Ero in un grande palagio labirintico,
pieno di corridoi
scale,
disimpegni
Rimbombi
Voci dissonanti ed aspre
Idiomi stranieri
Clangore di cancelli
che si aprono e chiudono
Alte mura
Finestre strette
guarnite di inferriate di solido acciaio
C’è, difficile da trovare,
un'unica porticina stretta
come via d'uscita e salvamento
oltre la quale
(behind the Green Door)
s’apre lo sguardo libero
verso un infinito cielo azzurro
non dissonante
Devo viaggiare
ogni volta attraverso questa magione
percorrendone i camminamenti,
eludendone le trappole letali,
evitando abilmente i vicoli ciechi,
senza sapere
se mai potrò ritrovare
la via del ritorno
e sopra ogni cosa
rivedermi con Ale
che, prima di ogni nuova esplorazione,
m’infonde fiducia con le sue parole
(e so che mi aspetta
per tendermi la mano
e aiutarmi a percorrere
gli ultimi passi perigliosi
Poi, al nuovo rintocco di campana,
partirò per compiere
ancora il mio giro
Certa è la dipartita
Incerto è il ritorno
Mi sento come Teseo
pronto ad entrare nel Labirinto
irto di pericoli
e infestato non da uno
ma da molti, cento, Minotauri
Questa volta son fiducioso
Il mio umore è lieto, quasi
Forse, posseggo
un metafisico filo
per ricondurmi indietro
e ne ho la padronanza;
e quel filo, sottilissimo eppure solido,
tessuto da Aracne,
me lo ha donato la mia Arianna
(dissonanza in dissolvenza)
Viaggio in auto con mio fratello
La macchina è quella mia,
ne sono certo
Siamo seduti ambedue
sul sedile di dietro
e da lì io guido
tenendo in mano delle redini di cuoio
come fossi l’auriga
d’un cocchio da guerra trainato
da un tiro di quattro possenti roani
La velocità si fa grandissima
e temo di perdere il controllo
della mia vettura
Sono un po’ nel panico
Mio fratello è divertito
e si lancia in grandi risate
Arrivando ad una rotonda,
decido di fermare la corsa
ormai fin troppo perigliosa
e tiro i freni
C’è una gran derapata
con stridore di ruote
e minaccia di capovolgimento,
e poi un’immobilità silenziosa
in cui si sentono solo
i crepitii lievi di metallo urlante
surriscaldato che si detende
Scendo per verificare i danni
eventuali
vicino al blocco motore si è fermato
uno dalla faccia poco raccomandabile
e sta armeggiando con qualcosa del motore
Temo che voglia asportare un pezzo
essenziale per il suo funzionamento
Si aggiunge un altro ceffo
Capisco che anche costui
é tutt’altro che amichevole
Sì allontanano
Io li seguo
Cerco di colpire uno dei due
con un pugno da barzelletta
che non ha efficacia
(é come se fossi senza forze)
Poi afferro uno dei due
e con forza sovrumana
lo sollevo come fosse un fuscello
e lo scaglio lontano
La stessa cosa faccio con l’altro
trovando dentro di me
una forza inattesa ed esplosiva
Alte torri merlate
svettano,
adornate di guglie ardite
che da secoli
sfidano il cielo
D’improvviso
tremano e oscillano
vibrano e si torcono
in preda al tormento interno,
d’un demone prigione
chiedente liberazione
e crollano
in una gran nube di polvere
che si leva dalle macerie
e poi è tutto silenzio
Non una voce si leva
per interminabili istanti
E poi richiami concitati
risuonano e si rincorrono
Che?
Che fu?
Ci fu cosa?
Brusio di parole
Babele delle lingue
Indi compaiono
i primi fantasmi barcollanti
grigi di calcinacci
e di pietre sbriciolate
Quelle ombre
a passi incerti
camminano sperse
tra i rottami desolati
delle glorie di un tempo
Tempo verrà
Sic transit gloria mundi
Il 7 febbraio, alle 16.19 circa è stata registrata una scossa di terremoto, con epicentro al largo delle isole Eolie. La scossa è stata avvertita con forza ad Alicudi e a Filicudi tanto da indurre gli abitanti ad abbandonare le case, ma si è sentita anche a Palermo e a Messina.
In quel momento, io ero dalle parti della Cattedrale dove mi ero recato come d'abitudine per prendere mio figlio all'uscita della scuola.
E' stato mio figlio a dirmi dell'evento e subito abbiamo cercato conferma su internet.
E' stato immediato per me costruire nella mia mente le immagini che ho riportato in questa nota di diario e in cui visualizzavo il crollo delle torri millenarie (più o meno) della Cattedrale.
