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5 febbraio 2013 2 05 /02 /febbraio /2013 19:20

Per-non-dimenticare-a18379527.jpg

 

 

 

Tempo addietro ebbi un incidente con la bici.
Venivo dall'aver fatto un lungo circuito: da Palermo ero salito sino a Gibilrossa e quindi, passando da Belmonte Mezzagno, ero sceso dal lato di Altofonte.
Ero partito una domenica mattina abbastanza presto, facendo base da Via Lombardia, dove, nel box-cantinato che ho tuttora tenevo (e tengo) bici ed altre attrezzature.
In quegli anni, da sposato, invece abitavo in Piazza Europa (a meno di due chilometri).
Allora (e siamo all'inizio del 1995) con la bici andavo ancora bene, perchè nei due anni precedenti avevo preso parte a delle gare di Triahtlon (sia spirnt, sia sulle distanze olimpiche).
Insomma, rientrando in città e sentendo una certa fame, meditavo di fermarmi a "La Romanella" (che, a Palermo, tutti conoscono) per mangiare un pezzo di rosticceria.
Questo è esattamente quello che pensavo mentre pedalavo, avvicinandomi verso via Notarbartolo.
[Ma a questo punto, dissolvenza e buio]
Mi sono ritrovato nella casa di via Lombardia, in tenuta da sport: giravo per casa, confuso e stordito, mi affancedavo senza concludere nulla e non riuscivo a ricordarmi cosa stessi facendo lì e cosa avessi fatto sino a prima.
La casa era in penombra... Credo di aver fatto delle telefonate, avvolto com'ero in una specie di nebbia.
Ma non so a chi.
Mi sono accorto, con una certa inquietudine (come potete immaginare) di avere le mani insanguinate.
Mi sono chiesto: Cosa è successo? Ho picchiato qualcuno?
Poi, dopo un po' la mia mente ha cominciato a schiarirsi.
E mi sento ricordato che stavo facendo un allenamento con la bici e che, anzi, ero vicino alla sua conclusione.
L'ultimo pensiero che ricordavo di aver fatto è stato proprio quello: quell'acuto desiderio di mangiare un pezzo di rosticceria a La Romanella.

Sono sceso giù nel box e lì ho visto la bici messa ordinatamente nella sua rastrelliera, le scarpette da bici altrettanto ordinatamente allineate.
Tutto  a posto: dunque, stavo facendo un'allineamento con la bici ed ero arrivato sino a casa.
E avevo anche sistemato tutto.
E, allora, perchè mai non ricordavo nulla dal momento in cui avevo pensato che volevo mangiare quel pezzo di rosticceria sino a quando ero arrivato nell'appartamento?
Già, perchè? Cosa mi era successo?
Guardando il caschetto (che indossavo sempre durante gli allenamenti) ho notato chein un punto era schizzato di qualche goccia di sangue e che il suo bordo bianco (in polistirolo) presentava una scanalatura abbastanza profonda, come se fosse stato colpito da qualcosa di tagliente e di duro.

Mi sono reso conto che cercavo di mettere assieme i pezzi di un puzzle, ma che - nello stesso tempo - mancava qualche parte essenziale per comporre una figura coerente.

Sono risalito su a casa (che allora utilizzavo come studio professionale ed anche come luogo di meditazione e come mio spazio personale) e ho telefonato alla mia ex moglie, per dire ... Cosa?
Non mi ricordo bene... Dissi forse che mi sentivo stanco dopo l'allenamento e che indugiavo un altro po' prima di tornare a casa: anche di questa conversazione ho poca memoria.
Mi guardai allo specchio e mi son reso conto che avevo una piccola lacerazione, non più sanguinante, sull'arcata sopraciliare di sinistra, poco più che un graffio.
Che le nocche delle dita fossero abrase lo avevo già scoperto da prima: ma il sangue che avevo sulle mani veniva presumibilmente da quel taglio sulla fronte.
Poco dopo, feci ritorno alla casa coniugale...
E mi distesi sul divano: mi sentivo devole e astenico, un po' sonnacchioso.
Passai l'intero pomeriggio così, entrando nel sonno e uscendone...
Poi, arrivò mio cugino Gianfranco - cosa insolita che venisse in visita - si sedette accanto a me, mi chiese come stavo...
E raccontò quello che era accaduto.
Lui era a poco distanza dall'incrocio subito dopo "La Romanella", dove c'è la pompa di benzina della ESSO (credo che sia l'incrocio tra la via Rapisardi e Via Leopardi).
Mi vide arrivare da lontano a quell'incrocio e tirare dritto: senonchè un'auto che veniva da via Rapisardi e attraversava via Leopardi, non mi diede la procedenza e mi speronò.
Gianfranco mi disse che, con tutta la bici, fui catapultato in aria e che feci un volo di alcuni metri, per cadere proprio sul bordo del mariciapiedi con cui termina lo spazio occupato dalla pompa di benzina.
Aggiunse che, dopo un attimo, mi rialzai e che, da lontano, pareva che fossi del tutto lucido e coerente.
L'automobilista investitore mi si fece vicino - così descrisse quest'ultima sequenza - e  ci fu tra me e lui un fitto scambio di frasi e di gesti.
A quanto pare - così sembrava da lontano - pareva che mi stesse chiedendo se avessi bisogno di qualcosa o se volessi essere portato in ospedale.
Io, a gesti, dissi che era tutto a posto, inforcai la bici che non si era per nulla danneggiata e mi incamminai nella direzione di casa.

Mi fa strano tuttora parlare di questo fatto. Perchè questo racconto che mi riguarda, in realtà, è come se non mi appartenesse.
Mi manca del tutto quel pezzetto di vita.
Ogni volta che passo da quel luogo, anche adesso, penso all''incidente occorsomi e ci penso con la dinamica degli accadimeni, secondo il racconto di mio cugino.
Ma io continuo a non trovare nella mia memoria la benchè minima traccia di questo segmento temporale: come se ci fosse un buco al posto di un pieno.
I miei ricordi "reali" cessano con il pensiero di mangiare un pezzo di rosticceria e riprendono con l'essermi accorto di avere le mani insanguinate.

Quello che mi accadde fu un classico caso di amnesia retro-anterograda di tipo traumatico (commotivo, presumibilmente), comprendente un arco di tempo che, per me, si estende per 30 o 45 minuti in cui sono accaduti fatti che non sono mai stati impressi nella mia memoria.

Per completare la storia, il giorno dopo, solertemente, andai al lavoro.
Raccontai dell'accaduto alla signora che, nel servizio, svolgeva il lavoro amministrativo.
E lei mi disse: "Dottore Crispi, ma perchè non va a farsi refertare al pronto soccorso?".
Già, pensai io, la prudenza non è mai troppa. E' quello che direi io stesso, come medico, ad uno che ha subito un trauma cranico..."
Ma noi medici - si sa - siamo pessimi medici di noi stessi.
Ed io ci andai.
Il collega dell'Area di Emergenza dell'Ospedale Villa Sofia (ma allora si chiamava ancora "Pronto Soccorso") a cui raccontai l'accaduto mi visitò, mi fece fare una TAC d'urgenza e, poi, senza che io gli avessi chiesto nulla, mi prescrisse 30 giorni di riposo a casa.
Insperati.
In quel periodo, per vari motivi, ero stressato, sotto pressione, ed io quei giorni di malattia non previsti (e quasi caduti dall'alto) li accettai come una manna dal cielo.

