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28 aprile 2013 7 28 /04 /aprile /2013 19:10
Ricordi d'infanzia: quei capricci e capriccetti davanti al cibo...Questo ricordo d'infanzia è davvero breve. Quando io e mio fratello eravamo ancora piccoli mangiavamo solitamente prima dei grandi ad un piccolo desco che, poi, era il tavolo al quale stava seduto mio fratello durante il giorno e sul cui ripiano faceva le sue cose: leggere, disegnare (con l'aiuto di della prozia Irene che si dedicava moltissimo a lui). Il piccolo desco veniva addossato per uno dei suoi lati lunghi al tavolo da pranzo, in modo tale che, in ogni caso, pur mangiando prima, non dovessimo sperimentare una sensazione di separatezza rispetto agli adulti.
Mangiavamo prima, anche perchè nostra madre potesse dedicarsi a noi senza distrazioni ed intralci, considerando che mio fratello aveva bisogno di maggiori attenzioni. Qualche volta ci prendeva la ridarella irrefrenabile e che non poteva estinguersi in alcun modo e l'operazione del cibo non poteva più andare avanti in nessun modo, si inceppava.
Allora nostra madre che, di fronte a quello che accadeva, si irritava moltissimo, con somma equità, mollava uno schiaffone a me e uno a mio fratello (schiaffone, dico qui, ma in realtà era soltanto di uno schiaffetto leggero, somministrato per buona causa, peraltro...).
E così si poteva ricominciare.
Ma questo ricordo mi riporta alla memoria altri episodi connessi con il cibo.
Spesso davanti alla carne con i calletti facevo i capricci, perchè  quella roba fibrosa non volevo proprio masticarla e mi dava i conati di vomito. A volte Quei calletti, per mia madre, erano inesistenti, ma ma per me c'erano, eccome, ed erano ben presenti.
Ma ero obbligato e dovevo andare avanti con la masticazione che, presto, diventava riuminazione e ad ogni tentativo di ingurgitare il bolo ecco che arrivava puntuale il conato.
Su questo, mia madre era tollerante e lasciava correre. Quindi, ad un certo punto desisteva.
Guai però se era presente mio padre: lui sosteneva che si doveva mangiare proprio tutto, all'insegna del principio: "Tu non sai cos'è la fame, perchè non hai fatto la guerra!".
E allora dovevo ingurgitare anche le cose che non mi andavano.
Qualche volta s'instaurava tra me e lui un vero e proprio braccio di ferro e allora rimanevamo nella stanza da pranzo sino alle cinque del pomeriggio (la mamma, la nonna e la nostra Marietta se ne stavano fuori dalla porta in apprensione e piene di empatia nei miei riguardi - si potrebbe dire, usando un'espressione letteraria, che si "torcevano i polsi per il dispiacere", ma non osavano dire niente né intercedere per me).
"Mangia", mi diceva mio padre con voce imperiosa.
Ed io, muto, con gli occhi bassi e con il pianto sulla bocca stretta e tremante, facevo di no con la testa.
E così si andava avanti per ore. ma non ricordo francamente con quali esiti: non ho memoria di chi alla fine cedesse.
Ma qualche volta anche la mamma s'intestardiva, come in questo caso di cui ora dirò. 
Di venerdì, mangiavamo in bianco, rigorosamente.
E, spesso e volentieri, ci veniva ammannito del merluzzo bollito, condito solo con un filo d'olio.
Ed io, quel merluzzo, proprio lo detestavo: mi dava sempre e invariabilmente i conati di vomito. Non c'era proprio verso. E la mamma a dirmi: "Mangialo che è buonissimo e ti fa bene! Non capisco proprio che cosa ci sia che non va!"
Ogni boccone era un tormento da mandare giù: la masticazione durava a lungo e il tentativo di ingestione del bolo a lungo masticato era spesso seguito da penosi conati di volmito.
Mi rendo conto che, guardando alla cosa retrospettivamente, ci voleva proprio una santa pazienza.
Una volta, mi sono proprio interstadito e fu forse perchè quel merluzzo aveva per me un sapore particolarmente ributtante.
Fu così che mi misi a protestare e a frignare.
Tanto frignai e piansi che del moccio colò dal naso sul merluzzo e la mamma non se ne accorse, cosìcchè accadde che il boccone successivo fosse proprio quello condito di abbondante muco.
E da allora - anche ora che sono adulto - il merluzzo bollito non posso proprio tollerarlo perchè evoca in me quello sgradevolissimo ricordo.
 