Non ho potuto fare a meno anche di richiamare alla mente il poema di Percy Bysshe Shelley, ovviamente
I met a traveller from an antique land
Who said: “Two vast and trunkless legs of stone
Stand in the desert . . . Near them, on the sand,
Half sunk, a shattered visage lies, whose frown,
And wrinkled lip, and sneer of cold command,
Tell that its sculptor well those passions read
Which yet survive, stamped on these lifeless things,
The hand that mocked them, and the heart that fed:
And on the pedestal these words appear:
‘My name is Ozymandias, king of kings:
Look on my works, ye Mighty, and despair!’
Nothing beside remains. Round the decay
Of that colossal wreck, boundless and bare
The lone and level sands stretch far away.”
Ho sognato che andavo a New York
Partivamo tutti quanti per andarci: mio padre, mia madre, mio fratello e ci andavamo con la Tatamobile (La speciale vettura con rampa mobile per consentire l'accesso su di essa di mio fratello in carrozzina) e c’era anche il cane, come nei due famosi romanzi di
Jerome K. Jerome
A New York ci andavamo per mare e, infatti, a bordo del veicolo giungevamo fino a un porto dove avremmo dovuto imbarcarlo
Arrivati ai moli e agli attracchi, io scendevo dall’auto e cominciavo a scattare delle foto a un gruppo di marinai che si facevano degli scherzi tra loro e che saltavano in alto, facendo piroette con abilità degna di artisti circensi e mettendo alla prova la propria abilità in una sfida reciproca
Riuscivo persino a congelare uno in aria in una strana postura (ed ero molto fiero di questo scatto)
Più tardi, il viaggio era già compiuto e con la Tatamobile parcheggiavamo in uno spazio dedicato alle vetture per disabili, proprio davanti all’hotel a cui eravamo destinati
Due vigilanti nerboruti e con il volto di pietra (di quelli con il dispositivo auricolare nell’orecchio, per intenderci) ci guidavano sino al nostro parcheggio
Entravo nell’hotel, con la mia attrezzatura fotografica, e qui trovavo una grande folla fatta di tanti, uomini, donne, per non parlar dei cani, che erano venuti sin da Palermo per correre la maratona di New York
Io non ero là per questo, ma solo per fotografare
Eppure mi ritrovavo immerso in questo turbine di folla oceanica, uno sterminato fiume di persone intente nel loro scopo, immerse nel loro sogno e nella loro visione, tutti camminanti a testa alta e con vigore nella stessa direzione
Mi univo a loro
il mio cuore batteva all'unisono
All’improvviso, comprendevo che anch’io avrei fatto parte della squadra, che avrei indossato un pettorale e che avrei corso la maratona di New York, pur non avendo alcuna preparazione per portare il complimento la sfida della grande mela
Ricevevo gli indumenti idonei, pantaloncini e canotta, scarpe da corsa e indossavo il numero che mi viene assegnato, con foga quasi sacrale ed iniziatica
Nient'altro, niente orpelli tecnologici, niente computerini da polso, niente cronometro, niente smartphone per tracciare il percorso fatto, niente cardiofrequenzimetro: voglio correre la distanza di maratona alla maniera di Fidippide
Non ero pronto, eppure mi sentivo pronto
Avevo il cuore in gola
Trepidante sono in attesa del segnale dello start
Non so se ce la farò
Ma sicuramente ce la metterò tutta
Ho sognato che pedalavo sulla bici
Poi imboccavo un viale del Parco della Favorita contromano
Mi accorgevo dell’errore
E vercavo di tornare sulla retta via
Quando lo facevo, mi rendevo conto che l’altra carreggiata s’era trasformata in un fiume impetuoso che avrei dovuto passare a guado
Di questi tempi con “bombe d’acqua” ed allagamenti, esondazioni ed altre calamità dovute ad improvvisi eventi climatici fuori controllo, bisogna essere preparati
E il sogno, appunto, mi induceva a tenere nel debito conto tale eventualità e a fare, per dir così, delle prove generali
La trascrizione di questo sogno è di un anno fa
Pubblicato su FB e mai trascritto qui, nel blog
Maurizio Crispi (3 febbraio 2024)
C’è un sogno di questa notte
Non l’ho annotato subito
e tanti dettagli sono andati persi
Recupero adesso quello che posso
Sono in viaggio,
tanto per cambiare
In auto con altri
Forse c’è mio figlio Gabriel con me
Camminiamo e camminiamo
(qualcun altro alla guida),
a un certo punto superiamo delle transenne
Ci fermiamo in quella che sembra essere
una grande piazzola di sosta
In ogni caso, la strada asfaltata non prosegue oltre
Scendiamo dall’auto,
ci sgranchiamo gli arti rattrappiti
Siamo ai piedi di un'altissima rupe verticale
percorsa da grandi spaccature
che fanno intuire che aldilà della parete rocciosa vi sia altro,
un'ampia vallata nella quale si dispiega una città intera
Quindi, ad una simile vista,
non posso resistere al richiamo
E subito vado ad esplorare, ritrovandomi
a girare per le vie di questa città antica e affascinante,
piena di edifici storici architetture
gotiche, baroccheggianti e neoclassiche
Di tutto e di più
Esploro senza sosta, in lungo e in largo
Cammino
Fotografo
Respiro l’aria ferma e polverosa
che si respira nelle vie e nelle piazze,
nei boulevard e nei vicoli
umidi e ombrosi
Ma la città che rivela di possedere un nobile fasto
e che sembra intatta
manca del tutto di abitanti, di animali,
di voci e di vita
Poi mi ritrovo a camminare su una bici sgangherata
lungo una strada
che sto esplorando
(c’è sempre una strada da percorrere)
e c’è con me Gabriel,
anche lui in bici
Siamo adesso dei viaggiatori ciclomontati
Appassionante!