Ho pensato a lungo a quell'incidente e al contesto della mia vita in cui avvenne.
Nulla mi leva dalla testa che, in qualche modo, fosse correlato con il mio stato d'animo di quel periodo (forse complicato da inconfessate venature depressive). Mi rendo conto che avrei potuto anche morire o riportare gravi conseguenze.
E non oso nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto se non avessi indossato il casco protettivo: quell'incisura sul bordo parlava molto chiaro.
in fondo me la cavai soltanto con quel vuoto di memoria che ancora oggi mi porto appresso.


Nulla accade mai per caso.
Tutto è fatidico.

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2 febbraio 2013 6 02 /02 /febbraio /2013 11:15

fiera-del-mediterraneo-invito-storico.jpgMi sono imbattuto, scorrendo un gruppo di Facebook, in un bell'amarcord sulla Fiera del Mediterranneo a Palermo, negli anni Sessanta, scritto dalla palermitana Silvana Carratura, ex-garibaldina (del mitico Liceo Statale Garibaldi di Palermo).
La lettura delle sue parole ha fatto affiorare in me analoghi ricordi
Sì, mi sono ricordato molto bene, nitidamente direi, di quel luogo (che, nel suo degrado inarrestabile, è ancora davanti ai nostri occhi, tutte le volte che passiamo di là) e di quell'evento: "La Fiera Campionaria di Palermo" (nata nel lontano 1946 nell'immediato dopoguerra e rimasta a lungo una delle principali Fiere campionarie del Sud Italia) che si svolgeva immancabilmente tra la fine di Maggio e la prima settimana di Giugno, quando le scuole si avviavano al termine e ci si affacciava - pieni di attese - alla gioia e al profumo dele vacanze estive che scandivano la fase finale di un nostro ciclo di vita.
C'era sempre molta eccitazione quando si arriva in prossimità di quell'evento che, in qualche modo, rappresentava - con la sua ricorsività - una pietra miliare nel nostro percorso di vita e una kermesse irrinunciabile, avendo accompagnato la nostra crescita, da quando piccolini ci andavamo accompagnati dai nostri genitori a quando cominciavamo - timidamente - a fare le prime cose da "grandi".
Per molti, era anche un'occasione di lavoro a tempo, quando i gestori dei diversi stand assumevano personale - si direbbe oggi interinale - per gestire degli orari di apertura molto ampi ed intensi.
In fondo questa Fiera Campionaria (come tutte le altre) nasceva come espressione del boom economico e della ripresa industriale e consumistica di quegli anni dopo il gramo periodo dell'immediato dopoguerra: ed era fatta per parlare di opulenza, per stupire con nuovi artefatti, per invogliare a nuovi consumi, per mostrare molte delle nuove evoluzioni tecnologiche.
Una volta, quando ero già al Liceo ci andai con i miei compagni di scuola: l'obiettivo era quello di ingozzarsi con le varie schifezze gastronomiche e andare al Luna Park. Già eravamo inebriati del fatto che potevamo andarci da soli, senza i grandi che fossero genitori o cugini più maturi: eravamo grandi, insomma!
Mia madre in quell'occasione mi aveva dato 10.000 lire (con la raccomandazione di spenderle oculatamente) ed io le misi nella tasca dei jeans.
Quando cercai quei soldi, scopersi che la banconota non c'era più: forse mettendo e levando le mani dalle tasche l'avevo fatta cadere fuori.

Grande scorno e delusione (quasi alle lacrime, prontamente nascoste per non sfigurare davanti ai mei amici/compagni): e non potei fare nulla di ciò che avevo preventivato, accontentandomi di vivere delle briciole che mi passarano i miei amici.
E, ogni anno, i mesi che precedevano l'esordio della Fiera Campionaria di Palermo erano carichi di grande attese.
Ma poi tutto passava e riprendeva il solito tran tran, senza che nulla di particolare fosse accaduto.
Eppure, in qualche modo, quello era un appuntamento importante che, di anno in anno, ci dava la misura di quanto nel frattempo fossimo cambiati.

Ecco di seguito il contributo di Silvana Carratura.
 

 

Fiera del Mediterraneo oggi in degrado(Silvana Carratura) Negli anni '60 a Palermo, per noi ragazzi, la Fiera del Mediterraneo era davvero un avvenimento a cui non si poteva assolutamente mancare.
Alcuni arrivavano a marinare la scuola al mattino per perdersi in una giornata di sole tra padiglioni e giochi al lunapark; altri preferivano andare al sabato pomeriggio coi compagni di scuola o con il primo amore, che tornava a casa regolarmente con un pesciolino rosso ne sacchetto di plastica ricolmo d'acqua o con un pulcino colorato pigolante dentro ad una piccola scatola di cartone.

Da impazzire - per i più golosi - era la capatina al villaggio gastronomico, dove si potevano gustare dei tortellini al ragù, gustosissimi nella loro piccola teglia in carta d'alluminio [a quel tempo erano ancora oggetti usa-e-getta quasi avveniristici - ndr], e il gelato che usciva dalla macchinetta, multicolorato e striato... una leccornia che soddisfaceva non soltanto il palato ma anche gli occhi.
Al lunapark, invece, era immancabile la visita alla galleria dei fantasmi, dove si entrava in due su una automobilina che - con molta lentezza -  percorreva un tunnel dove si veniva letteralmente terrorizzati dall'improvvisa apparizione di fantasmi, scheletri, mentre si rabbridiva quando si veniva toccati da ali di pipistrello e sfiorati da tele di ragno. Durante il passaggio noi gridavamo fortissimo, un po' per esorcizzare la paura ed un po' per gioco, mentre ci stringevamo ancora di più al nostro compagno di percorso, che quasi sempre era il nostro ragazzo... Bei tempi...
Anch'io una volta portai a casa un pulcino verde, chiuso in una scatola coi buchi per permettere che respirasse.
Arrivata a casa fu l'apoteosi, ma il pulcino restò e visse... Fu portato in campagna e tenuto in grande considerazione, al punto che mia madre che certo non era abituata ad avere polli, usava dargli dei fili di pasta al sugo e Ciò-ciò, così lo chiamai, sembrava gradirli infinitamente. In sintesi fu quasi ammaestrato e visse da solo, coll'unico contatto delle persone che lo accudivano, ma per tutta la vita lontano dai suoi simili... Quando morì, poi, tutta la mia famiglia si rattristò e gli diede degna sepoltura....

