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19 dicembre 2018 3 19 /12 /dicembre /2018 07:21

C'è un incendio che si sta formando
Eppure non faccio nulla per spegnerlo
Mi sposto da un angolo all'altro di una casa che non conosco, in cerca
quando ho finalmente recuperato un secchio pieno
lo svuoto sulle fiamme guizzanti, ma senza convinzione
come se del fuoco che arde non mi importasse nulla
ignizione che si tramuto in agnizione,
anzi lo guardo come se fosse parte del mio Io più profondo
Intanto, se alzo lo sguardo, vedo la volta del cielo nero,
e il firrmamento di stelle trapuntate,
alcune pulsanti
Barbaglio di braci che arriva a me
dopo aver viaggiato nello spazio cosmico per milioni di anni luce
e quelle stelle che pulsano così brillanti forse non esistono più,
le loro fornaci si sono estinte
o sono implose
o si sono trasformate in un freddo ammasso di rocce morte
Eppure portano a me un messaggio di luce
Ed è allora ben poca cosa, in confronto all'enormità dell'Universo,
il tappeto di fiammelle guizzanti ai miei piedi

Il tempo delle fiamme del desiderio si è estinto da tempo
come quelle stelle ormai morte di cui ancora vedo la luce accattivante

E poi, dopo gli ultimi fuochi, rimarrà soltanto una luce nera ed insondabile

Il fuoco delle stelle
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5 luglio 2018 4 05 /07 /luglio /2018 09:35
Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)

Non avevo mai visitato le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, sino a pochi giorni fa.
Per motivi diversi mi ero astenuto: forse, pensavo che sarebbe stata un'esperienza sgradevole, oppure ricordavo di quando la mamma mi raccontava che durante la sua prima visita negli anni Sessanta, improvvisamente si spense la luce e lei rimase al buio, assieme a quelle mummie (ebbe a nutrire il sospetto che fosse stato il frate custode a farle uno scherzo di dubbio gusto).
E' capitata l'occasione e sono andato.
Non parlerò del luogo di cui si sa tanto e di cui tanto è stato scritto, bensì delle mie sensazioni
Strane sensazioni.
La prima è che, considerando i racconti di coloro che, tra le mie conoscenze, le hanno visitate, i resoconti di viaggiatori illustri e le numerose foto disponibili sia nella carta stampata sia internet, non ho avuto sensazioni di spaesamento: bensì la sensazioni di esserci già stato, una sorta di dèjà vu, insomma.
La seconda è stata quella di potere osservare una rappresentazione della morte in modo distaccato: è come se la miriade di corpi mummificati appesi e disposti in file ordinate non riconducessero all'orrore oppure al terrore per la morte, ma fossero soltanto spoglie mortali, vuote, private di ogni implicazione spaventosa. Forse anche perchè siamo abituati alla rappresentazione della morte e del cadavere nei fumetti e nei film di animazione.
Le teste cadenti, le mandibole cascanti, gli abiti polverosi oppure le tele di sacco in cui in modo grottesco sono infilati alcuni dei corpi, le orbite vuote, i nasi mancanti, quei ciuffi di capelli sopravvissuti, fossero piuttosto che uno stimolo a riflettere sulla morte e sulla fine di tutte le vanità, una vacua rappresentazione del nulla che ci attende: una rappresentazione messa in scena in una sorta di iterazione ossessiva, quasi in un mantra dalle infinite variazioni, in una dimensione di horror vacui, tanto che quando capita di arrivare ad una galleria vuota, cioè con le nicchie prive di inquilini, si ha un'improvvisa sensazione di spaesamento.
Se non altro, quando si va al cimitero e ci sofferma davanti ad una lastra di pietra, posta nel terreno, oppure nella contemplazione di una lapide verticale o di una cappella funebre, con tutti i relativi orpelli, ci si ponesse di fronte ad un'assenza, all'assenza dei nostri cari più recenti o degli antenati che possono vivere solo se sono stati instaurati, e di conseguenza installati, nel nostro immaginario e nelle nostre emozioni con un diuturno (e talvolta faticoso) lavoro di elaborazione e rielaborazione (V. Despret, Non dimenticare i morti. I racconti di quelli che restano, Nuova Ipsa Editore, 2017, in particolare il cap. 1, Prendersi cura dei morti).
La terza cosa che più mi ha impressionato è stata quella di vedere nei volti delle mummie, ghigni e smorfie grottesche, come se alcuni dei morienti avessero avuto un trapasso doloroso e faticoso (e che non fossero stati ricomposti, come si fa oggi per rendere il defunto "presentabile" ai visitatori in cordoglio), mentre in altri casi mi è sembrato di cogliere in quegli sguardi vuoti curiosità e sorpresa, talaltra meraviglia.
Forse potrei aggiungere una quarta cosa che è quella del progressivo annichilimento delle salme, malgrado l'utilizzo di questo tipo di sepoltura, come se il tempo, grande scultore, finisse con il livellare tutto, riducendo comunque vesti, orpelli e carne, in ossa e, alla fine, in polvere.

I corpi esposti sembrano farsi via via più ristretti, più corti, più rinsecchiti, più fragili, in un continuo processo di ridimensionamento. E, a fronte di questo processo di progressivo annichilimento accentuato dalle teste reclini, dalle mandibole cascanti da quei sorrisi o smorfie o ghigni talvonta totalmente edentuli, quasi ad accentuare il ritorno di ogni creatura af uno stato larvale, crea un forte contrasto il fatto che qualche cosa delle vanità terrene sia stata mantenuta, essendo stati suddivisi gli spazi in cui sono collocati i corpi in categorie che, in qualche modo, fanno riferimento allo status che il defunto aveva avuto in vita, assieme - in taluni casi - agli abiti (ad esempio, di rigore per i cosidetti "professionisti", alloggiati in una specifica ala, è la giacca o la marsina).

Le Catacombe dei Cappuccini furono utilizzate sino a oltre il 1864: fanno fede di ciò alcune delle targhette applicate ai corpi che recano la data della morte (e a volte della nascita) del soggetto. Mi fa impressione pensare che mia madre che visitò questo sito negli anni Sessanta del secolo scorso, abbia potuto vedere queste salme in uno stato totalmente diverso, probabilmente, meno prossime, cioè al trasformarsi in larve e e polvere.

 

Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)
Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)
Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)
Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)
Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)
Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)

Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)

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13 agosto 2017 7 13 /08 /agosto /2017 08:45
Il Castello di Cefalà Diana: una visita a lungo posposta

Ho sempre visto da lontano i ruderi del Castello di Cefalà Diana: quella torre svettante e la sagoma di quell'arco slanciato mi hanno sempre attratti, provocando in me un senso di soggezione per via dell'impressione di inviolabilità di quel manufatto arroccato sulla sommità di una rupe, a guardia perenne della vallata sottostante e della strada di transito che tuttora la percorre.
In tempi più recenti la sua sagoma scarna, eppure minacciosa, è messa in risalto da un'illuminazione notturna.
Ho sempre pensato di andare a visitarlo, ma non l'ho mai fatto.
C'è sempre un motivo, nel dilazionare una visita e nel posporla. Forse, perché preferiamo che certi luoghi rimangano nella fantasia più che in una precisa collocazione spaziale e temporale; forse anche, perché nutriamo il timore che una visita, nel momento in cui ci ritroviamo a poter toccare con mano i manufatti, misurarne lo spazio con i nostri passi, creare nella nostra mente una topografia del luogo precisa ed inconfutabile, possa distruggere o banalizzare quel fascino da cui ci sentiamo così soggiogati.