Ci fermiamo nei pressi di un edificio
che sembra una chiesa di campagna
le mura di pietre antiche, a vivo, e muschiose
Entriamo
Ci sono voci vibranti che si levano in preghiera,
mormorii e la sulla sacra echeggiante
sotto ardite capriate
e ci rendiamo conto che c’é
in corso una funzione
I fedeli della congrega
sono stipati attorno ad un predicatore
(più che un prete delle nostre chiese
sembra un reverendo,
un pastore di anime
che raduna attorno a sé le sue pecorelle)
Io ascolto mescolato tra la folla,
sornione
Faccio dei cenni con la testa
come dire che comprendo bene le parole
che vengono enunciate
Tutti cominciano a girarsi verso di me,
anche il predicatore
Ho l’impressione che mi prendano
per un profeta
per uno che ha da dire delle parole messianiche
Mi sento un po’ imbarazzato
da questa attesa gravida di speranze,
riposta in me
Ma sto al gioco
Parlo
usando parole volutamente oscure
alle quali gli altri che ascoltano
possono dare il significato
che preferiscono,
a ciascuno più congeniale
Vengo interpellato
sempre più di frequente
Alla fine,
tutti pendono dalle mie labbra
Quando il discorso del reverendo
è concluso
c’è da fare una raccolta di denaro
per il benessere della comunità
Io stesso do un contributo generoso
Poi, io e il predicatore
ci mettiamo a parlare in privato,
scambiando punti di vista
(siamo colleghi in fondo)
Il predicatore è barbuto
come lo sono io
Potremmo essere la stessa persona
Si attiva un senso di identità molto profondo,
ma anche inquietante
Poi, alla fine, mi commiato,
facendo voti di fare ritorno un dì
Esco fuori dal luogo di culto
e trovo Gabriel che m’attende paziente
Nel mentre ha cominciato a smontare
Il bivacco che, evidentemente,
avevamo allestito
prima di entrare nella chiesa
(ma di questo non avevo memoria)
Gabriel ha smantellato tutto quanto
lasciando però le cose ammezzo
senza provare ad impacchettarle
per bene
Un po’ lo rimprovero perché
non ci ha nemmeno provato
Quindi comincio a darmi da fare
per sistemare il nostro bagaglio
dandogli al tempo stesso
delle spiegazioni
perché impari a fare da solo un domani
quello che mi sta vedendo fare oggi
Sono piombato in un sonno letargico
in cui accadono cose
Siamo convenuti in una casa
in cui c’è un’indemoniata
o forse si tratta di una che è posseduta dalla droga
Non vuole essere aiutata, però
È proterva
Grida e si agita
Aggredisce anche
Bisogna agire con cautela
Siamo arrivati nella casa in tanti,
forse per effetto del passaparola
Ci sono molti visi sconosciuti, per me,
ma anche vecchie conoscenze
Qualcuno ha organizzato un banchetto
Ognuno ha portato cibo e bevande
Siamo tutti aggregati
attorno ad un grande tavolo
Io sono in piedi, al margine come sempre
L’indemoniata è nell’altra stanza
I preda ai suoi deliri
Ogni tanto qualcuno si alza
e va a vedere cosa stia accadendo
È una brutta storia,
cose mai viste
All’inizio io non partecipo al banchetto
Nessuno mi ha invitato a sedermi
Vedere tutto quel cibo
mi stimola l’appetito e la voglia
Mi avvicino goffo e riluttante
e a fatica trovo un posto a sedere
tra i banchettanti
C’è un piatto invitante di affettati misti
che viene passato di mano in mano
e vorrei servirmene
Quando mi arriva a tiro
cerco di prenderne qualcosa
ma tutte le fette sono aggrovigliate tra loro
e per districarle devo usare
tutta la mia forza,
aiutandomi come posso
con mani, unghie e denti
Devo offrire,
impegnato in tale lotta primordiale,
uno spettacolo ben misero di me
Alla fine riesco a staccare
qualche brandello per il mio fiero pasto
Davanti a me,
c’è un calice per il vino rotto
da cui è impossibile bere
senza tagliarsi le labbra
Qualcuno mi osserva
con occhi mobili e grifagni