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24 gennaio 2013 4 24 /01 /gennaio /2013 10:41

granchio.jpgQuando mio figlio Francesco era piccolino, avevo l'abitudine di prendere nota di fatti ed eventi, per costruire una sorta di diario da assicurare alla sua memoria futura (e non so quanto questo sforzo, visto retrospettivamente, possa avere un senso o se potrà averlo in futuro).
Spesso, mi ritrovavo ad annotare di quegli eventi minuscoli, corredati da brevi dialoghi, che non fissati nella loro forma - esattamente come i sogni - finiscono con l'essere integralmente dimenticati: ma senza nessuna sistematicità, ovviamente. Scrivevo questa annotazioni come capitava...

Ogni tanto, aprendo delle cartelle a caso o esplorando dimenticate "risorse" del PC, mi imbatto in una di queste modeste scritture e la rileggo sempre con una sensazione di meraviglia perchè mi riconduce vividamente ad un un'era quasi arcaica, quasi fossi davanti ad un fermo-immagine... Con una sensazione di spaesamento, erchè il tempo, intanto, è fuggito avanti...
Il breve scritto che segue fa appunto parte di questa serie di annotazioni.

(Palermo, 2003) Siamo al mare.

Da qualche giorno Francesco ha scoperto il piacere di stare ad esplorare gli scogli vicino a riva.

E soprattutto, contagiato dagli altri bambini, vorrebbe catturare i piccoli granchi che vivono negli anfratti algosi di questi scogli.

L'altro giorno si rammaricava con me di non essere riuscito a catturarne nessuno.

Oggi, invece, dopo un po' che siamo arrivati al mare, corre verso di me giubilante.

Ha in mano un bicchiere di plastica bianca e me lo mostra, reggendolo con attenzione.

Papi, papi, guarda guarda qua dentro!

Cosa c'è?

Sono riuscito a catturare quattro granchi. Veramente, uno poi è scappato. Quindi sono rimasti in tre.

Osservo con attenzione il contenuto del bicchiere: è organizzato come un piccolo acquario. Il fondo è ricoperto di sabbia e, poi, per completare il piccolo scenario ci sono anche alcuni fiocchi di alghe dall'aspetto verde-lattugoso.

Al fondo, si possono vedere i tre granchi minuscolissimi, uno di meno di cm nella massima larghezza del corpo, gli altri - ancora più piccoli - saranno dei baby-granchi, a stento arriveranno ad un diametro di 5 mm.

Uno si muove alacremente sul fondo, cercando una via d'uscita.

Gli altri due se ne stanno aggrappati ai fiocchi di alghe e le fanno rotolare.

Francesco è molto fiero della sua preda e soprattutto dell'allestimento che ha realizzato.

Sono piccoli, però sono proprio in tutto e per tutti come i granchi giganti che abbiamo visto all’acquario di Genova.

Gli faccio notare: Mi sbaglio o due dei granchietti non hanno più le chele?

Ma cos'è successo? - gli chiedo.

Sì, è vero: ad uno mancano anche alcune delle zampe.

Preferisco non pensare a cosa sia successo ai poveri granchi.

Forse l'incontro con Francesco è risultato per loro un po' troppo traumatico.

Chissà, quali manipolazioni hanno subito prima di essere catturati.
Mi sono ricordato di quando ero piccolo e a colpi di scarpa distruggevo l'ingresso dei formicai schiacciando sotto il mio tallone centianaia di operose formichine oppure quando cercavo di inviare i raggi del sole concentrati dalla lente d'ingradimento su di una povera mosca ignara.
Piccole forme di sadismo, tipico di una fase dell'infanzia che tutti abbiamo attraversato...

Francesco ribadisce: Erano quattro. Uno è scappato. Quindi adesso sono soltanto in tre.

Ma adesso vado e li libero - aggiunge.

[Bonta sua! - mi ritrovo a pensare]
E gli dico: Mi raccomando mettili dentro l'acqua, non qua sulla sabbia rovente, così almeno hanno qualche possibilità  di sopravvivere. Magari gli ricrescono pure le chele.

 

Bisogna essere ottimisti, molto ottimisti, piccoli miei granchi ignari…

 

 

[Una nota di diario, Palermo, il 22.08.2003]

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18 gennaio 2013 5 18 /01 /gennaio /2013 11:02

Ricerca di comodità su di una poltrona (Munari)Quando ero piccolo, ma nemmeno tanto (andavo già in terza media), ebbi per un periodo la fissazione che dovevo limitare al massimo i periodi in cui stavo seduto, cioè con il culo staticamente poggiato su di una superficie dura.
Ma come fare? A scuola occorreva stare seduti per diverse ore ogni giorno...
Adottai questo sistema, un po' faticoso, ma riuscivo abbastanza bene nel mio intento. Mettevo una mano tra la gambe e la poggiavo sul ripiano della sedia e con il suo aiuto mi puntellavo in su, contraendo nello stesso tempo, i muscoli delle gambe che mi davano il necessario appoggio.
Insomma, un complicato (e faticoso) esercizio isometrico, che - una volta raggiunto un allenamento discreto - mi consentiva di mantenere quella postura per quasi tutto il tempo della mia permanenza in classe.
A casa, studiavo in piedi, come i monaci amanuensi di un tempo che trascrivevano le opere degli antichi appoggiati ad alti scrittoi.
Al momento dei pasti, invece, poggiavo un cuscino per terra e mangiavo stando in ginocchio.

Per quanto riguarda i pasti - da un momento all'altro - comunicai questa decisione ai miei genitori, senza ulteriori interlocuzioni.
Perchè?
Si trattò di una forma di tortura auto-inflitta o di una punizione per effetto di un Super-Io rigido e tirannico?
Non so o, forse, lo so e qui non voglio dirlo.
Magari, per distinguermi, intendevo opporri al famoso aforisma di Montaigne che fa: Si haut que l'on soit placé, on n'est jamais assis que sur son cul.
Certo è che questo, periodo, negli anni della mia psicoanalisi personale, fu esaminato in dettaglio e a qualche rivelazione (o comprensione) potei giungere in qualche modo.
Devo dire che, in tutto questo, i miei genitori furono davvero encomiabili, soprattutto nei confronti della consuetudine - più vistosa e meno occultabile - di quel desinare in ginocchio, quasi fossi in penitenza: non mi dissero niente, prendendo semplicemente atto della mia decisione, e mi lasciarono fare.
Forse dissero, abituati com'erano ad altre mie temporanee bizzarrie: "Passerà".
E di fronte ad eventuali ospiti si limitavano a ridacchiare come se la cosa fosse il frutto di una mia tolerabile burloneria, una volta chiarito che non si trattava di una una punizione che mi fosse stata inflitta.
Poi, in effetti, dopo qualche mese, la cosa passò da sola.
Stranamente ci ho pensato proprio l'altro giorno, mentre ero piuttosto afflitto da una contrattura alla schiena che ha fortemente limitato la mia mobilità (e la sta limitando tuttora)..
Ho riflettuto a me in confronto a mio fratello: pensando a quanto sia ridicolo che io possa sentirmi prostrato a causa d'una temporanea limitazione nella mia piena autonomia a confronto della grave infermità di cui è portatore sin dalla nascita.
E, mentre facevo queste riflessioni, ho pensato con lucidità a quel periodo trascorso di un'epoca per me ormai lontana, chiedendomi se per caso, da piccolo, in quel periodo elaborai, superandola, la fobia dell'essere obbligato a stare perennemente seduto su di una sedia, come appunto capitava a mio fratello, semi-immobile nella sua carrozzina durante le ore del giorno.
I casi della vita ci impongono a volte a mettere a punto delle strategie di difesa che, poi, quando ci siamo fortificarti a sufficienza, se le cose sono andate bene e senza intoppi, possiamo dismettere, lasciandole sedimentare dentro di noi come ricordo...