 

Il Castello di Cefalà Diana (Foto di Maurizio Crispi)

Quando visiti un posto così, per poterlo fare, devi in un certo senso sorprendere te stesso: la cosa deve avvenire senza alcuna previa pianificazione, ma quasi per caso, anche se in realtà a quell'approccio apparentemente casuale nella nostra mente ci siamo a lungo preparati.
L'altro giorno, di ritorno da Favara, mi sono ritrovato a passare proprio da lì, nel prendere la deviazione che da Villafrati mi avrebbe portato a Bolognetta. In maniera molto naturale, quasi ciò fosse stato non in quel momento, ma dopo una lunga preparazione preliminare, avvenuta in qualche momento in un passato remoto, mi sono ritrovato ad imboccare l'erta stradina che conduce al castello e al Santuario; ho scoperto anche, al passaggio, il piccolo paese settecentesco di Cefalà Diana, un gruppo di case che, come un gregge di pecore assediate dalla calura, si assiepano attorno ad una pittoresca piazza rettangolare: il piccolo borgo, appoggiato sul pendio del monte che ascende verso il castello guarda verso la massa imponente di Rocca Busambra.
La rupe dal lato del borgo si presenta con un pendio meno violento e una stretta strada vi si inerpica, con un irregolare selciato di pietra, percorribile in auto, quasi sino ai suoi piedi: l'ultima parte dell'ascesa l'ho compiuta a piedi. Trovandosi a piedi del castello si rimane impressionati dal fatto che il perimetro del castello è ben più ampio di quanto non si possa supporre guardando al suo skyline dal lato della strada statale che che porta ad Agrigento. Si presenta con una pianta triangolare che delimita un ampia corte interno mediamente inclinata e all'interno si presenta un secondo bastione a bastione del nucleo centrale della fabbrica. La torre mastra, totalmente intatta (sottoposta evidentemente a restari) si trova nel pnto più elevato del recinto ed è la parte del castello visibile.
La vista dagli spalti del castello è mozzafiato: dai suoi diversi punti di osservazione si domina a 360 gradi il paesaggio circostante. Ovviamente, l'importanza strategica del presidio era quella di dominare la valle sottostante del fiume Milicia, dove correvano le importanti vie di transito.
Uno del posto che si trovava in gita con la famiglia sulla spianata ombrosa davanti al castello, mi ha detto dell'esistenza di passaggi e cunicoli sotterraneo che dalla rupe, attraverso concamerazioni scavate nella roccia consentivano di scendere verso il basso e quindi di raggiungere una torre non più esistente collocata sulla rupe di fronte (una notizia per me non verificabile ma che, tuttavia ha fatto crescere attorno a questi ruderi un alone di avventura e di mistero.
In certi giorni e in certi orari è visitabile la Torre Mastra che è stata oggetto di un restauro più accurato.
Ma l'intera struttura è ben mantenuta e ha ricevuto nel corso del tempo degli interventi di consolidamento conservativo.
Accanto alla torre mastra possente, nei suoi circa 20 metri di altezza spicca, residuo di una costruzione più vasta, un aereo arco che continua a reggersi da solo, quasi per miracolo.
Scendendo in direzione di Bolognetta si incontra poi l'edificio che ospita i "Bagni Termali", conosciuti sin dall'epoca araba e sede, in tempi successivi, di un'Albergo rurale oggi non più funzionante.
Una visita che, sicuramente, merita attenzione.

 

Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi

Foto di Maurizio Crispi

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28 ottobre 2016 5 28 /10 /ottobre /2016 23:58
(foto di Maurizio Crispi)

(foto di Maurizio Crispi)