Non è un banchetto normale, questo,
la gente va e viene di continuo,
la conversazione è spezzata,
aspra e dissonante
Continuo a sentirmi
come un pesce fuor d’acqua
Ogni tanto mi manca l’aria,
annaspo
e risponde solenne
uno squillo di tromba
Poi sono in un ufficetto
dove devo esaminare
un incartamento sanitario
che riguarda un tale,
e mi pare di conoscerlo
C’è un mucchio di lastre radiografiche
e una ricca documentazione scritta
Le lastre non le guardo nemmeno,
perché non ci capisco una mazza
Le carte, invece, per essere studiate,
devono essere prima
sistemate cronologicamente
(e sono tante)
Il tizio chiede di essere esentato
per motivi medici da un qualcosa,
ai sensi della sua malattia
Studiando le carte, tuttavia,
non riesco a capire quale sia il morbo,
né tantomeno a vedere dove stia l’inghippo
Ma chi è questo qua?
Dove l’ho incontrato?
Pare che la decisione ultima,
quale che sia,
dipenda da me
Me ne vado, irritato,
senza aver concluso nulla
e cammino lungo un vasto,
interminabile, corridoio
I miei passi risuonano ritmici,
e c’è quel tizio girato contro il muro
che urina ostentatamente
con un rivolo di piscio giallo
che scorre tra i suoi piedi
Al mio passaggio
volge la testa verso di me
con un ghigno ammiccante
Arrivano due inservienti massicci
e nerboruti
che lo prendono tra loro
per portarlo via a forza
Il tizio ha ancora la patta aperta
e il membro di fuori,
in piena erezione
Uno dei due inservienti
lo nasconde
mettendoci sopra
un bicchiere di plastica capovolto,
a mo’ di astuccio,
come quelli usati dagli indigeni
delle selve profonde
Il bicchiere è di un bel rosso acceso
Penso che la situazione del tizio
sia seria e disperata
e rifletto anche su quanto egli sia ridicolo,
con quel pene turgido,
rivestito da un bicchiere di plastica
Come potrà sopravvivere
al pubblico ludibrio?
È buio pesto fuori,
di freddo e di umido
Lampioni gettano attorno
una luce tenue, sparuta
che ben poco intacca
l’immensità della notte morente
Pioviggina,
una pioggia sottile e fredda
intrisa di malinconia
Dalle fronde d’un albero
ancora avvolto nell’oscurità
si diffonde un suono
argentino e armonioso,
il canto di un uccello,
un trillo gioioso
per salutare il giorno incipiente
I rami possenti delle magnolie
si stagliano nel buio
come le sagome di enormi esseri
preistorici
Io cammino
affiancato dal cane fedele,
due ombre nell’ombra
È così che comincia
il nuovo giorno
Maurizio Crispi (2 febbraio 2024)
Foto di Maurizio Crispi
Ho scelto questo titolo d’impeto, per rendere omaggio al meraviglioso romanzo di Walter Tevis
Walter Tevis, Solo il mimo canta al limitare del bosco, Minimum Fax, 2015
Siamo nel 2467 e da diverse generazioni sono i robot a prendere ogni decisione, mentre un individualismo esasperato regola la vita dell'uomo: la famiglia è abolita, la coabitazione vietata e ogni persona assume quotidianamente un mix di psicofarmaci e antidepressivi. I suicidi sono in aumento, non nascono più bambini e la popolazione mondiale sta avviandosi all'estinzione. Simbolo e guardiano dello status quo è Spofforth, androide di ultima generazione che agogna un suicidio che gli è però impedito dalla sua programmazione. A lui si contrapporranno Paul Bentley, un professore universitario che, riscoperta casualmente la lettura dimenticata da tempo, grazie ai libri apprende l'esistenza di un passato e la possibilità di un cambiamento, e Mary Lou, che sin da piccola ha rifiutato di assumere droghe pur di tenere gli occhi aperti sulla realtà.Tevis si muove dall'incrocio di queste tre vite creando una distopia postmoderna sulle inquietudini dell'uomo, dove la tecnologia senza controllo si trasforma da risorsa in pericolo.