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4 dicembre 2012 2 04 /12 /dicembre /2012 00:19

Acropoli - Grecia invernale - Foto di Maurizio CrispiNel dicembre 1978, il giorno dopo Natale, presi la decisione improvvisa di partire per un viaggio solitario. Questa decisione scaturì dall'aver saputo che il 6 gennaio dell'anno nuovo, avrei finalmente iniziato il mio percorso di psicoanalisi con il grandissimo Francesco Corrao.
Mi telefonò, una mattina di dicembre all'approssimarsi del Natale e, con la sua voce profonda e calda, mi comunicò laconicamente che il giorno 8 gennaio - quindi subito dopo il concludersi del periodo delle feste - avrei fatto la mia prima seduta, alle 9.00 del mattino.
Grande emozione, perché si avverava una cosa desiderata (il cui progetto si era avviato alcuni anni prima, con una serie di passaggi decisionali), ma anche molto temuta: avrei finalmente iniziato a guardare dentro me stesso e, forse, sarei finalmente riuscito a mettere ordine nelle mie cose.
Proprio in relazione a ciò, scosso dall'emozione ma anche desideroso di evadere dal peso di un'incombente costrizione (il percorso della psicoanalisi è severo sin dall'inizio, senza sconti, specie se è condotto in modo ortodosso, a quattro o a cinque sedute settimanali) sentii l'esigenza di compiere un viaggio, bisognoso di intraprendere - con la scusa e con il supporto della disambientazione e dell'essere on the road - una specie di percorso introspettivo dentro me stesso in totale solitudine, concentrandomi su ciò che mi attendeva al mio ritorno e di cui sapevo molto teoricamente, ma molto poco in pratica.
Una cosa che,
al tempo stesso, mi attraeva e mi spaventava da matti.
Questo viaggio lo compii all'insegna della più grande solitudine: salvo che per chiedere le necessarie informazioni di tanto in tanto, credo che non parlai quasi mai con nessuno.
Avevo con me un piccolo quaderno (era soltanto un normale quadernetto: allora i Moleskine, resi celebri da quel grande viaggiatore ed osservatore del mondo che fu Bruce Chatwin, non erano diventati di moda) dove annotavo minuziosamentei miei stati d'animo e dove trascrivevo i sogni, meditando a lungo sul fatto che non riuscissi in alcun modoad entrare nel vivo delle cose, mantenendomi costantemente in una posizione difensiva (ma sempre molto sofferta): osservavo gli altri che chiacchieravano ed interagivano, meravigliandomi del fatto che io avessi sempre l'abilità di collocarmi in una posizione periferica da dove però lo sguardo poteva spaziare su tutti i presenti.
Ascoltavo lingue straniere, alcune le capivo e altre no: un po' mi sentivo escluso, un po' no...
Mi piaceva anche il fatto di carpire i discorsi delle persone (e laddove non capivo il senso delle parole, intuire il senso dei discorsi), senza parere, e intanto mi esercitavo nell'arte di osservare gli altri e trarne delle deduzioni, arte che faceva parte della mia professione di psichiatra appena agli esordi, quando ero fresco fresco di specializzazione.
Su quel taccuino scrivevo, prendevo appunti in continuazione, cercando di fissare i miei stati d'animo e ciò che vedevo: lo ricordo bene non era un'agenda (a quel tempo ancora non ne usavo, ma proprio uno strumento per egistrare unicamente i miei appunti di viaggio. 
In attesa d'imbarco a Brindisi - Grecia Invernale - Foto di Maurizio CrispiQuesto taccuino dovrò prima o poi cercarlo. Sarà sicuramente sepolto all'interno di qualche cassetto da tempo inesplorato.
Camminavo molto in mezzo alla gente: mi tuffavo nei mercati di Atene tanto simili ai nostri.
E queste mie camminate duravano ore e ore...
In silenzio.
Quando chiedevo qualche informazione, la mia voce usciva gracchiante, perchè le corde vocali a causa del prolungato non uso si erano come rattrappite.
Faceva buio presto e mi ritiravo nell'Ostello da pochi soldi dove avevo preso alloggio.
I monumenti, a partire dall'Acropoli maestosa, erano pressoché deserti, spopolati dalle folle di turisti che poi vidi in un successivo viaggio estivo: in quel periodo la Grecia non era considerata appetibile come meta di viaggi (e forse tuttora).
Andai anche a Micene, ma potei guardare la zona degli scavi dall'esterno soltanto, perché i guardiani erano tutti in ferie e tutto - musei e monumenti - era desolatamente chiuso.
E così accadde in molti altri luoghi.
Sbarcai nell'isola di Eubea, feci un lungo viaggio in bus per arrivare al suggestivo Capo Sounion, ma senza poter vistare il tempio diruto alla sua estremità, e lì potei godere soltanto della suggestione della vista su di un mare azzurrissimo, ma venato di profonda solitudine.
Poi, scaduto il tempo, ritornai per mare imbarcandomi dal porto di Igoumentiza, così come ero venuto: durante il viaggio di ritorno fui preso da una violentissima dissenteria, perché - incautamente - prima dell'imbarco avevo mangiato una pietanza con della carne trita...
Nei pressi dell'Acropoli - Grecia-invernale - Foto di Maurizio CrispiFaceva freddissimo: si er verificata il giorno una perturbazione meteo e sui monti dell'interno aveva nevicato. Il viaggio per nave fu segnato dalla sofferenza perchè, per risparmiare avevo optato per un semplice passaggio ponte, e non c'era modo di ripararsi efficacemente dal freddo. Molti spazi della nave erano chiusi proprio per impedire agli sgigati e globetrotters con zxaino di infilarsi dove non era looro concesso sulla base del titolo di viaggio in loro possesso.
Eravamo abbandonati a noi stessi nel freddo della notte in una specie di stanzone non riscaldato, percorso da spifferi freddi e forse semiaperto vero la poppa della nave.

