidiani rimanendo intrappolato in questi.
Ma non è rimasto intrappolato il mio pensiero per lui, sempre presente.
Il suo esempio, le sue idee, il suo modo di essere e di fare sono sempre un riferimento vivo e concreto.
La famosa frase "Le idee continuano a camminare sulle gambe degli uomini" per me e per qualche altro è vera!
Il Coordinamento H continua a vivere ispirandosi sempre all'eredità che ci ha lasciato Salvatore e l'attuale Presidente Marilina Munna continua a portarlo avanti con grande determinazione e con abnegazione.
Dobbiamo procedere provando a continuare l'opera del "Gigante dei Diritti", Salvatore Crispi.

 

 

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5 maggio 2022 4 05 /05 /maggio /2022 11:57
Targa che intitola la Rotonda Vittime di Montagna Longa - 5 maggio 1972 (foto di Maurizio Crispi)

Oggi è il 5 maggio e ricorre il 50° anniversario dell'incidente aereo di Montagna Longa, nel quale perse la vita mio padre Francesco, assieme a tutti gli altri passeggeri e ai componenti dell'equipaggio di quel volo.
É successo 50 anni fa, ma a me sembra ancora ieri: molte vite, troppe, furono spezzate in una vampa sul monte. Il ricordo di quel dolore è tuttora vivido per tutti.

Quando mio padre ci ha lasciati aveva da poco compiuto 54 anni ed io ne avevo appena 22.
Oggi che, dalla sua scomparsa, ne sono passati 50 di anni (mezzo secolo), io ho vissuto per 16 anni più a lungo di lui e pertanto sono diventato più vecchio di lui che, per me, è fissato nel mio ricordo come era quando all'improvviso non torno più.
Le cose strane che accadono, quando ci si confronta con quelli che sono rimasti indietro.
Se avesse continuato a vivere (e lui diceva sempre che avrebbe vissuto a lungo perché tutti nella sua famiglia erano stati longevi), avrebbe da poco compiuto 104 anni.
Quando è morto, io ero in difficoltà nel rapportarmi con lui, visto che aveva una grande statura intellettuale ed io, nel confronto, mi sentivo piccino ed insignificante. Ero alla ricerca della mia identità e, dunque, cercavo di prendere le distanze da lui, a volte rifiutandolo quando lui cercava di essermi vicino.
E poi è morto e, quindi, il possibile confronto è rimasto in sospeso, lasciandomi dentro molto rimpianto ed amarezza, per le parole che non ero stato capace di dire e per quelle che avrei voluto sentirmi dire da lui.
Ed è stato un confronto lungo e faticoso che ho dovuto avviare dentro di me, in sua assenza. Un confronto al quale non ho mai potuto porre fine. e forse è anche per questo che non mi sento ancora un uomo maturo alle soglie della vecchiaia, ma sempre come quel ragazzo di ventidue anni che ha dovuto improvvisare un dialogo agognato con un padre che che non poteva più esserci in presenza.
Così vanno le cose della vita.

Oggi, che é il cinquantenario di quel tragico evento che ha segnato indelebilmente la vita di così tante persone (82 furono gli orfani rimasti, anche se io nella mia vita successiva non mi sono mai sentito “orfano”, forse perché mio padre era rimasto in me, per non parlare dei tanti genitori che hanno dovuto seppellire i propri figli), salirò assieme ad altri sino alla cresta ventosa di Montagna Longa, dove si trova la grande croce di ferro in memoria delle vittime.
Con me ci saranno i miei figli Francesco e Gabriel e spero che, un giorno, vorranno raccogliere il testimone e continuare a salire, di tanto in tanto, sino alla Croce per ricordare il nonno che non hanno mai conosciuto, se non attraverso le mie storie.

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21 giugno 2021 1 21 /06 /giugno /2021 06:48

Il 21 giugno è ricorso il sesto anniversario della morte di mio fratello Salvatore.
Sei anni fa, nel 2015, attorno alle 20.30, mio fratello Salvatore, all'improvviso, ci ha lasciati.

Noi siamo rimasti indietro, mentre lui è andato avanti, altrove.

Noi siamo rimasti a dover gestire dentro di noi un grande, incolmabile, vuoto.
La sua vita è stata di esempio. Operosa, benchè lui stesso fosse gravemente disabile, nella sua lotta generosa e intelligente a favore delle persone con disabilità.