Però erano proprio altri tempi: si doveva mangiare - sempre e rigorosamente - quello che passava il convento. Nessuna deroga era consentita. In alcuni casi, il cibo del pranzo era ripresentato la sera. Una vera e propia scuola di stoicismo alimentare...
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20 aprile 2013 6 20 /04 /aprile /2013 14:49

Quando eravamo piccoli, mio fratello aveva l'(Maurizio Crispi) Quando ero piccolo...
Questo incipit è d'obbligo, quando riemergono ricordi dell'infanzia.
Quando ero piccolo, mio soffriva di "agrilluddana".
Un termine che non troverete certo nei dizionari, per quanta buona volontà ci mettiata.
Agrilluddana era una parola di gergo familiare che stava ad indicare una particolare mimica di disgusto che mio fratello faceva quando gli venivano dati da mangiare gli aranci brasiliani che notoriamente, per quanto dolci possano essere, sono "agri" al gusto.
Per lui piccolo, questo agro era pressocchè insopportabile ed era tale la mimica di disgusto che metteva in mostra quando gli finiva sotto i denti uno spicchio di un arancia brasiliana che la mamma decise in modo autoritario che per lui sarebbero state acquistate e tenute a disposizione le arancie "vaniglia" che non essendo "agre" non gli provocavano l'effetto dell'"agriluddana".
Ed io, piccoletto, non capivo le ragioni di tale privilegio, anche perchè per come mi parevano allora (anche, perchè quelle arance, essendo divenute una sorta di frutto proibito, mi sembravano buonissime.
Era frequente questo scambio di battute tra me e la mamma.
Mamma, mamma, anch'io voglio mangiare le arance vaniglia!

No, tu no!
Ma perchè?

Perche tu non hai l'agriluddana, concludeva perentoria la mamma.
Ed io: Mamma, mamma, voglio anch'io l'agriluddana! Come faccio per averla anch'io?
Ma non c'era verso.
In alcune cose, la mamma era di una rigidità prussiana.
Ed io così le arance vaniglia me le mangiavo di nascosto e, quando servivano per mio fratello, andava a finire che non ce n'erano più.
Facevo in segreto scorpacciate di arance vaniglia...

No, non credetemi del tutto: non ero così così cattivello al punto da lasciare mio fratello a bocca asciutta!
Ma qualcuna di nascosto di quelle arance vaniglia, me la mangiavo, questo è poco, ma è sicuro.

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11 aprile 2013 4 11 /04 /aprile /2013 20:27

Chiude la Libreria Flaccovio di Palermo, nella seconda metà del XX, autentica fucina della cultura siciliana(Maurizio Crispi) L'altro giorno, passando dalla centralissima via Ruggero Settimo di Palermo, ho notato con una stretta al cuore che la storica Libreria Flaccovio, era chiusa: la porta sbarrata con un cartello affisso davanti ("Chiusura per rinnovo locali", reca scritto) e le vetrine oscurate da strati di carta.
La mia è stata un'osservazione fuggevole, entrata solo per un attimo nella mia visione periferica (era alla guida dell'auto), eppure tanto è bastato a riempirmi il cuore di malinconia.
E' triste pensare che dalla Libreria, da cui per decenni sono passati scrittori e pittori nascera' probabilmente un negozio adibito alla vendita di mutande e reggiseni, trasformazione che - dovesse verificarsi - sara' indubbiamente l'epitome dell'impoverimento culturale di questo nostro tempo.
Se ne va cosi' un altro pezzo della Palermo di un tempo, ma quello che si perde non e' solamente un pezzo della citta', ma anche una parte consistente della sua cultura, sacrificata al mondo superficiale e triste dei "nuovi" consumi.