Ricordo che c'era unglobetrotte di gigantesca corporatura, sicuramente un americano USA, ma con ascendenti da Pellerossa (somigliante un po' al personaggio di "Qualcuno volo sul nido del cuculo"), che beveva a canna da un grosso fiasco di vino che andava condividendo con un compagno di traversata. Ma questo beveva avidamente, il vino letteralmete lo tracannava. E quello gli diceva con la sua voce tonante: "Take it easy, guy!".
Il viaggio di ritorno fu una autentica sofferenza, ma in un certo qual modo anche quella intensa e molesta dissenteria fu una forma di purificazione per il corpo e la mente.
Ritornai in solitudine come ero partito, con un lungo viaggio in treno da Brindisi sino alla Sicilia, viaggiando lungo la costiera ionica delle Calabrie in una carrozza con i sedili di legno.
Ed ero pronto per iniziare la mia esperienza di psicoanalisi che, in termini molto mistici (un po' sbagliandomi), sentivo come qualcosa che avesse a che fare con un percorso di morte/rinascita.
Tanto ero convinto di ciò che una delle letture accessorie che avevo portato con me e che, considerando che viaggiavo con lo zaino in spalla, erano state per forza di cose scelte con ponderazione, era appunto il Bardo Thodol, ovvero Il libro tibetano dei morti.

 

Rientrai a Palermo il 6 gennaio e due giorni dopo mi ritrovai ad affrontare la mia prima seduta di psicoanalisi.
Di lì a pochi mesi avrei compiuto il mio 40° anno di età.

 



PS - Mi rendo conto di aver fatto un lapsus, scrivendo l'ultima frase. In realtà il 1979 era l'anno in cui avrei compiuto 30 anni. Il lapsus deriva dal fatto che allora e nei dieci anni successivi, in realtà, io mi sentii più vecchio della mia reale età anagrafica. Poi, a partire dal 1989, ringiovanii, ma questa è tutta un'altra storia. 

 

Foto dall'Archivio fotografico di Maurizio Crispi

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13 novembre 2012 2 13 /11 /novembre /2012 10:54

Il Cortile di Costa San Giorgio - Cartolina storicaSubito dopo la laurea (luglio 1975), un po' in ritardo rispetto ai miei colleghi di corso, riusciì ad essere ammesso alla Scuola di Specialità di Psichiatria di Milano e mi trasferii a Milano, dove passai tutto il primo di specializzazione. Poi, avendo ricevuto la chiamata per entrare alla scuola allievi ufficiali medici di complemento (oggi non esiste più questa figura) ed essendo stato ammesso al 42° corso AUC Medici e Farmacisti, a fine luglio 1976 smontai il mio alloggio di Milano, feci ritorno a palermo per trascorrervi l'estate e quindi ripartii a fine settembre per essere in tempo utile a Firenze.
Arrivai con un giorno d'anticipo rispetto al dovuto perché lo zio Gigi, fratello di mia madre che aveva fatto carriera nell'Esercito e che era Generale a Roma, mi disse con arguzia tipicamente militare: "Chi tardi arriva male alloggia...".
Fu così che quando m'appresentai, ero praticamente da solo e tale rimasi sino al giorno successivo quando alla spicciolata - ma tutti il più tardi possibile - gli altri colleghi presero ad arricamparsi... 

Nell'attesa, il Comandante - in considerazione dell'"illustre" parentela - mi convocò per conoscermi personalmente e parlai con lui brevemente: con candore, gli dissi che non avrei avuto problemi ad adattarmi alla vita militare, visto che avevo fatto numerose esperienze in campeggio e di viaggi "spartani"... 
Sotto le armi trascorsi un totale di 15 mesi. 
I primi tre (da ottobre 1976 ai primi di gennaio 1977) li passai presso la Scuola AUC, di Sanità Militare allocata nella Caserma Vittorio Veneto di Firenze, ospitata negli spazi d'un antico convento e detta semplicemente "Costa San Giorgio", in Oltrarno proprio a due passi dal Ponte Vecchio (oggi dismessa dall'uso militare e tristemente chiusa: andai a vedere il posto qualche anno fa, mentre mi trovavo a Firenze per altri motivi.
Il giuramento di fine corso del 42° Corso AUC medici e farmacistiI successivi dodici mesi fui a Palermo, presso l'Ospedale Militare (in Corso Calatafimi), dove - in virtù delle mie competenze ed interessi di studio, nonché delle esperienze di lavoro già portate avanti - fui assegnato al Gabinetto di Neuropsichiatria (salvo una breve parentesi che trascorsi al CAR di Trapani, per sostituire un collega infortunato).
In parallelo, essendo stato ammesso alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria a Milano, con le ferie che avevo a disposizione andavo e venivo a Milano per seguire alcuni lezioni, concentrate in cicli di una settimane e per sostenere gli esami.
Quello di Costa San Giorgio, fu per la verità, un periodo molto bello.
Non ebbi problemi ad adattarmi , anche perché negli anni precedenti mi ero adattato a viaggiare in condizioni molto spartane e, quindi, prendevo questa permanenza, né più né meno che come un viaggio.
Ogni sera uscivo e vagabondavo per le vie di Firenze per fermarmi a cenare in questa o quell'altra trattoria alla buona (e allora si pendeva veramente poco): a distanza di anni una di queste l'ho ritrovata (Il Cantinone) sul Lungarno.
Mangiavo spesso piatti di formaggi e affettati oppure grandi porzioni di ribollita, il tutto innaffiato di abbondante vino rosso (a volte bevevo da solo anche anche un'intera bottiglia da tre quarti).
Preferivo andare in giro da solo, perché la chiassosità goliardica dei miei colleghi mi stancava: una volta ala settimana, massimo due, mi univo a loro, quanto bastava.
Qualche volta, con grande piacere, andavo al cinema.
Studiavo e leggevo nei tempi morti e quando eravamo obbligati a stare in caserma.
Dormivo quando potevo...
Insomma, ero invidiato da tutti i miei colleghi perché non mi lamentavo mai.
I colleghi di corso (42° corso AUC) con cui dividemano la stessa camerataLoro soffrivano il freddo e al mattino (benché medici e, quindi, in teoria praticanti dell'Igiene), indossavano l'uniforme sopra il pigiama, per essere pronti a fiondarsi a letto nell'intervallo tra le lezioni, dopo il pranzo. 
Io invece, mi mettevo a torso nudo e praticavo abbondanti abluzioni con l'acqua gelata dei bagni (non c'era concessa l'acqua calda: soltanto due volte alla settimana si poteva prendere una doccia in un locale apposito). Ero anche il primo a svegliarsi e ad essere pronto: entravo nei bagni quando ancora non li aveva utilizzato nessuno.
I finestroni dei bagni stavano spalancati per arieggare e da lì vedevamo la cupola di Brunelleschi svettare sui tetti di tegole rosse, spesso spolverata di neve.