Montagna Longa è un luogo di memorie, per me, indubbiamente e per tutti coloro che nell'olocausto dell'aereo che vi si è schiantato hanno perso la vita in un solo momento.
Poco prima dell'incidente fatale, mio padre mi parlò di un libro che aveva letto e che gli era rimasto fortemente impresso: si trattava di "Il Ponte di San Luis Rey", scritto dal romanziere e drammaturgo statunitense Thornton Wilder (1927).
Questa in breve la storia che vi è narrata.
Il Ponte di San Luis Rey (Thornton Wlder, Mondadori)Nel 1714 il ponte di San Luis Rey, che per oltre un secolo era stato la più importante via di collegamento per gli abitanti di Lima e Cuzco e per i viandanti che si spostavano dall'una all'altra città, in Perù, crolla improvvisamente, causando la morte di cinque persone.
Fra' Ginepro, un frate che si accingeva ad attraversarlo, dopo aver assistito all'accaduto, sconvolto dalla tragedia, inizia a porsi delle domande di carattere religioso e morale: chi erano quei cinque e perché si trovarono proprio lì?
Cercando di risalire alle cause del crollo del ponte, la curiosità porta Fra' Ginepro a ricostruire le vite dei cinque deceduti nel tragico evento: nel tentativo di capire se avessero qualcosa in comune?
Sulla scorta dell'indagine, nacque un problema morale su cui si pronunciò anche la Chiesa, chiamando in causa la Provvidenza e suscitando altri interrogativi: si era trattato d'una tragedia o di una punizione divina, che ha fatto incrociare i destini dei cinque nel medesimo luogo alla medesima ora? Il Signore ha voluto punire così i malvagi oppure, operando in tal modo, ha volutamente chiamato a sé anche gli innocenti?
I quesiti, posti sull'eterna condizione umana e sulla morte, sulla misteriosa complicità di caso e destino, rimarranno inevasi.
Indro Montanelli, che a questo romanzo si ispirò nella scrittura di "Qui non riposano", consigliava agli aspiranti giornalisti di leggerlo e di trarne ispirazione, in quanto esempio di «alta tecnica narrativa, valevole per tutti gli scrittori, compresi i romanzieri»; ed anche «uno dei pochi veri capolavori di questo secolo, per ricostruire le varie vicende umane che avevano condotto tutti quei viaggiatori, sconosciuti l'uno all'altro, a trovarsi su quel ponte al momento della catastrofe».
Non so come mio padre fosse arrivato a questo testo: ma forse - voglio pensare - proprio seguendo quegli strani percorsi di lettura che fanno coloro che che amano i libri, in cui ciascun libro letto ne chiama altri aprendo percorsi imprevisti e tortuosi (in nuce questo modus operandi in cui si combinano assieme le voglie e le curiosità dei lettori con l'intrinseco potere dei libri è l'origine e il senso dell'infinita Biblioteca di Babele borgesiana).
Me ne aveva parlato, sì. Forse mi aveva dato anche quel libricino, perché lo leggessi. Ci sperava sempre che io seguissi i suoi suggerimenti e le sue suggestioni e, instancabilmente, seminava germi di cultura, cercando di darmi una veduta ad ampio raggio del mondo e molti vertici di osservazione per aiutarmi a guardare nella complessità.
Ma io, sul momento, lo avevo messo da parte, perché allora rivendicavo la mia autonomia di scelte (o almeno cercavo di salvare le apparenze, per mia pace, poiché non si poteva sfuggire alle suggestioni che promanavano da lui).
E quindi, dopo il fatto, quel libro lo ripresi in mano, e da allora l'ho tenuto quasi sempre vicino a me, tra i libri che mi sono più cari e che devono stare sul comodino sempre pronti ad essere aperti, sfogliati, letti anche a caso, captando una frase qua e là.
Non posso non essere influenzato da quelle pagine, quando rifletto sull'incidente di Punta Raisi o su altri analoghi.
Perché quelle persone si trovarono assieme?
Perché alcuni per pura casualità rimasero esclusi, mentre altri - sempre per pura casualità - furono inclusi all'ultimo momento?
Quale disegno imperscrutabile rimase dietro quel mosaico di vite? Qale necessità determinò il tragico destino delle 115 vittime?
E cosa pensarono, cosa sentirono nel momento dell'impatto, se ebbero il tempo di sentire o pensare qualcosa, prima della cacofonia dei rumori dello schianto, delle esplosioni e del ruggito delle fiamme (tutte cose che ho sempre immaginato)?
E perché tutto questo accadde?
Qual'è la verità nascosta dietro la frettolosa rimozione dei detriti e la dismissione delle salme, dopo i dovuti riconoscimenti (laddove questi furono possibili) senza nessun esame autoptico (al di fuori della perizia necroscopica sui due piloti)?
Dopo circa due anni venne posta sul monte (ma non esattamente sul luogo dell'impatto) una grande croce metallica per ricordare le vittime e l'equipaggio. Sui due fianchi della parte ascendente della croce sono riportati in ordine alfabetico i nomi delle vittime (con la data di nascita accanto): un totale di 113 compresi i componenti dell'equipaggio. A vederli riposare sulla vasta superficie della croce quei nomi spogli non sembrano tanti. Ma furono tanti: a volerli recitare uno per uno passa un bel di tempo... e 113 è ben più di un terzo delle vittime accertate del terremoto del Belice.
La croce avrebbe dovuto essere illuminata: infatti venne eretta già con un suo impianto di fari. Ma l'Alitalia (o l'amministrazone aeroportuale( si oppose strenuamente sostenendo che quella croce accesa di luce avrebbe "turbato" la buona pace dei passeggeri degli aerei di linea in avvicinamento e attivato in essi stati d'ansia, gettando discredito sulla sicurezza dell'aeroporto palermitano e avrebbe per sempre ricordato quell'incidente a discredito della sicurezza dell'aereoporto
La croce, sorta su terreno demaniale per volontà della diocesi di Carini (molto attivo in questa realizzazione fu Monsignor Pappalardo allora e per molti anni parroco), fu eretta 42 anni fa e oggi è in condizioni di degrado preoccupante, con estesi danni causati dagli elementi atmosferici e dalla ruggine. E sicuramente andrebbe ripresa.
Occorrerebbero anche interventi di ripristino della recinzione, in alcuni tratti crollata.
Ma soprattutto sarebbe bello pensare ad interventi che ne consentissero la fruizione anche durante tutto l'anno e non soltanto in occasione della ricorrenza dell'anniversario della tragedia.
Migliorando l'attuale strada di accesso, molto impervia soprattutto nell'ultimo tratto, o aprendone una nuova che salga da Cinisi sfruttando il fatto che il pendio della montagna è ben più dolce, si potrebbe pensare ad un progetto di riqualificazione della vasta area attorno alla Croce, facendone un vero e proprio "Parco della rimembranza" dedicato a tutte le vittime, ma anche a tutti coloro che vogliano stare in un luogo che favorisca la meditazione e la riflessione sulle cose ultime.
Un parco arricchito di altri alberi, oltre ai numerosi cipressi già messi a dimora, ed essenze arboree adatte alla location, inserendo (o almeno tentandoci) qualche Ulivo, che ha la forte valenza simbolica della permanenza e dell'attaccamento tenace alla Madre Terra, la cui planimetria possa essere disegnata da percorsi delimitati da siepi di bosso, e punteggiati da piccoli cippi che facciano da supporto a citazioni letterarie adatte alla riflessione, ma anche da pannelli esplicativi che raccontino a futura memoria - l'incidente con il corredo - su supporti resistenti alle intemperie -  delle poche immagini d'archivio disponibili (perché anche questo fa pensare alla superficialità investigativa e alla quasi non esistenza di una documentazione fotografica realizzata con tecniche analitiche nelle ore successive all'incidente).
A me personalmente piacerebbe sapere - e mi darebbe conforto - che esiste un parco così fatto, tale da resistere all'usura del tempo e farne un luogo del Ricordo che possa essere tramandato alle future generazioni e continuare anche quando tutti coloro che furono toccati direttamente dalla tragedia non saranno più: una location che sia di pace e di meditazione in quanto nodo cruciale di transito e di passaggio di tante anime verso qualche luogo altro che sicuramente - non so come, non so dove - esiste: e proprio, perchè è stato luogo di transito di tante anime, rimane come luogo di pace immensa ma anche di forte - fortissima energia - che si avverte nell'aria che vibra e nel soffio del vento e nella grandiosità del paesaggio che si stende ai piedi del monte brullo e sassoso, monte di roccia aspra e impervia che affiora dovunque, a creare un contrasto ferrigno con la morbidezza e la solennità dei cipressi che punteggiano il sito attorno alla croce-reliquia.
Io vi salii, a Montagna Longa, una prima volta a luglio, dopo appena due mesi dall'incidente. Allora la strada aperta dalla Forestale ai tempi della messa in posa della Croce non esisteva (o forse semplicemente non ero a conoscenza della sua esistenza) e quindi io feci l'ascesa dal lato di Cinisi, sotto il sole feroce della stagione.
Salendo da questa parte si ha subito la visione del luogo d'impatto che avvenne, secondo le ricostruzioni poco prima (dopo, se consideriamo il senso di marcia dell'aereo) il punto sommitale.
La croce di Montagna Longa (foto di Maurizio Crispi)E, lì dove oggi si può vedere su di una roccia promnente sulle altre, verde di muschio, una piccola lapide di marmo dedicata ad Angela Fais e, accanto, un'altra che ricorda una delle hostess, quando io arrivai, era tutto annerito dal fuoco che aveva divampato con il kerosene residuo versato dai serbatoi, e il terreno era disseminato di piccoli detriti di plastica, alluminio, metallo, tutto irriconoscibile.
Solo le parti dell'aereo rimasta intatte erano state velocemente rimosse, quasi a cancellare ogni traccia, prima che qualcuno potesse pensare di approfondire le dinamiche.
Sperimentai allora un senso di grande desolazione, con il rombo del vento (che pensavo eterno) nelle orecchie.
E quyando vi sono risalito lo scorso 5 maggio 2016, in occasione della commemorazione che si celebra di anno in anno, mi hanno assalito le stesse sensazioni, l'emergere della memoria è stato netto ed inconfondibile: Montagna Longa è per me non solo un luogo fisico, ma anche un luogo della mente, saldamente stabilito nel mio deposito di ricordi.
Forse in seguito quando misero a dimora la croce ci saliì.
Ma di quell'ascesa ho rimosso quasi tutto. Ci sono delle sensazioni vaghe depositate: un moto di paura a vedere il precipizio a lato della strada, l'abisso pronto a ghermirti. E poi la sensazione tattile della mano che indugiava sulle scritte dei nomi in rilievo, quasi che per me fosse più importante leggere quei nomi come se fossero stati scritti in Braille.
In quest'ultima ascesa che ho compiuto tali sensazioni si sono rafforzate, sono venute fuori con maggiore prepotenza.
Quindi, almeno un'altra volta in passato devo esserci salito, anche se non riesco in alcun modo a circostanziare e a rivedere quell'ascensione "ombra" nei dettagli.
O forse l'ho solamente sognato di esserci salito...
Misteri dei meccanismi mentali che presiedono alla memoria e alla conservazione dei ricordi!