Prefazione di Goffredo Fofi.
Con una nota di Jonathan Lethem.
In anno fa esatto, questo sognai, ma non trascrissi, qui nel blog
Maurizio Crispi (2 febbraio 2024)
V’è un dispositivo strano,
una roba mai vista prima,
in funzione
È posato sul tavolo
d’una stanza da pranzo,
allestito con una graziosa tovaglia
su cui stanno poggiate
in un familiare disordine,
molte cose, le più disparate,
tipo libri, portapenne e altri oggetti
di uso comune in una cucina,
come stoviglie posate e utensili vari
La macchina emette deboli ronzii
vibrando a bassa frequenza
e trasmettendo la vibrazione
al tavolo e a tutti gli oggetti sopra
C’è con me la mamma:
lei non comprende questo dispositivo,
non ne conosce la funzione
(ma del resto nemmeno io,
ma io l’accetto per quello che sia)
e ne è disturbata
Vorrebbe fermarlo
A più riprese, interferisce
toccandolo alla ricerca
d’un interruttore o una leva
per mettere fine
alla vibrazione e al ronzio
fastidioso e incessante
Ma così facendo,
disturba la macchina,
dalla quale si leva una voce meccanica
“Ora andrò in modalità difensiva”,
questo l’annuncio minaccioso
Da una fessura, ora comincia
a colare fuori una sostanza nastriforme, verdastra, vomitevole,
che comincia ad accumularsi sul tavolo
come una specie di malefico blob
Io entro nel panico, immediatamente
Capisco che si tratta d’una sostanza contaminante e pericolosa,
senza che nessuno me l’abbia detto
(forse, una conoscenza innata)
So che qualsiasi cosa vivente
dovesse venire in contatto
con la materia verdognola
sarebbe inglobata e trasformata
in quella stessa materia
Entro nel panico
chiedo alla mamma
di aiutarmi a sgombrare la tovaglia
da tutti gli oggetti e gli ammennicoli
che vi stanno posati,
ma la mamma non comprende
e rimane inerte,
malgrado le mie ripetute sollecitazioni
Allora, freneticamente,
mi do da fare
per spingere via
tutti gli oggetti e i libri,
faacendoli cadere
con frastuono e spicinii vari a terra
in modo tale da liberare
del tutto la tovaglia,
lasciandovi soltanto la macchina ronzante
e l’accumulo del malefico blob,
via via crescente
Fatto questo, aduno i capi della tovaglia
per raccogliere assieme
sia la macchina in funzione
sia la materia che ha sputato
e che continua sputare dalle sue viscere. Afferro il fagotto,
cercando di chiuderlo
di sigillarlo, anzi,
e mi avvio per le scale
per andare da qualche parte
ad eliminare il pericolo
in un posto sicuro dove nessun vivente
possa venire a contatto
con la malefica sostanza verde
(Dissolvenza)
Papi, sto facendo un esperimento!
Lasciami filtrare l’acqua
Della parlata in inglese
non è venuto scritto nulla!
Cosa vuoi, Gabriel?
Dillo di nuovo!
Dillo di nuovo più forte!
Perché registra la mia voce, ma non la tua?
Prova a parlare!
Ciao, raga!
Ma vai a cagare!
Ce l’hai già l’acqua
nel bicchiere!
Ero al lavoro
Mi muovevo attraverso grandi stanze spoglie, fredde.