A Palermo, invece fu una vera pacchia: ero sottoposto al Colonnello Calì e al Maggiore Anello: ogni giorno c'era da fare una quantità enorme di visite di tutti i generi (alcune con risvolti medico-legali e psichiatrico-forensi). Dato il numero elevato giornaliero di richieste dai diversi reparti ed uffci dell'Ospedale Militare, le visite andavano fatte a tempo record e altrettanto velocemente dovevano essere compilati i referti.
Il colonnello Calì, avendo visto che me la sbrigavo bene, mi dava molta autonomia, ma in alcuni casi mi diceva: "Questo visitalo tu, ma quando c'è da scrivere il referto vieni da me!".
E a buon intenditor poche parole.
Il numero delle visite, la velocità di esecuzione, la necessità di capire perché un soggetto arrivava alla visita (era simulazione di malattia o era dissimulazione? Uno dei tanti dilemmi che ci si dovevano porre) hanno rappresentato per me una grande scuola di diagnostica di situazioni-limite.
Non parliamo poi della capacità di riconoscere da minimi segni il passato carcerario di un soggetto, nei confronti del quale vigeva allora il principio: "Scartiamo in partenza le mele marce"...
Le visite finivano attorno a mezzogiorno.
Il colonnello allora mi diceva: "Maurizio, andiamo a farci un giro!
Esercitazioni di tiro con il fucile (42° corso AUC).E, magari arrivavamo sino alla direzione sanitaria per una doverosa "riverenza" al Colonnelo Comandante. Quando eravamo di ritorno, il Colonnello disponeva: "Maurizio, adesso possiamo andarcene!".
Si imbarcava sulla sulla sua 600 FIAT scassatissima e se ne andava.
Era inteso che di lì a poco anche io potessi andarmene
E, quindi, per tutto quell'anno, dalla prima assegnazione sino ai primi di gennaio del 1978, ebbi una quantità enorme di tempo libero.
Ogni tanto venivo inviato a fare ispezioni e visite domiciliari medico-legali a dipendenti della pubblica amministrazione o a militari, residenti in paesi sperduti della Sicilia.
Ed anche questo era un grandissimo divertimento, perché quelle diventavan delle splendide occasioni per fare delle gite in luoghi in cui magari non ero mai stato...
Fu così che arrivai per la prima volta a Sclafani Bagni, tanto per citare uno dei luoghi che conobbi per la prima volta in uno di questi giri.
Qualche volta (all'incirca una volta al mese) facevo il turno come "ufficiale di guardia" e allora avevo per 24 ore continuativa la responsabilità dell'intero ospedale militare e del corpo di guardia all'ingresso.
Anche quelle furono belle esperienze...
Alcuni di Palermo, "iimboscati" all'Ospedale militare- così si diceva per quelli che riuscivano ad ottenere delle diagnosi di malattia vere o fasulle che fossero, e sulla base di queste diagnosi internati in Ospedale Militare e qui, il più delle volte, comandati a fare gli "scritturali" - venivano da me e mi chiedevano di chiudere un occhio per consentirgli di uscire.
Io rispondevo loro: "Non devi chiedermelo. Se vuoi farlo, fallo e basta. Io giro la schiena e cssì non vedo quello che decidi di fare."
Da sinistra, con il camice bianco, io e il Colonnello Calì. Ultimo a destra il sig. Sanzone, impiegato civile. Un soldato assegnato al Gabinetto e uno scritturaleMa loro, invece, volevano una sorta di permesso non ufficiale, una specie di garanzia che li avrei coperti in caso di controlli.
E, per questo, penso che alcuni mi abbiano odiato.
Poi finì tutto.
Ritornai alla vita di libero cittadino e presi altri sentieri.
Però, sarei potuto rimanere, continuando ad indossare la divisa con le stellette: il Colonnello Calì mi aveva incoraggiato a farlo più volte.

Mi incoraggiava e mi diceva: Maurizio sei in condizione anche di tirare la carrettta da solo..."
Mai io allora ero terrorizzato di rimanere intrappolato nelle maglie di una struttura troppo rigida.
Volevo essere libero... a differenza di altri miei colleghi che scelsero questa via, perchè volevano delle "certezze" e che, quando incontrai a distanza di anni erano come "spenti"...
Io invece preferivo vivere nell'incertezza.
Quel tipo di certezza lì mi faceva paura.
Qualche volta, con il senno di poi, mi dicevo: "Forse, tutto sommato, sarebbe stato meglio rimanere..."
Ma in realtà, no, è stato meglio così: non sarei diventato quello che sono, non avrei potuto seguire liberamente le mie strade. 

Volente o nolente avrei finito con l'indossare dei paraocchi, degli "occhialacci di legno" e, sicuramente, alla lunga, sarei stato meno felice, più appiattito, senza slanci, come quei miei colleghi che a distanza di anni, mi parvero spenti e opacati.

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30 agosto 2012 4 30 /08 /agosto /2012 23:33

1932---Fiat---BalillaLa foto di una Fiat Balilla del 1932 (la Fiat 508 Balilla, il fortunato modello che rappresentò l'inizio della motorizzazione di massa nell'anteguerra) mi ha fatto ricordare che le due mie prozie, Irene e Natalia (sorelle della nonna Maria) che hanno vissuto sempre vicine alla nonna, condividendone gli spostamenti in una serie di case d'affitto, sino all'acquisto degli appartamenti in Viale regina Margherita 9/bis (oggi n°11) sono state proprietarie di una Balilla.
Donne intraprendenti, la acquistarono abbastanza presto, poco dopo il suo lancio sul mercato.
Mi viene facile immaginare queste due signore eleganti, tutte in nero, con i capelli bianco candidi e dall'aspetto altero (in alcuni casi portavano anche cappellino nero con veletta)..
Non la guidarono mai, ovviamente: la usavano al posto della carrozza trainata da cavalli: l'auto era accudita di tutto punto da un'autista, regolarmente aasunto e loro dipendente, da cui si facevano portare in giro a seconda delle loro esigenze.

Altri tempi!
La Balilla era attrezzata con un comodo ed ampio baule posteriore in cui si mettevano i bagagli: una volta, questo baule si sganciò, mentre erano in marcia: immediato cazziatone per lo chauffeur (in divisa naturalmente, con guanti e con il classico berretto a visiera), perché non aveva fissato per bene il tutto e che dovette tornare indietro a piedi a recuperare il tutto.

Mia madre spesso mi raccontava l'episodio ridendo per sottolineare l'intraprendenza delle prozie, ma anche il loro vigore autoritario.

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27 agosto 2012 1 27 /08 /agosto /2012 10:34