Le foto sono di Maurizio Crispi
Le foto sono di Maurizio Crispi
Le foto sono di Maurizio Crispi
Le foto sono di Maurizio Crispi

Le foto sono di Maurizio Crispi

(Fonte: dal Gruppo Facebook "Montagna Longa, 115 vittime: un disastro aereo dimenticato") SICILIA (Palermo) - E' il 5 maggio 1972. Una data difficile da dimenticare. Un aeromobile DC 8 dell'Alitalia, il volo AZ 112 Roma - Palermo si schianta sul costone della Montagnalonga, fra Cinisi e Carini, a circa 5 miglia nautiche a Sud dell'aeroporto di Punta Raisi. Muoiono 115 persone lasciando 98 orfani e 50 vedove. Tra le vittime i corpi di un giudice, di due giornalisti, di un paio di militari e di qualcuno che si pensò fosse dei servizi segreti. Qualche altro non fu mai identificato. Rimarrà negli archivi della memoria come la più grave tragedia nella storia dell'aviazione civile italiana.

A guidare l'aereo ci sono piloti di lunga e provata esperienza di volo. Roberto Bartoli e Bruno Dini. Con loro il motorista Gioacchino Di Fiore, anch'egli con il brevetto di 3° grado che lo aveva abilitato al pilotaggio di grossi aerei.

L'aeromobile, con a bordo 108 passeggeri e 7 membri dell'equipaggio, alle ore 21,46 decolla dalla pista di Fiumicino. Intorno alle ore 22,25 è sulla verticale dell'aeroporto palermitano a 5.000 piedi ed il bollettino meteorologico di Palermo Punta Raisi segna «calma di vento, visibilità 5 Km.».

Su Montagnalonga, dopo 3 processi e un'istanza di riesame, respinta nell'ottobre 2001 dal giudice di Catania Peroni Ronchet, se non si vuole prendere per buona la "verità" emersa nelle Aule di Giustizia, risultata a dir poco improbabile, non ci sono ancora verità e responsabilità.

L'8 maggio 1972, in una nota di agenzia della Reuter affiorò l'ipotesi della bomba, ma le indagini e le istruttorie che si susseguirono la scartarono del tutto.

Nonostante, all'indomani del grave evento, circolasse diffusamente in ambito giornalistico la notizia che si trattava di un atto stragísta e non di incidente di manovra, calò un improvviso silenzio, seguito da affrettate e incalzanti smentite.

Le famiglie Fais, Salatiello e la moglie e i familiari di Bartoli, costituitisi parti civili, nell'immediatezza dei disastro, contro i responsabili aeroportuali dell'epoca, i funzionari dell'Alitalia, dei Ministeri della Difesa e dei Trasporti, costrinsero la magistratura catanese a chiamare in giudizio quest'ultimi, i quali furono in seguito tutti assolti.

L'ipotesi di una bomba a bordo, subito scartata, fu invece raccolta dal rappresentante dei piloti Anpac nella prima commissione di indagine.

Il 27 giugno 1972, a 15 giomi dalla firma dei decreto di incarico dell'allora ministro Oscar Luigi Scalfaro, il colonnello Francesco Lino aveva già concluso per l'errore umano, nonostante il comandante Ferretti, membro della commissione d'inchiesta ministeriale, a nome dei piloti Anpac, avanzasse il sospetto di una esplosione nella carlinga.

La commissione, in base alle norme che regolano i rapporti tra Alitalia e Ministero dei Trasporti, avrebbe dovuto prevedere una composizione di 13 membri, di cui 3 appartenenti all'Anpac Ma il colonnello Lino la limitò a 11, escludendo, quindi, due piloti.

Sui piloti si rovesciarono accuse di inesperienza e tasso alcolico elevato. Sul Bartoli si riversarono accuse di distrazione, in particolare «evidenziatasi nel corso della giornata, a causa di annebbiamento cerebrale dovuto a droga o alcool». Versíone infamante, poi smontata dalla perizia dei prof. Ideale Dei Carpio. dirigente dell'Istituto di Medicina Legale di Palermo.
tratto da http://montagna-longa.noblogs.org/

Nel sito http://www.montagnalonga.it/ (da cui è tratta la foto) è tutto minuziosamente documentato anche con raccapriccianti filmati dei telegiornali dell'epoca.

Mi sono avvicinata a questa triste pagina, interessata dal fatto che tra le vittime ci fosse Cestmir Vicpaleck di anni 24, figlio dell'omonimo calciatore e allenatore di Juventus e Palermo e cugino (coetaneo) dell'allenatore Zdenek Zeman.

Ma le vittime non hanno nome, sono vittime e basta e come tali gridano giustizia

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6 ottobre 2016 4 06 /10 /ottobre /2016 22:20
Palermitana-mente... Quelli che l'Acchianata e la Santuzza l'hanno dentro

(Cettina Vivirito) Oggi, come tutte le mattine, sono scesa con il cane per la solita passeggiata.
Nata alle falde di Monte Pellegrino, per me salire quelle antiche strade che già mia nonna chiamava fuie (fughe, o rampe - e ci sono la prima, la seconda, la terza..) fatta di pietre lisce lucide e smozzicate é come ciabattare per casa da vecchia perpetua: conosco i particolari delle curve, le erbe medicamentose e il finocchietto selvatico, le nuvole che scendono basse e quelle che si nascondono dietro la montagna per poi comparire in volo veloci come aquiloni e sempre diverse.