E, ovviamente, l'improvvisa stretta di malinconia al cuore, mi ha riportato indietro nel tempo e agli anni della mia formazione alla lettura.
Alla Libreria Flaccovio (proprio questa di Via Ruggero Settimo, non tanto l'altra ubicata in via Maqueda all'altezza dei Quattro Canti) sono infatti legati tanti ricordi della mia infanzia e della mia adolescenza, quando cominciavo a compiere i miei primi passi di lettore autonomo e di appassionato di libri.
Lì ci andavo sin da bambino al seguito di mio padre che, per motivi connessi alla sua attività lavorativa, ma anche nel suo ruolo di animatore culturale nella Palermo del dopoguerra, ci andava spessissimo, praticamente ogni giorno.
Negli anni del dopoguerra, per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, all'interno della Libreria Flaccovio si faceva la cultura, poichè grazie all'apertura mentale di Salvatore Fausto Flaccovio suo fondatore la Libreria era presto divenuta negli anni della ricostruzione, quando ancora parti della città erano cumuli di maceria il punto di ritrovo degli artisti e degli intellettuali della città, tutti animati in quel periodo da un grande fervore di rinnovamente e dalla speranza di dar vita ad un mondo migliore dopo le ristrettezze e le brutture della guerra.
Era un luogo di incontro, di dibattiti di idee, di confronti fecondi.
Vi si incontravano frequentemente i pittori più conosciuti di quel periodo e quelli emergenti, dal momento che nel suo spazio più interno venivano di continuo organizzate delle mostre.
Mio padre era in rapporti di grande amicizia con Fausto Flaccovio e tra i due correvano correnti di simpatia e di reciproca stima.
Io piccoletto, a volte, accompagnavo mio padre e, mentre lui era intento in conversazioni con questo e con quello, io ero libero di vagare a mio piacimento all'interno della libreria, affascinato e per nulla intimorito da quegli scaffali alti sino al soffitto e carichi di libri di tutti i tipi, di tutte le forme e le dimensioni.
In pratica, lì, ritrovavo, un'atmosfera che mi era familiare, perché la casa dei miei genitori, sin da quando ricordo era stra-piena di libri e mio padre frequentemente ritornava a casa con fasci di nuovi libri sotto il braccio, tra i quali non mancava mai qualche libro per me.
Io stavo a gironzolare qual e là, ma ero naturalmente affascinato dal settore dei libri per l'infanzia e per i ragazzi.
Tra questi, messi nei ripiani più bassi, perché ormai obsoleti, avevo scovato uno scaffale tutto dedicato ai romanzi di Salgàri in edizione integrale della casa editrice Viglongo (in brossura, con l'immagine di copertina in quadricromia e con le illustrazioni interne a piena pagina dei più famosi illustratori di Salgari) e in un altro ripiano i romanzi della casa editrice Sonzogno, di piccolo formato e dalla carta spessa e ruvida (si direbbe, oggi, pulp), di una collana avventurosa, ma maggiormente destinata più a lettori adolescenti e di taglio più esterofilo (ed erano le opere di Raphael Sabatini, di Zane Grey, di Oliver Curwood, di Henry De Vere Stacpoole, di Joseph Conrad.
Questi volumi erano pure brossurati, ma con una la copertina di un bel rosso scarlatto che se veniva bagnata stingeva e erano dotati di una bella sovraccoperta in quadricromia che riproduceva una dei momenti topici del romanzo. Il bello - leggendoli - era scoprire il passaggio del romanzo che quell'unica illustrazione rappresentava.
Dei volumi di Salgàri e di quelli della collana Sonzogno facevo - grazie all'indulgenza di mio padre - manbassa. Una terza categoria di volumi dai quali ero profondamente attratto era rappresentata dai romanzi di Jules Verne, allora disponibili in versione quasi integrale in una collana edita da Principato, con belle illustrazioni (quelle delle edizioni originali) incorporate nel testo.
Ma c'erano degli altri volumi più lussuosi che mi capitava di adocchiare: si trattava di rappresentanti ancora sparuti di una nuova generazione di libri per ragazzi (con carta di qualita', buone rilegature, illustrazioni a colori) e che costituivano - nel campo dell-editoria di quel tempo - l'uscita dalle ristrettezze del periodo postbellico.
Questi volumi mi facevano letteralmente gola.
Qualche volta capitava che Fausto Flaccovio mi dicesse: "Scegli volumi che vuoi, che te li regalo".
E mio padre mi incoraggiava sempre ad agire di conseguenza: "Vai, Maurizio, vai a scegliere ciò che ti piace!", mi diceva.
Io partivo per la mia battuta di caccia e spesso la mia scelta ricadeva proprio su questi volumi che, senza esitazione, mi venivano accordati.
Da più grande mi sono chiesto se, per caso, sottobanco (senza nulla levare alla dimensione del dono), mio padre non li pagasse per discrezione e per non abusare della squisita cortesia di Fausto Flaccovio.
Ma non ho saputo come le cose andassero veramente, né a mio padre l'ho mai chiesto.
E come non ricordare della Libreria Flaccovio, la signorina Iole Di Marco che aveva un ruolo chiave nella sua conduzione e che era sempre disponibile alla mie richieste di questo o quel volume, quando, divenuto più grande, andavo autonomamente a rifornirmi di libri, visto che mio padre prima (e poi anche mia madre) mi avevano dato carta bianca per prendere tutto cio' che avessi voluto.
La casa dei miei genitori e la Libreria Flaccovio furono a tutti gli effetti i luoghi dove, nel corso degli anni, si strutturò la mia passione per la lettura e anche un gusto e un piacere un po' bibliofilici (ma questi aspetti ci stanno pure) del possedere i libri (e si potrebbe dire con una metafora un po' ardita, anche di nutrirsene e mangiarli, nel senso proposto da Ivan Illich, nel suo saggio "Nella vigna del testo. Per una etologia della lettura", Raffaello Cortina Editore, 1994).