La foto è stata scattata nell'estate del 1953 che dovrebbe essere l'anno in cui accadde l'episodio che ho raccontato. Da notare: l'annaffiatoio metallico (presumibilmente di stagno): ancora non esistevano i giochini da spiaggia di plastica. Sulla sinistra, si vede una borsa di tela verde con i manici di legno: era una vecchia borsa di mia madre che mi serviva per trasportare i miei più preziosi tesori, cioè un'intera collezione di pezzi di legno di varie misure e dimensioni che mi servivano per completare i miei castelli di sabbia (in particolare per fare delle concamerazioni dei setti o anche delle solette). Passavo ore a giocare sulla sabbia da solo.Piccoli eventi quotidiani, osservazioni causali, ti rimandano all'improvviso indietro nel tempo, immettendoti con prepotenza nel cuore d'un evento completamente dimenticato.
L'altro giorno andai in ospedale a ritirare degli esami di mio fratello e la dottoressa con cui avevo preso l'appuntamento, nel darmeli, voleva commentare qualcosa.
La attesi. Quando si liberò, venne verso di me, ma prima si diresse al bagno degli operatori la cui porta si apriva sull'atrio.
Nell'entrare, lasciò appese le chiavi alla serratura, all'esterno della porta.
Io rimasi per pochi istanti a guardarle: era forte la tentazione di fare un balzo verso quelle chiavi e girarle nella toppa, sicché la dottoressa al momento di uscire trovasse la porta chiusa.
Uno scherzo, insomma, naturalmente immagginato dal mio spirito mattacchione.
Quando ci fummo accomodati, dissi alla dottoressa: "Sa, dottoressa... Non dovrebbe mai lasciare appese le chiavi in quel modo. Potrebbe passare qualcuno in vena di scherzi e chiuderla dentro".
Mi guardò sorpresa: "E' vero! Non ci avevo mai pensato... Ci farò caso la prossima volta".
"Quando lavoravo [in un'occasione precedente le avevo detto di essere medico] a volte facevo degli scherzi di questo tipo - le dissi - e qualcuno si è, in effetti, ritrovato chiuso dentro ad una stanza... Ma era più che altro un modo per allegerire la tensione... Facevamo un lavoro molto stressante e io, da dirigente responsabile del servizio, - aggiunsi - mi ritenevo responsabile del benessere psico-fisico degli operatori... Sa, quattro sane risate e alleggerire tutto con il senso dell'ironia, giovavano alla diuturna fatica di avere a che fare con i tossicodipendenti".
Mi chiedo se non mi abbia guardato come un mentecatto: ma ha avuto il buon gusto di non dire nulla...
Chiusa la parentesi, abbiamo parlato di ciò di cui si doveva parlare e me ne sono andato...
L'episodio tuttavia mi ha fatto ricordare di una volta in cui io piccolo di pochi anni (ne avrò avuto 4 o 5) ero riuscito a chiudermi a chiave in una stanza e non ne potevo più uscire.
Era d'estate ed eravamo nella casa di Mondello, all'estremità del Piano dove comincia la Fossa del Gallo.
Lì, d'estate eravamo in tanti, perchè - avvicendandosi - venivano i fratelli e la sorella di mamma, tutti con figli: situazione logisticamente complicata, con turni in cucina, difficoltà a ripartire equamente gli spazi disponibili, piccole tensioni, ma anche tanta allegria per il fatto di ritrovarsi tutti riuniti...
Non si sa come e perchè, ma io salii al piano di sopra dove c'erano le camere da letto e la nostra in particolare, quella dove dormivamo io e mio fratello assieme al papà e alla mamma. Oppure, forse, già mi ritrovavo nella stanza per il sonnellino pomeridiano (anche se in quell'arco di tempo, spesso all'insaputa della mamma fiduciosa del fatto che io dormissi tranquillo, combinavo delle piccole monellerie e poi lei constatava i danni...)
Non si sa come riuscii a chiudere la porta a chiave dall'interno: forse giocherellando con la chiave, non so.
Dopo un po' tutti si allarmarono non vedendomi (o forse fu la mamma che venne a controllare se stessi dormendo). Partì la ricerca: e presto fu chiaro che ero dietro la porta, chiuso dentro. Forse mi lamentavo o piangevo o frignavo oppure me ne stavo in silenzio, non mi ricordo bene.
Provarono a darmi delle istruzioni per aprire la serratura, perchè cercassi di rifare quello che mi era riuscito in modo del tutto casuale.
Ma, malgrado la pazienza e la minuziosità delle spiegazioni, io non ero in grado di seguirle in alcun modo.
Presto dietro la porta erano tutti assiepati: la nonna, mamma, papà, la zia Iole e lo zio Armando, i loro figli,  Marcello, Adamaria e Luciana. Suppongo che a quel punto arrivaro anche le mie prozie che, essendo molto autoritarie, in tutte le situazioni critiche arrivavano ad impartire istruzioni sul da farsi, facendosi parte dirigente, ed erano accompagnate dalla loro fida domestica Mària, che avendo assistito la mamma alla mia nascita aveva un debole per me (ma anche per Salvatore, in eguale misura).
Tutti mi parlavano e cercavano di tenermi avvinto alla porta: la preoccupazione maggiore, infatti, era che mi avvicinassi al davanzale della finestra (che era aperta) e che potessi cascare giù.
Disperazione della mamma, agitazione della nonna. In un romanzo ottocentesco, a questo punto, l'autore avrebbe usato una frase del tipo: "...per la sofferenza si tiravano i capellie si torcevano i polsi...".
Alla fine, la cosa fu risolta con un'alzata d'ingegno.
Quelle porte avevano un riquadro di vetro o di altro materiale trasparente in alto (con meccanismo a vasistas) che serviva a dare luce e aria al disimpegno quando tutte le porte fossero chiuse.
Presero una scala e con molta pazienza ed abilità, ma a quel punto invitandomi a stare lontano dalla porta per evitare di essere ferito, riuscirono a smontare il pannello.
Il cugino Marcello che era il più agile e di corporatura adeguata per passare attraverso l'apertura che si era creata si inerpicò sulla scala e penetrò nella stanza, calandosi con cautela dal riquadro in alto.
Questa è la parte dell'evento che ricordo con maggiore vividezza, anche perchè il cuginetto Marcello (che aveva - e ha - 10 anni più di me), a quel tempo mi sembrava gigantesco e questa impressione si accrebbe quando lo vidi scivolare dall'alto, come un autentico deus ex machina, tale da ispirare meraviglia.
La porta la aprì subito all'interno ed io fui messo in salvo e, tra grida di giubilo e pianti di commozione, fui riabbracciato dal consesso dei parenti, ma soprattutto fui preso in braccio e coccolato dalla mamma, felice per il pericolo appena scongiurato.
L'abbraccio della mamma, di quell'episodio, è sicuramente il ricordo più dolce.

 

 

La foto: La foto è stata scattata nell'estate del 1953 che dovrebbe essere l'anno in cui accadde l'episodio che ho raccontato.
Da notare: l'annaffiatoio metallico (presumibilmente di stagno): ancora non esistevano i giochini da spiaggia di plastica.
Sulla sinistra, si vede una borsa di tela verde con i manici di legno: era una vecchia borsa di mia madre che mi serviva per trasportare i miei più preziosi tesori, cioè un'intera collezione di pezzi di legno di varie misure e dimensioni che mi servivano per completare i miei castelli di sabbia (in particolare per fare delle concamerazioni dei setti o anche delle solette).
Passavo ore a giocare sulla sabbia da solo.

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25 agosto 2012 6 25 /08 /agosto /2012 06:09

IMAG0112.JPGSì, da piccolo, ero proprio un piccolo monello... o anche una piccola peste, se si preferisce dire così.
Come si suol dire, una ne facevo e mille ne pensavo.
Forse perché passavo molto tempo a casa, specie d'estate, e soprattutto da solo - a parte i grandi e salvo che in qualche occasione in cui venivano i miei cuginetti più vicini d'età.