Da qualche giorno, quasi a metà della prima fuga c'è una gattara, qui le chiamiamo così, quelle tipe che "si partono" da casa con sacchetti, contenitori piatti di carta e quant'altro per fare mangiare i gatti in un luogo che scelgono arbitrariamente. Questi gatti però sembrano più stronzi di tutti gli altri gatti che ho conosciuto, si mettono in orizzontale lungo la strada come un passaggio a livello - chiuso - e il mio cane s'incazza. Ho provato a dire alla signora che sarebbe meglio spostarsi poco più giù, nello slargo sotto agli alberi ma lei niente, semmai mi ha apostrofato dicendo: Ma lei è per caso della forestale? No perché quelli della forestale mi hanno detto che posso stare qui, mentre i cani devono stare legati.
Scendendo poi ho visto che ha chiamato rinforzi, non era più sola ma con un uomo accanto che ostentava tutta la sua mafiosità. Si, senza offesa, qui a Palermo è un fatto culturale, un atteggiamento molto comune, magari quest'amico della signora ha un amico di cui non si ricorda neanche il nome, che lavora (o lavorava) alla forestale e tanto basti. Così ho pensato di rinunciare alla questione, mi avventuro con il cane che, almeno lui, ha capito che i gatti è meglio aggirarli, ignorarli.
Una volta in realtà ne ha inseguito e beccato uno che per fortuna è riuscito a fuggire lasciandolo con in bocca un pugno di peli e una zampa bloccata in aria dallo sforzo. Non è giovanissimo il mio cane. Non è neanche giovane. E' una vita che sta con me, più a lungo di qualsiasi altro compagno umano. Adesso tutti hanno un cane. Tutti tutti.

Una delle rampe della Scala Vecchia di Monte Pellegrino (Palermo)In effetti sembra un rimedio semplice e naturale contro la solitudine, la nostra; ci trascinano fuori da quell'evanescente mondo digitale che ci rende ancora più soli, nonostante l'illusione del contrario. I cani e la geografia sono rimasti l'ultimo riparo. Non so tutti questi cani dove stavano prima, e se preferirebbero essere liberi e stare in branco tra loro.
Nel frattempo saliamo passo dopo passo, ogni tanto ci fermiamo a guardare il paesaggio che più si sale più diventa arioso, bello. Capita d'incontrare gente, persone in gruppo o lupi solitari che salgono, scendono. Oggi ho visto un ragazzo che saliva svelto, concentrato, a piedi nudi e occhi a terra, sulle pietre. Uno sguardo alle pietre e uno ai piedi nudi, pensavo. O forse i suoi erano occhi che non vedevano nulla, guardavano dentro di sè, in profondità. Occhi e cuore in catene sembrava pensare seriamente alla sua promessa, alla grazia ricevuta, a una grazia da chiedere, a un conto in sospeso da saldare qui e ora con la Santuzza.
Non mi ha neanche guardata, non si è accorto che il cane lo stava guardando.
Quelli che salgono non troppo ripidamente verso Monte Pellegrino sono pavimenti del pensiero a cui rimangono attaccate tutte le figurine delle storie personali, pensavo. Già quando si arriva alla seconda fuga l'altezza distrae, i fichi d'india serpeggiano allo sguardo e il sole dardeggia tra i pini mediterranei che rilasciano con il calore un benefico ossigeno balsamico. Il cervello ringrazia e piovono ricordi di altri piedi nudi, di ginocchia scorticate, di bambini sul collo, di borracce d'acqua, di ceri accesi nella notte, odore di terra bagnata e di aloe. Ricordi di terremoto e tutti lì ai piedi del monte '...dove risuona una voce che il tempo non rapisce, dove odora un profumo che il vento non disperde'.
Quei pavimenti contengono i pensieri di noi palermitani; se potessero staccarsi, quei pensieri, una folla immensa di immagini pulsanti avvolgerebbe come una nube la città. La nostra Santuzza, che non è una santa vera e propria, lo dice la storia, e già che non subì il martirio che toccò in sorte alle sue coetanee, come Sant'Agata per esempio, la dice lunga, ci piace per questa assenza di santità canonica e per questo ripetiamo secolo dopo secolo quel percorso che lei fece a suo tempo, e da lei ci sentiamo così fortemente rappresentati. Rosalia era una pellegrina ieri, quanto lo siamo noi oggi. Era una donna che si era schifata dei tradimenti familiari, che si era innamorata di un uomo che s'innamorò di un altro uomo, che ha visto coi suoi occhi violenze di ogni tipo nel suo mondo circostante, una donna che non volle accettare compromessi e ipocrisie di classe, forte, intelligente, indipendente - dall'animo normanno - che provò un'empatia formidabile per la natura, anche lei salendo quelle fughe con gli occhi alle pietre e ai suoi piedi scalzi, con coraggio e temerarietà, senza guardare ad altro che alla fede in se stessa in quanto elemento di quella stessa natura, altrimenti chiamata Dio - anche lei attaccando i suoi pensieri a quei pavimenti come figurine: la madre assente, il padre tradito, il coltello del cardinale che infilza l'amante, e quella povera gente fuori dal Palazzo, la più illusa e tradita di tutti. E infine la figurina più dolorosa e decisiva, quella del suo amore per il cugino bibliotecario omosessuale.
I pavimenti del pensiero che conducono fino alla cima di Monte Pellegrino, quelle fughe così magnificamente silvestri, lineari e contorte allo stesso tempo, emanano, pensavo, il più autentico umore palermitano: quel sentirsi stranieri a se stessi e considerarlo ineluttabile come un destino, nel cuore dalle radici lontane il più frustrato e incomunicabile desiderio d'indipendenza. Proprio come Lei, Rosalia, che oggi ci somiglia forse più di ieri.

Una delle rampe della scala vecchia di Monte Pellegrino(Maurizio Crispi) Lo scritto di Cettina Vivirito è tante cose assieme: è scrittura diaristica e resoconto di un'acchianata a Santa Rosalia lungo la Scala Vecchia di Monte Pellegrino, di origini settecentesche e già decantata (e percorsa) da Goethe nel suo celebrato viaggio in Sicilia, è descrizione di luoghi e di persone, è viaggio esteriore e . nello stesso tempo -  nell'interiorità, è storia di un pellegrinaggio che non nasce in quanto tale, ma solo come passeggiata che poi finisce con il diventare altro, come le famose passeggiate roussoiane.
E' anche un resconto in stile "flaneur" sulla Palermitudine, sia su quella deteriore sia su quella beata e innocente della moltitudine ed è naturalmente una piccola - ed intensa - celebrazione dell'Acchianata a Santa Rosalia e del culto della Santuzza, che fa vedere come Monte Pellegrino, il suo Santuario e Santa Rosalia siano fortemente e indissolubilmente legati all'immaginario collettivo di una città.
E' una scrittura che mi ha rapito, subito sin dalla prima lettura ed è per questo che sin da subito ho chiesto a Cettina se avrei potuto publicare il suo scritto in questo blog.