grandi atri ed enormi disimpegni
Percorrevo corridoi interminabili
in prospettive spezzate da barriere a gabbia
Anche le stanze
erano chiuse da porte di ferro
ed eran fornite d finestre
chiuse da inferiate di acciaio massiccio
per i cui riquadri s'intravedono
scampoli di cielo azzurro e guizzi di gabbiani
Nei miei vagabondaggi
apparentemente senza fine
stringo in mano una bottiglia di'un pregiato vino rosso d'annata,
forse prodotto artigianalmente,
poiché non reca alcun contrassegno
se non un cartiglio di pergamena vecchia,
incollato nella sua parte panciuta
e recante una semplice dicitura in corsivo,
vergata con penna stilografica a pennino grosso,
con il luogo e l’anno di produzione
Entro, infine, in una stanza,
forse è quella dove dovrò fare un colloquio
La stanza è spoglia
come tutte le altre
All’infuori di tre sedie e una scrivania
non v'è altra mobilia
Sul ripiano del tavolo - verso il margine -
troneggia un grosso mucchio di feci fumanti
Quanto a quantità e dimensioni
sembra lo sterco di un cavallo
e per certo non vi ravviso qualità umane,
piuttosto una cifra diabolica
Sono alquanto indispettito nello scorgere
questo inatteso mucchio di merda
Entro nella stanza guardandomi attorno
e scrutando negli angoli più riposti,
ma non c’è alcun luogo, né anfratto,
dove il selvaggio spargitore di feci
possa essersi nascosto
Poso allora la bottiglia sul tavolo
a poca distanza da quel fastidioso reperto,
stando bene accorto a che la preziosa bottiglia
non si sporchi
ed esco a cercare aiuto,
a chiedere, ad indagare
Ma non c’è nessuno con cui confrontarmi
Disilluso e frustrato, ritorno quindi sui miei passi
Il mucchio di feci è ancora lì
a far bella mostra di sé,
adesso un po' meno fumante di prima
Ma qualcuno, in una rapida sortita,
ha appiccicato
alcuni di quei cilindri fecali sul cartiglio della bottiglia
Mi chiedo come e quando
ciò possa essere accaduto
Uscendo mi ero premurato di sbarrare la porta
chiudendo con delle mandate la sua serratura
per mezzo d’una lunga e pesante chiave
di almeno 30 cm e fatta di puro ottone levigato
Come per la deposizione iniziale della cacca,
questa seconda irruzione
sarà stata messo in atto
da un fantasma sabotatore
o da un prestidigitatore ed escapista,
insomma un personaggio alla Houdini
che tanto vorrei incontrare,
ma che è scomparso, dileguandosi
senza lasciar traccia di sè
e non c’è nient’altro da fare
Vorrei rimediare al danno,
vorrei rimuovere quelle feci Prendo in mano la bottiglia
e stringendola per il collo
mi rendo conto che non ho con me
nessuno instrumento
per poter rimuovere quell'obbrobrio e la sozzura,
se non le mie nude mani
Fu questo viaggio improvviso e alla ricerca di un senso di benessere (o forse la fuga dal malessere), tra il 28 marzo 1989 (il martedì dopo il Lunedì dell'Angelo) e il successivo 1° aprile, con l'idea di andarmene a Levanzo (la mia isola preferita di quegli anni) "via dalla pazza folla", in un periodo in cui sicuramente non avrei trovato affollamento vacanziero.
Come sempre facevo (e faccio tuttora) avevo con me la mia fedele attrezzatura fotografica ed anche una macchinetta polaroid, molto divertente da adoperare e che consentiva di avere foto immediate in un tempo in cui la fotografia analogica richiedeva tempi e attese (durante i quali le foto fatte si potevano pregustare solo nell’immaginazione).
Mi portai appresso persino la canoa, in modo da poter fare, oltre alle passeggiate instancabili e ai miei allenamenti di corsa, poiché quello fu anche l'anno in cui decisi di andare a correre la mia prima maratona (a New York), anche delle escursioni in canoa lungo la costa dell'isola. Furono giorni di solitudine e di pensieri che mi arrovellavano.
Fuggivo, in verità, dalla mia depressione e cercavo soluzioni interiori senza però trovarne. Come dice Orazio in una delle sue satire, rivolgendosi all'amico tormentato da pene d'amore, è inutile spostarsi in un altro luogo pensando che il cambiamento d'aria e di latitudine possa giovare, poiché il tuo dolore si sposterà con te.
Ero cieco e sordo a tutto in quei giorni e sentivo di avere il cuore straziato e sofferente.
Ricordo che una delle letture che mi portai appresso fu un grosso volume sui medici nazisti (una lettura non certo rallegrante) che lessi avidamente sino alla fine.
Avevo con me altri libri, ma di quelli i titoli non li ricordo (forse si trattava di letture “più leggere”, ma non ho memoria).
Andai bene attrezzato di walkman e delle molte musicassette dove avevo registrato la musica che in quei mesi avevo imparato a preferire.
Correvo, passeggiavo, andavo in canoa, una serie di attività frenetiche ed ardite. Con la canoa, soprattutto, feci delle cose ardite ed imprudenti, come ad esempio spingermi a fare l'intero giro dell'isola, mettendo tra parentesi il rischio implicito (pur sempre possibile) del guastarsi del mare e del capovolgersi del fragile guscio della mia imbarcazione (se ciò fosse accaduto sarebbero stati guai, perché con quella canoa, risalire dall'acqua non si poteva e il tratto di costa esposto ad ovest era impervio e poco praticato dalle imbarcazioni locali.