 

 

Vedi anche questo mio articolo

Mio padre, i libri e letture: le passioni che mi ha trasmesso

 

 

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21 marzo 2013 4 21 /03 /marzo /2013 10:58

Dalla caverna della lettura alla caverna dei libri... Uno sviluppo consequenzialeQuando ero piccolo...
Once upon a time...
Dio, sempre la stessa solfa...
Scusatemi se sono noioso, ma non posso fare a meno di continuare a rievocare e a ricordare un passato più o meno lontano...
Siccome non ci sarà nessuno a registrare i miei ricordi (non tutti sono dei Tiziano terzani), allora - in modo autoconsolatorio - lo faccio da me.
Poi se verrà qualcuno che, mettendo mano alla penna in un futuro (spero ancora lontano), vorra anche lui ricordarmi con le sue parole, di questo sarò lieto...
Ma intanto prcocediamo in regime autarchico, contando solo sulle proprie forze.
Riprendiamo allora il filo del discorso...
Quando ero piccolo e non c'era ancora la TV, era logico che si andasse a letto presto. Ogni cosa era regolata e scandita da orari abbastanza rigidi.
In più andare a letto presto d'inverno, era un grtan vantaggio, visto che non avevamo in caso alcuna forma di riscaldamento.
A letto si stava bene e si tenevano le mani al caldo: tutti noi da bambini abbiamo sofferto dei "geloni" nelle dita di mani equalche volta anche dei piedi.
Gli ordini e le regole della casa erano tassativi: una volta a letto non ci si poteva trastullare e si doveva immediatamente dormire, o almeno fingere di essere addormentati, sino a che la finzione non si fosse trasformata in sonno vero: e si sa che i bambini sono facilmente cedevoli alle lusinghe di Morfeo.
Quindi, una volta a letto, e dopo i bacini della buonanotte e la croce sulla fronte disegnata dal dito della mamma, le luci venivano spente.
E amen.
Dalla caverna della lettura alla caverna dei libri... Uno sviluppo consequenzialeQuando fui un po' più grandicello e avevo già il gusto della lettura... Già, il gusto... non a caso utilizzo questa parola, perchè il bello del pomeriggio di ogni giorno d'inverno era questo: appena di fare i miei compiti, riponevo tutto e iniziavo a leggere e a divorare pagine su pagine. In contemporanea arrivava il garzone del panificio che consegnava il pane appena sfornato per la cena: e io subito afferravo una grossa mafalda e la sbocconcellavo, metre ingurgitavo parole.
Questa abbuffata di pagine, tuttavia, non mi era sufficiente.
Ne volevo di più, anche quando la mia pancia era già stracolma.
E quindi mi attraeva molto la possibilità di starmene a letto a leggere al calduccio.
Ma non si poteva.
Le disposizioni tuttavia erano altre.

Luci spente e sonno immediato.
E allora escogitai qualcosa.
Quasi a proposito, proprio quando decisi di infrangere le regole, mi avevano regalato una piccola torcia elettrica a batteria.
E allora armato di questa preziosa fonte di luce, quando ero sicuro che la mamma si fosse ritirata dalla nostra stanza, io strisciavo verso il fondo del letto: e tenete conto che per dormire avevo bisogno che le coperte fossero perfettamente rimboccate; se  non mi sentivo chiuso - quasi sigillato - dentro il letto, mi veniva l'affanno respiratorio (una crisi d'ansia, con il senno di poi).
Qui, mi acciambellavo come una marmotta nella sua tana, accendevo la torcia e cominciavo a leggere il libro che mi ero portato dietro.
Questa "discesa" verso il fondo del letto era in sé avventurosa. Potevo immaginare che stavo esplorando una caverna dove avrei potuto trovare dei preziosi tesori, oppure che ero in vista nella portentosa casa scavata nella parete di granito che viene fortunosamente trovata dai naufraghi dell'Isola misteriosa e quant'altro.
Leggevo a sazietà e poi, finalmente, quando sentivo che gli occhi mi si chiudevano, risalivo alla superficie e dormivo beato.
A questo ci ho pensato proprio in questi giorni: quella mia "tana" in fondo al letto era divenuta proprio una "caverna delle lettura", un mio spazio privatissimo e molto intimo, in cui io da solo stavo in compagnia di una folla di personaggi dei romanzi che andavo leggendo, ma uno spazio anche segreto e silenzioso, tutto per me.
In fondo, ognuno di noi, per sopravvivere ha bisogno di qualche piccolo innocuo segretuggio.
Nel segreto c'è la permanenza della magia che riveste una determinata cosa: e, per questo motivo, un segreto può anche essere condiviso tra due persone che non vogliono in alcun modo disperdere la magia e la forza di uno stato nascente.
Ci ho pensato a questa storia della caverna di lettura del mio lontano passato, perchè ho cominciato a riflettere al fatto che casa mia comincia a diventare sempre più una "caverna di libri" più che una casa di abitazione, una casa in cui ogni stanza è fatta di libri e di un determinato utilizzo funzionale, del tipo "letto e libri", oppure "tinello e libri", "gabinetto e libri" che elegantemente si potrebbe trasformare in "Gabinetto di libri", al punto che potrei temere di non avere più - a breve - spazio per entrare tranquillamente a casa, sempre più assediata da pile e pile di libre.
E come se vivendo nel presente, con le possibilità e i mezzi di un adulto, io - senza saperlo - abbia cercato di trasformare il mio spazio di vita quotidiano in quella "caverna della lettura" della mia infanzia, facendola diventare come la mitica caverna dei Qauranta Ladroni, piena di infiniti ed ineffabili tesori...