In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web
In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web
In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web
In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web
In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web
In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web

In questa miscellanea tutte le foto sono di Maurizio Crispi, ad eeccezione di quella che ritrae una delle rampe delle Scala Vecchia di Monte Pellegrino che è stata tratta dal web

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30 aprile 2016 6 30 /04 /aprile /2016 21:15
L'inesausto desiderio di svelare e conoscere

Si vuole andare sempre a vedere cosa c'è al di là del confine che si pone davanti a noi...
Una porta chiusa, una tenda tirata, un muro, un cancello o un ostacolo qualsiasi che ci sbarra il cammino e ci impedisce una piena visuale.
Andare a guardare dietro l'angolo della strada: cosa ci aspetta?
Voler raggiungere l'orizzonte lontano.
E' questa una meditazione che ha suscitato in me l'istante che ho ripreso in foto.
Il mistero: cosa ci sarà dietro quella tenda?
L'immagine da cui scaturisce questa riflessione, quella di un bambino che si accinge a superare un tendaggio che gli sbarra il cammino e la visuale, secondo me, é fortemente simbolica e rappresentativa dell'essenza della spinta epistemologica che da sempre ha caratterizzato l'Uomo dalle sue origini più antiche e che si ritrova esattamente nelle prime fasi dello sviluppo infantile, il bisogno di sapere, di svelare, di conoscere...
Una potente spinta questa, la stessa che ci porta a porre domande e a cercare risposte, a porre domande che portano ad altre domande e che non ci consente mai di fermarci a riposare sugli allori di ciò che abbiamo appena conquistato.
Del resto cosa sarebbe la vita senza questo margine di mistero, senza un limite che si possa desiderare superare per vedere ciò che si cela al di là?
E come insegna la meditazione di Leopardi sull'Infinito, per quanto noi si possa fare, rimarrà sempre la nostalgia di ciò che non riusciremo mai conoscere e a incontrare.
E, a questo punto, per chiudere il cerchio di queste considerazioni (o forse per aprire un altro percorso) diventa inevitabile citare per intero la lirica di Leopardi.

 

Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
spazi di là da quella, e sovrumani
silenzi, e profondissima quiete
io nel pensier mi fingo, ove per poco
il cor non si spaura. E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei. Così tra questa
immensità s'annega il pensier mio:
e il naufragar m'è dolce in questo mare

Giacomo Leopardi

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19 aprile 2016 2 19 /04 /aprile /2016 19:43
Non sono più Silver Surfer

Cammino all’alba
in solitudine
lungo vie deserte

Attraversando il piccolo parco vicino casa
cè la pace
c’è l’aria fresca e pulita del primo mattino,
mentre s'intrecciano le voci degli uccelli,
tutte diverse, a formare un piccolo mosaico sonoro

E’ un equilibrio dinamico, in continua trasformazione,
un dispositivo caleidoscopico che incanta la mente

Poi, spostandomi ancora,
raggiungo la via principale
dove scorre il traffico mattutino

Una moto passa con un rombo fastidioso,
si sente l’ansimare pesante dei bus,
carichi dei lavoratori più precoci
Insidiose polveri sottili cominciano a levarsi

Come accade ogni mattina,
incrocio una camminatrice, elegante e profumata:
passa di lì sempre allo stesso orario, facendomi da segnatempo
La saluto al passaggio: “Buongiorno!”,
ma lei mi ignora

Altri passano, volti ormai a me noti,
ma pur sempre persone sconosciute
Cosa fanno?
Chi sono?
Cosa pensano?
Dove vanno?

Nel sogno di questa notte, qualcuno arrivava
all'improvviso
e, come una furia, cercava di scaraventare il mio PC a terra,
io mio opponevo,
e, alla fine, la mia postazione di lavoro era salva,
una colluttazione senza spargimento di sangue.
Ma per quanto tempo ancora?

Poi, mi spostavo altrove

Ed ero in una casa, a più piani,
dov'era in corso una festa sfrenata,
ma nessuno mi prendeva in considerazione:
ero condannato all'invisibilità sociale
Cercavo di farmi notare,
di far sentire la mia voce,
di ricevere attenzioni,
ma nulla accadeva
Sino a che comprendevo:
per essere accettato da quella comunità festaiola
dovevo buffoneggiare,
coprendomi di ridicolo
E così ho fatto: funzionava davvero!
Ma poi, dopo un po’,
quando io stesso cominciavo a divertirmi,
ecco che un crampo doloroso alla gamba
mi ha costretto ad interrompere

Ed è rimasto solo il rammarico
per una cosa bella finita anzitempo:
con la scoperta che, spesso,
dietro l’odio si nasconde l’amore
Poi, poi, cos'è veramente l'amore?

Silver Surfer al femminile

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16 aprile 2016 6 16 /04 /aprile /2016 08:58
Il mondo in frantumi (e la traccia della memoria)
Il mondo in frantumi (e la traccia della memoria)
Il mondo in frantumi (e la traccia della memoria)

Il mondo è pieno di folli
crazy people
con il patentino della normalità

E non c'è come difendersi

Si comprende da frasi che si intercettano al volo,
per strada

Gente inutilmente accalorata

Discussioni al telefono,
di cui arrivano solo frammenti insulsi,

discussioni private che però diventano pubbliche,
senza pudore e ritegno

Modi di reagire il più delle volte sopra le righe

Tutto un fermento di comportamenti esasperati ed esasperanti

Sembra che nessuno sia più in condizione di rapportarsi all'altro
in modi quieti
o di starsene seduto a guardare un filo d'erba che trema timido nel vento
o a leggere un libro

Gente che urla in auto con i finestrini abbassati,
cosicché tutti possano sentire turpi e futili litigi
e, intanto, gesticola e contorce il volto

Colpi di clacson adirati ed impazienti, rabbiosi,
appena ti trovi ad indugiare

Dov'è finita la gentilezza?