Ma anche dedicavo molto tempo a scrivere nella mia agenda e a leggere.
(on the road, 28 marzo 1989)
Viaggio magico
all'alba
Nastro d'asfalto
corre sotto le ruote
Velocità
La luna alta nel cielo,
una metà perfetta
illumina di una luce quieta
la campagna punteggiata di fioche luci palpitanti,
sparse e remote
Stelle brillano ancora nel cielo,
immote
Ecco che a Oriente,
alle mie spalle
balugina il primo chiarore
d'un nuovo giro
Il miracolo del nuovo giorno che risorge,
si ripete
(Levanzo, 29 marzo 1989)
Due gabbiani
si rincorrono
con volteggi arditi,
cabrate e picchiate
Il cielo è di un incredibile azzurro,
senza una sola nuvola,
senza nemmeno la traccia d'una scia
L'aria è ferma
Il sole picchia
ma senza far sentire il suo calore
sulla pelle
Forse ancora l'ora è giovane
Poi, più tardi,
si è levata la brezza
con un soffio che penetra nelle ossa
I gabbiani continuano le loro evoluzioni
con strida continue e laceranti
e salgono più su, più su,
oltre la cima della montagna
e, per certo, con il loro occhio vagante
possono scrutare la distesa di mare
al di là
poi, d'improvviso,
i due gabbiani,
forse stanchi di ascendere e di osare,
prendono a scivolare d'ala,
paralleli, in perfetta formazione
come due cacciabombardieri
guidati da mani esperte,
quasi si toccano,
pur tenendo la distanza
Scendono
Scendono,
sin quasi alla superficie del mare,
luminosa e mossa
Poi, con un colpo d'ala,
s'impennano di nuovo verso il cielo
Mi chiedo se questo non sia,
dei due gabbiani in coppia,
una sorta di volo nuziale,
oppure semplicemente un inno alla gioia
Non saprei dire
Mentre rimugino su questa domanda
i due si separano
e i loro voli prendono
inattese direzioni divergenti,
mentre compare d'improvviso
un terzo gabbiano,
prima fuori dalla vista,
con intenti predatori
o di prevaricazione
(così mi mi pare)
Uno dei due due gabbiani felici di prima
si allontana solitario e si perde nel blu
La nuova coppia
che s'è appena formata
riprende quota
e ricomincia i giochi aerei
(Levanzo, 30 aprile 1989)
Il segreto del walkman è quello di questa musica magica
che ti penetra nelle orecchie e nella testa,
inondando la mente
Si viene a creare una sorta di dissociazione percettiva
tra ciò che vedono gli occhi
e ciò che arriva attraverso il canale uditivo
Le percezioni uditive non sono più supportate e arricchite
dal canovaccio di uno sfondo sonoro variegato
(fatto di voci, suoni, i rumori più diversi e casuali)
Le percezioni visuali
vengono ad essere in un certo qual modo
de-affettivizzate
E' come vedere le cose che accadono
o che entrano nel proprio campo percettivo
e sentirsene distaccato
perché al tempo stesso attraverso gli auricolari
hai questa musica che ti entra nelle orecchie
e ti fa sentire distante da ciò che vedi,
non coinvolto
In fondo, è come vedere un film
supportato da una bella colonna sonora
Sai, in questo caso, che ciò che vedi
è soltanto una finzione
Nel film qualcuno potrebbe essere ucciso
o torturato
o picchiato
e a te non importerebbe granchè
poichè hai quella bella musica nelle orecchio
che fa da filtro e stravolge del tutto
il percetto visuale
In fondo il Walkman
[come tutte le tecnologie successive]rientra perfettamente
nel tema generale della ricerca di un oggetto-droga
che consenta di frapporre un filtro rispetto alla realtà,
oppure di sentirsi distanziato dalla realtà degli altri
Ciò che vediamo diventa soltanto uno scenario,
nel quale non siamo più coinvolti
Il cielo sopra di noi
Una traccia bianca
distante
attraversa il cielo azzurro
(un azzurro tanto intenso che fa male agli occhi
e lacera il cuore)
Una mano invisibile traccia
una sottile stria bianca
che dopo un po' si sfalda e si perde
La sicurezza spavalda e perentoria di quella linea
si annulla,
rivelando la sua effimera natura
Lassù in alto una vita palpita
ai comandi della volta celeste
e delle sfere sublimi
Gli uomini se ne stanno in basso,
minuti come formicole,
annichiliti di fronte all'immensità
e a loro è dato solo
volgere gli occhi al cielo,
con sguardo carico di nostalgia
(Palermo, 14 marzo 1989, rielaborata)
Un'immagine della fine
Colate nere,
come di inchiostro,
scendono giù dal cielo
e si spandono in basso,
cancellando a poco a poco
il mondo degli uomini
che si stravolge,