 


In questo senso, una mia carissima amica - alcuni anni fa- ha pienamente colto nel segno, almanaccando quale regalo potesse farmi nel giorno del mio compleanno e corredando queste sue riflessioni con delle splendide vignette.
Quella che segue è una pagina di una lettera che mi fece avere in quella occasione. Ora, francamente, non mi ricordo quale regalo mi fece e se me lo fece.
Ma la lettera in sé fu sicuramente il più bel regalo che potessi ricevere.


 

Dalla caverna della lettura alla caverna dei libri... Uno sviluppo consequenziale

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11 marzo 2013 1 11 /03 /marzo /2013 08:31

Qué será será... Uno dei refrain che mia madre canticchiava quando era con meQuando ero piccolo piccolo, ma proprio piccino, la mamma spesso mi canticchiava una canzoncina il cui refrain era Qué será será// Qui vivra, verra.

Poi, più avanti negli anni, scopersi che la canzone, faceva parte della colonna sonora di un bellissimo film di Hitchcock (L'uomo che sapeva troppo, del 1956), in cui un bambino viene rapito ai suoi genitori e, alla fine, la sua salvezza dipenderà proprio da questa canzone che lui aveva imparato a cantare dalla sua mamma (che gliela cantava). I genitori, coinvolti nella sua ricerca, ad un certo punto mentre sono sempre più disperati, sentono la voce del bimbo intonare la canzone e lo salvano.
Questa scoperta diede ricchezza al ricordo del refrain che mi canticchiava mia madre.
Ma ancora più forza la conquistò in seguito, quando alla luce della storia del film, divenne per me uno degli elementi di fondazione di quella che è stata definita la "base sicura", quella sorta di fondamento solido che consente ad un bimbo piccolo di crescere avendo delle certezze di sicurezza e di stabilità, degli ancoraggi, insomma.

Aveva un senso che la mamma mi canticchiasse questa canzone, perchè possedeva un che di consololatorio e di salvifico per entrambi, forse aveva in qualche modo delle qualità "magiche". In più, appartreneva, in qualche misura, alla dimensione di rapporto privato ed esclusivo tra me e la mamma, una dellepoche concessioni segrete in un rapporto che, nella dimensione pubblica, non doveva mai apparire preferenziale e/o privilegiato.
Quando ascoltavo questa canzone ero preso sempre da un'intensa commozione e talvolta scoppiavo in lacrime.
Poi, nel corso del tempo, questa reazione si è stemperata, e piuttosto si accendono in me emozioni più quiete, accompagnate però da una venatura di malinconia e tristezza.
Quello che segue è il testo francese della piccola canzone, quello originale (ne esistono versioni anche in Inglese).
 

Qué será será
Qui vivra, verra
Dans le berceau d'un vieux château
Une promesse vient d'arriver
Une princesse toute étonnée
A qui l'on vient chanter :
Qué será será
Demain n'est jamais bien loin
Laissons l'avenir, venir
Qué será será
Qui vivra, verra 
On vit grandir et puis rêver
La jeune fille qui demandait :
"Dis-moi ma mie si j'aimerai"
Et sa maman disait :
Qué será será
Demain n'est jamais bien loin
Laissons l'avenir, venir
Qué será será
Qui vivra, verra 
Quand vint l'amant de ses amours
La demoiselle lui demanda :
"M'es-tu fidèle jusqu'à toujours ?"
Et le garçon chanta :
Qué será será
Demain n'est jamais bien loin
Laissons l'avenir, venir
Qué será será
Qui vivra, verra
Qué será será

 

Ed ecco la stessa canzone cantata da Doris Day nel film di Hitchcock, L'uomo che sapeva troppo.