Gente che perde la testa per un nonnulla
“Io”
“Io”
“IO”

Cani che mordono cani,
perseguendo neo-bisogni,
quando si potrebbe vivere davvero con poco

Tutti esasperati,
esagitati,
febbrili,
assertivi allo spasimo di se stessi
e poco o nulla importa di punti di vista alternativi,
arroganti
Ignoranti,
stupidi
E niente è peggio della stupidità,
accompagnata dall'arroganza

 

L'odio per l'altro da sé
Non c’è meticciato di punti di vista

E poi questo parlare,
parlare,
parlare in un flusso ininterrotto
ascoltando solo se stessi mentre si blatera

Vorrei stare in un luogo del silenzio
in cui non sia dato l'obbligo di interagire con alcuno

Dove potersi fare i cazzi propri,
contemplare,
agire se il caso - ma in modi sempre rispettosi -
non dover subire per amore di pace

Siamo noi,
siamo noi senza più fede,
senza più scopo,
senza regole,
senza giustizia
in un mondo in frantumi

E stiamo perdendo noi stessi

NaftalinaMentre scrivevo queste righe, all'improvviso sono stato colto da una breve ed intensa quasi allucinazione olfattiva.
Cos’è mai stato?
Mah...
Era l’odore della naftalina della mia infanzia. Quell’odore che ti colpiva con forza quando si aprivano gli armadi dove si conservavano le cose di lana dell’inverno che, per proteggerle dal sempre temuto lavorìo delle tarme venivano messe in naftalina. Un odore forte ed intenso che si viveva in pieno, quando arrivava il gran giorno del “cambio di stagione” che decretava la fine dell’autunno e l’inizio dell’inverno e, quando - in particolar modo le coperte pesanti di lana (quella lana spessa e rigida, dalla fitta tessitura delle coperte di una volta) venivano messe nei letti, soppiantando le leggere copertine di cotone prettamente primaverili e autunnali.
Era quello un gran giorno che segnava il punto di svolta della circolarità del nostro tempo di vita, un vero spartiacque utile nel ricordarci che, se c’erano delle cose che procedevano secondo la logica dell’accrescimento e della linearità, altre invece erano destinate a tornare sempre e rappresentavano nelle nostre esistenze (non solo di noi bambini, ma anche degli adulti che ci circondavano) dei punti fermi, quasi delle certezze.
Quelle coperte di lana, intrise di naftalina, ci dicevano che era passato un anno e si ricominciava con l’inverno, aspettando la primavera: era il ciclo delle stagioni che si rinnovava e che adesso non c’è più. Finito!
Chi fa più la rotazione stagionale degli armadi? Nessuno! Tutto deve essere costantemente a disposizione. E chi usa più la naftalina? Quasi nessuno! E’ un articolo ormai obsoleto.
Chi si preoccupa più che le coperte e altri tessuti vengano devastati dalle tarme? Nessuno, perché viviamo in un mondo dominato dall'imperativo dell’“usa e getta”. E intanto c’era quella prima notte da trascorrere con l’aroma forte e pungente della naftalina che ti penetrava nelle narice e che era fantastico, non disturbante, come era in altri momenti l’odore della “coccoina”, quella colla di uso universale per attaccare le figurine (che allora, sul retro erano sprovviste di quel comodissimo straterello auto-adesivo).
Non vedevo l’ora di andare a letto, in quel giorno fatidico, e quando ci andavo mi lasciavo scivolare con tutta la testa sotto le coltri per respirare quell’aroma a pieni polmoni.
Mi sentivo in qualche misura rassicurato e felice, forse anche sovraeccitato. Poi, magari, quell'intensità finiva con il disturbarmi, assieme al peso e alla rigidezza di quelle coperte che, ancora, dopo essere state stipate negli armadi non si erano imbibite di aria e risultavano alquanto opprimenti. E, di fatto, in quella prima notte non dormivo tanto bene: ma non l’avrei mai ammesso. Poi, nelle notti successive, quell’odore si attenuava e rientravamo nella normalità. Chi sa perché, mentre scrivevo, mi ha preso questa quasi-allucinazione. Non saprei proprio. Forse, perché adesso non vedo più il ricorrere di quelle cose rassicuranti proprie dell’età dell’oro che è stata l’infanzia (almeno la mia infanzia, per come io la vedo adesso).
Oggi, non ci sono più punti fermi benevoli che ritornano, la differenza tra le stagioni è abbattuta quasi del tutto, le farfalle stanno morendo, specie esotiche sono all’assalto della flora e della fauna autoctone del Mediterraneo e le uniche cose che ricorrono con periodicità implacabile sono tasse e balzelli. Non c’è più felicità in questo. Solo mestizia e nostalgia. E, se è vero che adesso ho una famiglia che mi proietta nel futuro, tuttavia mi trovo a rimuginare da giorni che io sono l'unico sopravvissuto della mia famiglia nucleare, morti i nonni, morti entrambi i miei genitori, morto mio fratello. Sotto questo profilo sono rimasto davvero solo. Spesso in un passato non troppo lontano mi ritrovavo a rimuginare scenari in cui ero io a morire prima di mio fratello e la sorte ha voluto che le cose accedessero al contrario. Disegni imperscrutabili che si possono soltanto accettare perchè, pur apparendoci insensati nei loro effetti immediati, fanno pur sempre parte di un più vasto disegno con il quale non ci è possibile interferire.
L'odore di naftalina era la felicità, era la felicità di essere tutti assieme: era quell'odore forte che ritrovavo nel letto di mio fratello, in quello della nonna, in quello di papà e mamma e tutti assieme lo respiravamo.
E si poteva sognare che il mondo fosse forte e buono, non come quello in frantumi di cui parlavo appena prima che si accendesse nelle mie narici la traccia olfattiva della naftalina della mia infanzia perduta. E scusatemi di questo sproloquio... ho scritto spinto da uno stato di necessità...

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17 marzo 2016 4 17 /03 /marzo /2016 07:04
Corsi e ricorsi

Gli oggetti che mi circondano viaggiano da un luogo all’altro,

continuamente riorganizzati,

Corsi e ricorsi, dall’ordine statico al caos e poi di nuovo ad un ordine fittizio

Nulla è mai definitivo per quanto ci possa illudere

Ora succede che gli oggetti defluiscono, tornando al luogo delle origini,

come risucchiati dal reflusso della marea

La vita d'una persona è fatta di pezzi e di cose

Ogni singolo pezzo, ogni oggetto, ha una storia da raccontare:

si tratta di reperti fossili

che però vivono nel ricordo di chi li ha acquisiti

Ogni reperto è Intellegibile, solo a colui cui l’oggetto apartiene

per quanto si possa pensare diversamente

quando si è preda della grande illusione (stolto pensiero!)

La grande illusione è quella per cui ogni singolo oggetto,

perfino il primo dente adulto che abbiamo avuto estratto,

possa essere importante e degno di nota anche per altri

Facciamo di simili cose le nostre personali reliquie, sacre, intoccabili

Eppure, se soltanto spostiamo il punto di osservazione,

se relativizziamo, ci accorgiamo di vivere sepolti in mezzo a mucchi di spazzatura

che ci levano l’aria e che ci impediscono di respirare

Siamo solo preda d'un errore di giudizio,

se pensiamo che altri possano considerare la nostra spazzatura

reliquia da venerare e santificare

Meglio buttar via tutto, eliminare i cascami e le scorie,

togliere via il superfluo

per evitare che coloro che ci seguiranno

o rimarranno indietro debbano poi maledirci

Da tempo, ho smesso di acquistare souvenir di viaggio

Li trovo stucchevoli, mentre - prima - tornando da luoghi lontani,

andavo fiero di questi piccoli trofei

che a me, e a me soltanto, raccontavano storie

Alla mamma, sino all’ultimo, in occasione delle ricorrenze,

regalavo oggetti che pensavo potessero piacerle

Lei mi guardava benevola e sorrideva per non contrariarmi,

ma il suo sguardo limpido mi diceva che quei doni erano superflui,

solo un inutile appesantimento:

lei era andata oltre e non avrebbe potuto portare nulla con sé

Anzi, diceva sovente di voler distruggere,

come l’Aureliano Buendia del romanzo,

tutto ciò che la riguardava,

appunti, carte documenti, foto

Noi la schernivamo, la blandivamo

Non comprendevamo e ci chiedevamo sgomenti:

perché mai desiderare di morire e di scomparire, prima di essere morti?