Mi regalaroro per un compleanno (ovviamente, quando già sapevo leggere) "Il Giornalino di Gian Burrasca" di Vamba e mia madre, dopo che ebbi ricevuto questo dono, sino all'ultimo fu perplessa se lasciarmelo leggere, timorosa che da quella lettura io potessi trarre ispirazione per altre gesta. Dopo lunghe consultazioni con mio nonna e con mio padre, mia madre alla fine si convinse a darmi licenza di lettura.
Forse, in seguito, racconterò qualcuna delle "monellerie" che architettavo.
Ma, intanto, se ci concentriamo sulla foto, si potra osservare che sul parapetto della terrazza alle mie spalle, ci sono dei buchi.

Era uno dei miei passatempi preferiti scavare buchi in quel muro con un punteruolo (forse, già a quel tempo, io stesso avevo - ante litteram - la vocazione del Punteruolo Rosso) o un vecchio chiodo.
Quando arrivavo al laterizio sottostante (che era l'"anima"del parapetto) e non potevo più procedere oltre, iniziavo a farne un altro, con pazienza davvero certosina.

Ma questo ero soltanto uno dei tanti passatempi "letali" e non quello più dannoso...
Sulle mie monellerie si potrebbe scrivere un libro di monellerie magari non eclatanti come quelle narrate ne "Il Giornalino di Gian Burrasca", ma certamente denso di episodi gustosi e - in alcuni casi - clamorosi.
Nella foto si nota anche un altro tratto distintivo della mia infanzia: pur essendo fondamentalmente chiuso ed introverso, avevo dei momenti in cui si manifestava un'incredibile vena buffonesca ed istrionica.
Si può anche notare l'abbigliamento, tipico dei ragazzini dell'epoca: pantaloncini rigorosamente corti e sbracati (fatti dalla sartina). Polo (come si direbbe oggi) fatta artigianalmente dalla magliaia, già troppo piccola, perchè gli indumenti si cercava di farli durare il più a lungo possibile: se nel frattempo, si era cresciuti un po' di più, pazienza.
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22 agosto 2012 3 22 /08 /agosto /2012 08:22

cardatrice.jpgQuando ero bambino... Once upon a time... C'era una volta...

Ancora una breve storia che comincia con un "quando ero piccolo...".

M'accorgo di ritrovarmi sempre più spesso ad usare questo incipit...
Che io sia diventato un nostalgico?

Ma forse è perchè le storie del nostro passato più lontano sono sempre le più belle e affascinanti.

Man mano che vado avanti, mi si affollano nella mente dei ricordi piccoli ed insignificanti del tempo in cui ero bambino.

E, spesso, mi viene l'urgenza di trascriverli: non so bene a chi tornerà utile o a cosa servirà.

Ma lo faccio lo stesso.
Forse, sperando che qualcuno legga queste brevi rimembranze oppure per la mia stessa futura memoria, quando i miei ricordi cominceranno a svanire...
Ma forse - riflettevo - è anche per il fatto che tutti quelli che avrebbero potuto raccontarmi storie delle mia infanzia (e che lo hanno fatto), adesso non ci sono più: e, allora, le storie - quelle che mi ricordo - le racconto io stesso, principalmente per me stesso. In questo senso, il raccontare, ha anche una funzione profondamente consolatoria.

Allora, ricominciamo...
Quando ero piccolo e abitavamo ancora nella casa di Viale Regina Margherita (Palermo), usavamo i materassi di lana, che allora erano di uso comune.
Nella casa dei nonni di Palazzo Adriano, invece, dato il nostro breve periodo di permanenza, avevamo - secondo l'usanza campagnola - i pagliericci che venivano poggiati su tavole di legno sostenute dai classici "trispiti" di ferro.

A Palermo, invece, come segno dell'evoluzione dei tempi, ai tempi della mia infanzia i materassi di lana erano sostenuti non più dalle tavole sui trepiedi (ovvero i "trispiti"), ma da reti metalliche (che non garantivano il massimo del supporto ortopedico alla schiena, ma così si usava), ma pesantissime perchè la loro struttura portante era fatta di ghisa.
Periodicamente, in media una volta all'anno, i materassi venivano aperti e la lana esposta all'aria perchè si arieggiasse, ma soprattutto per sciogliere i grumi di lana infeltrita che con la costante pressione si erano formati, sicché il materasso aveva perso la sua morbidezza originaria e s'era fatto tutto a bozzi.
Per compiere questo lavoretto (che per necessità doveva esser fatto nell'arco di una stessa giornata: dove avremmo dormito altrimenti?) venivano direttamente a casa degli speciali artigiani, i cosiddetti "cardatori della lana". 

Si piazzavano nel balcone posteriore di casa nostra (abbastanza ampio: più una loggia che non un semplice balcone), aprivano i materassi e cominciavano a trattare le palline di lana, grosse e piccole, con una speciale macchina che portavano con sé, molto rumorosa e sferragliante (anche se a funzionamento manuale).

Io che, allora, non andavo ancora a scuola seguivo affascinato l'intera procedura, un po' intimorito da questi omoni baffuti con in testa delle coppole messe storte.

Ricordo che, nel corso dell'operazione, si levava una gran polvere e che, ogni tanto, la nonna si affacciava per controllare che tutto procedesse bene.

Senza farmene accorgere raccoglievo qualcuna di quelle palline di lana e la nascondevo da qualche parte per giocarci dopo.Poi, alla fine, i lavoranti, rimettevano tutta la lana che si era fatta soffice e sciolta dentro i materassi  e li ricucivano con dei grossi aghi che - a dirla tutta -  mi incutevano un po' di paura.

Chiusi i materassi, passavano ai cuscini, seguendo un'analoga procedura.Poi, finito il loro lavoro, raccoglievano i loro strumenti, si caricavano della loro - per me fantastica - macchina e se ne andavano.

cardatrice in funzioneQuesti  grossi aghi "pi' cusiri i materazzi"  meritano una piccola digressione.
Anni dopo, mia madre usò quest'espressione per designare gli aghi che doveva usare per farmi due volte al giorno delle iniezioni di penicillina. La pennicillina cristallizzava rapidamente e occludeva l'ago: per evitare quest'inconveniente bisognava usare aghi di grosso calibro e ogni puntura era dolorissima. E, malgrado l'ago grosso, sovente il blocco si verificava egualmente: mia madre, che pure era bravissima a fare le iniezioni, piena di rammarico, doveva ripetere la procedura, mentre io stoicamente cercavo di non lamentarmi troppo.
Fu così che gli "aghi pi' cusiri i materazzi" divennero più tardi nella mia vita un vero strumento di tortura.
Ricordo che, poi, alla sera, era una festa andare a dormire su quei materassi che, quasi per incanto, s'erano fatti rigonfi e soffici.
Mi rimanevano, come ricordo dell'operazione della cardatura, quelle palline di lana che era riuscito a trafugare, in tutto simile alle palline pelose fatte con i resti di poseidonia, buttati a riva dal mare in tempesta, di cui spesso la spiaggia di Mondello era letteralmente cosparsa dopo una mareggiata.
E segnalo il fatto triste che di queste palline "da spiaggia" dopo le mareggiate se ne vedono sempre di meno, segno inequivoco del fatto che i banchi di poseidonie stanno morendo...

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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