 

 

 


 

 

 

 

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1 marzo 2013 5 01 /03 /marzo /2013 16:42

La via Ruggero Settimo d'anteguerra nel racconto mia madre Mia mamma ci raccontava che, nell'anteguerra, Via Ruggero Settimo che rappresenteva il centro elegante e à la page di Palermo era frequentatissima. Relativamente scarno era il traffico con autoveicoli e veicoli a traino animale, di bici e moto, mentre la folla dei pedoni era davvero enorme e brulicante.
Tutti passeggiavano, tutti guardavano le vetrine, tutti si fermavano nei bar e caffè prestigiosi sparsi lungo l'asse viario, a partire dal  rinomato "Extrabar" tristemente chiuso in anni recenti e sostituito da un negozio di moda eguale a tanti altri.
La mamma ci diceva che, allo scopo di disciplinare la grande massa di pedoni, proprio su via Ruggero settimo era stato istituito il "senso unico" pedonale.

Da un lato della via si camminava tutti nella stessa direzione e dall'altro lato in direzione inversa. I Vigili urbani erano addetti a sorvegliare che nessuno trasgredisse, distogliendo gli indisciplinati con vigorosi colpi di fischietto ed elevando ai recidivi e ai caparbi, se era il caso, delle contravvenzioni.

La mamma rievocava questa cosa con molta ironia e ci faveva tanto ridere.
Anche adesso, pensandoci, mI sembra una cosa dai risvolti piuttosto esilaranti (un po' da comica finale): uno scenario, peraltro, quasi da metropoli avveneristica (alla Fritz Lang) come in certe futurologie di cui ho letto (o che ho visto trasposte in film), in cui per spostarsi nelle città del futuro si salta su grandi nastri trasportatori e, per necessità di cose, bisogna muoversi tutti in una stessa direzione. Per cambiare senso di marcia si salta, in appositi "incroci" sul nastro trasportatore che si muove in direzione opposta.

Ho fatto delle ricerche su questo scenario che nostra madre ci faceva intravedere, ma non ho trovato nessun riscontro.

Mi piacerebbe molto se qulcuno si facesse avanti per condividere con me questo racconto tramandato o, eventualmente, per sconfessarlo.

In tal caso, penserei con affetto che si era trattato di un bel racconto della mamma, fatto per intrattenerci.

Mio padre, mia madre, i loro fratelli non ci sono più e a loro non posso più chiedere, purtroppo.

 

 

 

 

Via Ruggero Settimo è una delle principali vie di Palermo.La via insieme alle perpendicolari vie Principe di Belmonte e Generale Magliocco viene considerata come il salotto di Palermo. Si estende per circa 350 m da, seguendo il senso di marcia, via Libertà a via Maqueda e l'unica grossa arteria che la taglia è via Mariano Stabile dove le due strade creano i cosiddetti Quattro Canti di Campagna contrapposti ai Quattro Canti di città posti più avanti sulla stessa direttrice.

La strada è resa famosa dai negozi che la popolano che sono tra i più cari della città, durante le domeniche viene chiusa al traffico veicolare diventando zona pedonale, soluzione che il comune ha proposto di realizzare in via definitiva entro il 2008 (ma si tratta di una decisione sottoposta di continuo a ripensamenti e a ritrattazioni).

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24 febbraio 2013 7 24 /02 /febbraio /2013 17:55