Con le sue azioni e con le sue convinzioni ha dato speranza molti ed è riuscito a riunire tanti gruppi sparsi attorno ad un grande progetto comune.
La memoria di lui rimane sempre viva in tutti quelli che gli sono stati vicini, oggi come ieri.

Dovunque egli sia, ora egli ci guarda e ci osserva, con il suo sorriso benevolo: io, almeno, voglio pensare così.

Salvatore Crispi (foto di Maurizio Crispi)

Questo ha scritto Rosario Fiolo per ricordarlo:
(21 Giugno 2021) Sesto Anniversario della scomparsa di Salvatore Crispi, Presidente del Coordinamento H della Regione Siciliana:
"Il Gigante dei Diritti delle Persone con Disabilità".
Abbiamo bisogno, oggi più che mai, in un momento di grande crisi come questo, di fare riferimento a "giganti" come Salvatore Crispi.
Un momento tragico in cui sembrava che l'unione dovesse prevalere e, invece, in questo periodo, sembra che si vada in direzione opposta.
Ma solo l'esempio di un uomo come Salvatore Crispi che ha impostato la sua vita all'insegna di Solidarietà, Condivisione, Altruismo ci può aiutare a superare la crisi.
Salvatore Crispi ci ha lasciato in eredità questi valori e la sua idea la metteva in pratica con il "Coordinamento".
Coordinamento: mettere insieme le differenze e creare interazione tra le parti per raggiungere obiettivi comuni.
Dobbiamo continuare a portare un contributo nel solco da lui tracciato e insistere a lottare per la garanzia dei diritti delle Persone con Disabilità affinché ognuno di loro possa realizzare il proprio Progetto di Vita.
Grazie sempre Salvatore.

21 giugno 2021, sesto anniversario della morte di mio fratello Salvatore
21 giugno 2021, sesto anniversario della morte di mio fratello Salvatore
21 giugno 2021, sesto anniversario della morte di mio fratello Salvatore
21 giugno 2021, sesto anniversario della morte di mio fratello Salvatore
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21 giugno 2017 3 21 /06 /giugno /2017 17:40
Salvatore Crispi, gigante dei diritti delle persone con disabilità. Ecco come lo ricorda un caro amico nel secondo anniversario della sua scomparsa

Salvatore Crispi, mio fratello, se ne è andato all'improvvviso due anni fa, il 21 giugno 2015. Ha lasciato dietro di sè un profondo vuoto di affetti nei familiari e negli amici, ma soprattutto con lui è venuta meno un'impareggiabile, instancabile, forza nel promuovere nella Regione Sicilia la tutela dei diritti delle persone con disabilità, la sua azione continua, fatta di piccole cose, di tessitura instancabile di relazioni, di minuto e certosino lavoro di corrispondenze cartacee (e non), di mobilitazioni e di azioni concrete, animato dalla vision potente che soltanto se si è uniti, persone con disabilità di tipi diverso, si progredisce, al di là dei particolarismi e degli interessi di singole categorie o associazioni.
Ecco come lo ricorda Rosario Fiolo, amico e compagno di tante lotte.

Salvatore Crispi(Rosario Fiolo) Oggi 21 giugno 2017 ricorre il secondo anniversario della scomparsa di Salvatore Crispi,  sino alla sua morte Presidente (e impareggiabile animatore) del Coordinamento H per la tutela delle persone con disabilità della Regione Siciliana Onlus.
Salvatore è stato definito, senza alcuna retorica, "il Gigante dei Dirittti delle Persone con Disabilità" e chi gli è stato vicino può testimoniare ciò.
Ha lottato sino alla fine dei suoi giorni, sempre in prima linea con grande intelligenza e grande ironia.
Penso che, in questo periodo, da un lato, sarebbe stato contento per tutto quello che è stato messo in campo per garantire i diritti dei cittadini con disabilità, ma dall'altro lato sarebbe stato rattristato per come questa politica odierna disattenta e smemorata disattende le necessità dei cittadini con bisogni.
Salvatore era una persona testarda ed instancabile: queste sue caratteristiche è importante ricordarle oggi.
E' importante farlo per non arrendersi e per continuare sulla scia di quello che lui ci ha lasciato: un'idea forte di eguaglianza, di forza e di amore per il bene comune.
Non possiamo dimenticare quello che lui ha fatto e dobbiamo proseguire sulla sua sua scia: per lui, per noi, per le persone tutte.
Sempre grazie, Salvatore, per quello che sei stato tu, per quello che ci hai fatto diventare, per la società che hai cercato di fare progredire!

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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