mentre perde i suoi dettagli e le sue varietà,
appiattendosi alla bidimensionalità,
come una foto che si va cancellando
dalla periferia verso il suo centro
ma anche da altri punti di nulla
scaturenti dal suo interno
Ecco quello che succede,
mentre io osservo
pieno di meraviglia, ma anche di orrore,
perché son certo che presto
tutto quel nero
attraverso i miei occhi
entrerà nella mia mente,
tutto annullando,
cancellando irrevocabilmente
memoria e pensieri,
emozioni e desiderio,
sino a che anche il cuore
annerito e divorato
cesserà di battere
Passano le ore
Passano i giorni
Passano le settimane e i mesi
Passano gli anni, i lustri e le decadi
E questa processione procede sempre più veloce
sino ad avere il ritmo frenetico di un tornado
Poi,
senza che nemmeno ci si accorga,
la fine è giunta
(testo originario del 21 marzo 1989, rielaborato)
Levanzo 1989 - foto di Maurizio Crispi
Ho riflettuto a lungo su quanto sia sottile il confine tra la vita e la morte
Si può arrivare alla morte dopo una lunga malattia e con molta sofferenza
Si può morire per un trauma violento ed improvviso e, in tal caso, forse, non si avrà neppure la consapevolezza del trapasso
Oppure, il morire potrebbe consistere in un lento scivolamento, dolce e senza scosse, in cui l'atto finale - quello del transito (o, come dicono gli Inglesi, del "passing over") avviene insensibilmente, come se si fosse presi dal sonno e poi si entrasse in uno stato di incoscienza e di oblio (un dormire dal quale non ci sarà più risveglio, oppure forse sì, se si crede ad una vita possibile dell'anima dopo la morte)
Come accade con il sonno fisiologico, quando si chiudono gli occhi aspettando fiduciosi di essere ghermiti da Morfeo, così potrebbe accadere per il sonno definitivo e senza risveglio della Morte
Forse, in quest'ultima evenienza, il morire non dovrebbe essere una cosa così angosciante e terrificante (cosa a cui invece pensavo molto da ragazzo): il morire come strenua lotta, come battaglia, come agone...
La morte dolce e lenta è, in un certo senso, quella dei filosofi: una consapevole e desiderata transizione nel Mistero per andare a vedere cosa vi sia dall’altra parte
(Palermo, il 25 Marzo 1989)
Foto Polaroid, Primavera 1989
(Per spiegare queste ultime foto) Negli anni Ottanta acquistai una macchina Polaroid.
La usai solo per un periodo di tempo limitato: mi piaceva sperimentare e, soprattutto, mi piaceva vedere subito la foto già pronta.
Era l'unica tecnologia visuale, al tempo, che consentiva di far ciò.
Oggi al tempo della digitale, uno può vedere subito l'immagine che ha catturato e di foto ne può fare quante ne vuole.
Allora, benché la tentazione di fare tanti scatti polaroid fosse enorme, occorreva limitarsi, poiché le pellicole - se ben ricordo - avevano un costo levato.
Queste che ho trovato dentro una busta sono le uniche foto che mi rimangono di quel periodo.
Altre c'erano (le ricordo), ma si sono disperse.
Molti di questi autoritratti li ho fatti nel corso di una mia permanenza solitaria a Levanzo nell'Aprile del 1989 (come ho raccontato sopra) Fu una settimana di solitudine totale e benefica, l'isola in quel periodo era poco frequentata.
Passavo le giornate correndo, andando in canoa, passeggiando e leggendo.
Ricordo che ebbi il dono di giornate con un meteo eccezionalmente bello e temperature miti.
Nessun contatto esterno.
Allora la telefonia mobile era ai suoi primordi e quindi non c'era nessuna possibilità di essere "connesso o "wired", come si direbbe oggi. Se uno si metteva fuori tiro, lontano da tutto e da tutti lo era per davvero.
Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre
armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro
intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno
nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).
Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?
La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...
Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...
Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e
poi quattro e via discorrendo....
Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a
fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.
E quindi ora eccomi qua.
E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.