La Stazione Palermo Lolli di via Dante: uno dei luoghi della mia infanziaLa Stazione ferroviaria di Palermo Lolli è in qualche modo legata alla mia infanzia.
Vi racconto come.
Non era distante dalla casa dove abitavano in Viale Regina Margherita e, spesso, d'estate, qunado l'aria pomeridiana prendeva a rinfrescare, facevamo delle piccole spedizioni fuori casa di cui ero sempre molto contento: uscivamo di casa con mio fratello nella sua sedia mobile a ruote, io, la mamma e la nonna e, pian piano, a piedi scendevamo lungo via Dante per recarci al bar della Stazione Lolli.
Mentre il fronte della Stazione dava proprio sulla Piazza con il grande palmeto su cui si affaccia oggi anche il Cinema Dante, per accedere al bar dotato di un piccolo giardino ombroso, si passava attraverso un cancelletto che si apriva direttamente su Via Dante.
Ricordo che, disposti all'interno, c'erano dei piccoli tavolini e delle sedie di ferro dipinto: noi ci sedevamo lì, all'ombra e al fresco.
Qualche volta c'erano anche i miei cugini.
La mamma ordinava per noi sistematicamente la "Coppa del Nonno" (o si trattava della "Coppa Smeralda" al gusto di amarena? - qui la memoria mi tradisce -) che, proprio in quegli anni, fece da battistrada ai gelati industriali (ma il suo contenitore non era ancora a forma di tazza di caffè).
Io ne ero ghiotto (ma perchè rispetto al classico "cono" o alla briosce rappresentava anche la "novità" e, in più, ci si sbrodolava di meno) e con la palettina di plastica di un colore vivace che cambiava ogni volta, ne mangiavo a poco a poco, senza avidità, per gustare meglio ogni singolo pezzetto: prima, quando il gelato era ancora ben solido mi limitavo a raschiarne leggermente la superficie, facendo formare sulla superficie della paletta dei piccoli ed eleganti riccioli... Poi, man mano che, con il riscaldamento della mano e per effetto della aria tiepida, il contenuto della coppetta si andava ammollando, le palettate diventavano più abbondanti, fino a che dovevo raccogliere il fondo rimanente, ormai semiliquefatto.
Il gusto andava cambiando leggermente man mano che quel gelato passava dallo stato solido a quello semisolido, ma era sempre buonissimo.
Alla fine aveva sopra le labbra due baffi marrone e appiccicosi.
Ho un bel ricordo di quei pomeriggi: il terreno del giardinetto non era cementato ed era molto polveroso.
Io che non potevo stare fermo (solo il gelato ci poteva a rallentarmi per un po') e che calciavo ogni cosa avessi a tiro, alla fine, calzando dei sandali di cuoio "alla francescana" (come a quel tempo si usavano per i bambini della mia età) mi ritrovavo con i piedi completamente imbiancati.
Piedi bianchi di polvere e baffi appiccicosi di gelato: un bel vedere...
E mentre io mi imbiacavo i piedi e mi esibivo in performance monellesche, i grandi conversavano quitamente tra di loro.
Qualche volta, quando arrivavamo, avevano da poco finito di abbeverare le piante e c'era un buon odore di terra bagnata che rendeva ancora più belle queste nostre pigre soste.
Darei tanto, ma davvero tanto, per poter rivivere uno di questi pomeriggi spensierati e felici, senza tempo.
Mio padre non fa parte di questo ricordo: lui di pomeriggio era sempre al lavoro.

 

 

 

La Stazione Palermo Lolli di via Dante: uno dei luoghi della mia infanziaUn po' di storia. La Stazione di Palermo Lolli, sita nella centralissima via Dante, entrò in servizio il 28 ottobre 1891, come stazione terminale della linea Palermo-Castelvetrano-Trapani, gestita dalla Società della Ferrovia Sicula Occidentale (FSO). Questa tortuosa linea, che collegava la città alle aree agricole della Sicilia occidentale, era utilizzata più per il traffico merci che quello passeggeri.

Nel progetto originale della Palermo-Castelvetrano-Trapani della FSO (1876) Palermo Lolli non era prevista, e la linea per Trapani si sarebbe dovuta attestare alla stazione di Palermo Centrale, gestita dalla Società per le Strade ferrate Calabro-Sicule, collegandosi al bivio Madonna dell'Orto al preesistente tronco Palermo Centrale-Palermo Porto. Per divergenze tra le due società non se ne fece nulla e, nel 1891, venne inaugurata la stazione Lolli, che insiste sulla sede del cantiere di costruzione della linea.

Il tronco da Palermo Centrale per Lolli e per il porto, che a causa dell'urbanizzazione interferiva con la viabilità stradale in molti punti, fu oggetto di ricorrenti critiche. A partire dagli anni Venti fu studiato un riassetto complessivo del nodo di Palermo, comprendente anche il suo interramento.

Nel 1974 venne aperta la nuova stazione di Palermo Notarbartolo e da quel momento la stazione Lolli perse il suo utilizzo per il servizio passeggeri e rimase, ma per un breve periodo, venendo utilizzata solo per il traffico merci.
Di lì a pochi anni venne definitivamente chiusa.
Rimasta in abbandono per molti anni, nel 2006 la stazione è stata venduta dalla società di gestione Ferrovie Real Estate, del gruppo FS, a un raggruppamento di società private che ne hanno progettato la trasformazione con la creazione di una sezione adibita a museo delle ferrovie.
Il 22 febbraio 2008 all'interno dell'area di pertinenza della stazione è stato inaugurato il cantiere del passante ferroviario urbano della città di Palermo.