E poi la mamma non l’ha fatto

Forse solo per non dispiacerci

o forse soltanto perchè alla fine le sono mancate le forze per poterlo fare

Ma questo suo desiderio, in fondo, aveva un senso, credo

Sogno spesso di essere in situazioni difficili, di transito,

e di aver perso delle cose importanti,

pezzi, strumenti, parti di me

Qualche volta è la macchina fotografica, talaltra sono gli occhiali,

altre volte me stesso e la mia identità

e allora il senso di smarrimento è totale

Forse anche questo è parte del mistero della vita e della morte,

delle transizioni e delle sparizioni,

dei passaggi che dovremmo dominare

ma che più spesso soltanto subiamo,

illudendoci di esserne padroni,

e di essere capitani del nostro vascello

Fanno bene coloro che vivono da cercatori di tracce,

operando in modo da non lasciare mai alcuna traccia di sè

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10 marzo 2016 4 10 /03 /marzo /2016 08:59
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri
Cimiteri

L'8 marzo 2016 è stato il giorno di ricorrenza del compleanno della mamma che, se fosse stata in vita, avrebbe compiuto i suoi 98 anni. E ho pensato che potesse un buon giorno per andare a farle visita al Cimitero, andare a visitare lei e Salvatore.
Andare ogni tanto al cimitero a trovare quelli che ci hanno lasciato ha un effetto rasserenante, che certamente dipende anche dai piccoli riti che si compiono, come strappare via le erbacce, pulire la lastra tombale e le iscrizioni su di essa, lasciare qualche fiore, e anche il contatto fisico con il luogo di sepolura, come il tocco di na mano, una piccola pacca, una carezza, esattamente come quei gesti che si scambiano tra viventi.
Recitare qualche preghiera anche se non si è praticanti assidui della religione e non si ha una fede nel senso canonico, corrobora il cuore: spesso quando ci si rivolge ai morti si è portatori di una fede selvaggia, arcaica, adogmatica, eppure intensa che rappresenta il grado primevo dell'escatologia e dei costrutti sulle cose ultime che da sempre - sin dai suoi albori - hanno assilato l'Uomo.
Quando ci confrontiamo con i nostri Morti siamo di fronte al Mistero, quel Mistero nel quale un giorno dovremo entrare anche noi, quando finalmente ci sarà dato di sapere.
Parlare tra sé e sé con i cari estinti, a volte rivolgere loro la parola ad alta voce o pronunciare il loro nome sono altri piccoli riti che hanno la loro importanza.
Anche chi non crede in una religione "istituzionale" può pensare che i nostri morti aleggino da qualche parte, che ci sia un luogo nel quale siano in pace e siano in contatto tra loro, che - da dove sono - dovunque sia questo luogo intangibile - ci guardino e ci proteggano.
Ci sono e sono con noi: noi lo crediamo fermamente ( e secondo me lo credono anche quelli che assumono - ma per una necessità di autoprotezione dal confronto con l'ineffabile - una posizione negazionista nei confronti di ciò che sta al di là di quella soglia).
A volte, girovagando per i cimiteri e soffermandosi a guardare le lapidi, i cippi, le cappelle gentilizie, i loculi, con una miriade di fiori freschi, altri appassiti, o di plastica, nonchè vari altri ammennicoli messi lì - sembrerebbe - a dar compagnia a quelli che ci hanno lasciato indietro e sono in un luogo altro, non si può non essere sovrastati dal pensiero che, se mettiamo assieme tutti i morti che ci hanno preceduto, si creerebbe un esercito sconfinato di anime che, certamente, supererebbe il numero dei viventi.
In ogni città, accanto alla città dei vivi c'è dunque una città dei morti che soverchiano in numero e consistenza i vivi.
E noi, i viventi, paradossalmente, siamo quelli che sono stati lasciati indietro.
Se si accetta il pensiero che ci sia qualche traccia dei morti (chiamiamola anima, spirito, soffio vitale), si deve anche provare riverenza nei loro confronti e considerarli un punto di riferimento importante dei nostri dialoghi interiori.
In fondo, il film di GiuseppeTornatore "Stanno tutti bene" (protagonista Marcello Mastroianni), parla proprio di questo e di questo dialogo ininterrotto con i nostri cari scomparsi.
La mamma, negli ultimi anni di vita, specie quando si sentiva sconfortata per via degli acciacchi, invocava spesso sua madre: "Mamma! Mamma!" diceva. E, probabilmente, l'invocarla gliela faceva sentire vicina, come una presenza benevola e capace di comprensione. Sicuramente quell'invocazione faceva parte di un ininterrotto dialogo interiore.

La visita al cimitero di Sant'Orsola (noto anche come Camposanto di Santo Spirito) è stata seguita da un breve passaggio da quello di Santa Maria di Gesù, che è il cimitero più antico di Palermo e dove si trova sia la tomba della famiglia Crispi, ma anche la Cappella gentilizia della famiglia dello zio Giovanni.
Anche se oggi quel piccolo gioiello di pace e quiete è stato deturpato da un ampliamento moderno, aggirarsi dentro i suoi spazi terrazzati, fiancheggiati da antichi cipressi e da cespugli di bosso e dominati da una chiesa antichissima (cui era - e forse - è abbinato un convento) invita alla meditazione sulle cose ultime, con una vista rasserenante su Monte Pellegrino e l'apertura verso il mare.
Quando ero piccolo - forse 10 anni - al culmine di una passeggiata in bici, mio padre mi portò qui e mi indicò la sepoltura di famiglia, all'antica, una semplice lastra di pietra lineata e sbrecciata, annerita dal tempo, con delle incisioni sopra. E mi disse - queste parole non le avrei mai più dimenticate, perché furono il mio primo contatto con la dimensione della morte - "E' qui che un giorno verro a riposare, in questa quiete. E' bello pensarlo".
Mi offrì con questa frase una dimensione serena di contiguità (o forse di necessaria prossimità) con la Morte (e con il Morire) che deve sempre essere considerata una nostra vicina amica (e non nemica): solo così si può vivere serenamente, pensando alla quiete che un giorno - non si sa quando, non si sa come - ci attende, al Mistero nel quale entrerebbe e saranno loro i nostri cari che non sono più ad assisterci nel transito.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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