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16 febbraio 2013 6 16 /02 /febbraio /2013 23:59

Una volta dormii ad Hyde Park. Ecco la storiaUna volta dormii ad Hyde Park. Ed ecco la storia, una storia di altri tempi e di tempi sicuramente molto felici.
Venivo da una località campagnola dell'Inghilterra rurale, dov'era ubicato un Campo di lavoro per studenti e non solo (anche giovani lavoratori con pochi soldi per le vacanze): e si trattava di un ex campo di prigionia risalente alla 2^ guerra mondiale. Ma c'era di tutto: campo di calcio, pub, disco, e persino la piscina dove si poteva stare a razzolare nelle giornate più torride. Comodità un po' rustiche, ma sufficienti per divertirsi.

Vi si respirava una bella atmosfera: tantissimi Inglesi e poi stranieri di diverse provenienze, tra i quali il nostro gruppo di Palermitani, piuttosto corposo e schiamazzante.
Chi voleva andava a lavorare nelle fattorie vicine a raccogliere ortaggi oppure nelle fabbriche agro-alimentari dei paraggi a fare dei lavori connessi con l'inscatolamento e con la preparazione dei prodotti della terra da distribuire ai commercianti.

Io non andai a lavorare una sola volta, anche se mi sarebbe anche piaciuto sperimentare questa dimensione. Eropiuttosto indaffarato...
Grazie al fatto che con l'Inglese me la cavavo abbastanza bene, sin dalla prima sera mi "fidanzai" con una ragazza inglese che era lì in vacanza assieme ad altri amici: e, quindi, avevo per la testa ben altri pensieri e ogni notte si facevano le ore piccole.

Ero arrivato lì munito di automobile (la mia mitica Cinquecento FIAT) per un tour che si sarebbe rivelato lungo quasi due mesi (siamo nell'estate del 1971).

Quindi la mia macchinetta, per quanto piccola, fungeva da accogliente alcova e qui io la mia  Inglesina (con cui rimanemmo fidanzati per diversi anni) passavamo quasi tutta la notte. Ma di dormire manco a parlarne. La mattina presto rientravo negli alloggi-dormitorio (grandi camerate), dove trovavo i miei amici in procinto di andare al lavoro nei campi. Io invece mi mettevo a letto per ritemprarmi co, impegnati come eravamo in conversazioni e in dolce ginnastica. n un po' di sonno, ma non per molto perchè mi prendeva la smania di fare altre cose, come correre, leggere, fare ginnastica o andare in piscina per incontrarmi con miei amici inglesi (e con la mia nuova fidanzata).

Finita questa felice parentesi venne il tempo di ripartire.
La prossima meta era la Spagna dove, in una piccola cittadina a Nord di Madrid (Palencia) ero atteso per uno "scambio culturale" tra studenti di medicina: allora non esistevano le moderne forme di scambi tra studenti di diverse nazionalità, tipo l'Erasmus, e si facevano soltanto degli stage piuttosto brevi, in genere durante le vacanze estive.

Il viaggio di trasferimento lo avrei fatto con la mia auto,  attraverso la Francia, ma in compagnia di un mio ex-compagno di scuola ed ora collega di corso a Medicina (Claudio).

Partimmo dal campo di lavoro e ci fermammo a Londra. Trascorremmo un po' di tempo in giro turistico per la città, con l'idea di proseguire il giorno dopo.
Dove dormire? Decidemmo di fare una "spertata" (ma, d'altra parte, anche i soldi erano pochini e quindi eravamo anche mossi nelle nostre decisioni non solo da giovanile sconsideratezza , ma anche dal progetto di risparmiare il più possibile) e cioè di dormire all'aperto.
Dove? Grande interrogativo!
Una volta dormii ad Hyde Park. Ecco la storiaMa, ovvio, ad Hyde Park naturalmente, proprio nel cuore di Londra! Decidemmo ciò in un autentico lampo di genio, per nulla intimoriti dalle truculente storie londinesi su Jack lo Squartatore.
All'imbrunire, sgranocchiammo qualcuna delle nostro provviste e ci mettemmo a riposare pe un po' in auto (che saggiamente eravamo riusciti a parcheggiare proprio lungo il perimetro di Hyde Park) in attesa che facesse buio, per poter perpetrare il nostro misfatto con il favore delle tenebre.
Al momento opportuno, sgusciammo fuori dall'auto e, scalvacata la recinzione di ferro battutto, ci addentrammo nel parco silenzioso e deserto, calpestando quasi con riverenza il soffice manto prativo di erba perfettamente tagliata a raso.

Camminando con una certa circospezione e totalmente immersi nell'oscurità, arrivammo sino ad una area che, a nostro avviso, era sufficientemente appartata e dove erano ammucchiate ordinatamente delle sedie a sdraio di tela,anche loro in riposo notturno: ne prendemmo due e le poggiammo a terra, a mo' di brandina, per evitare il contatto diretto con il terreno intriso di umidità. Sopra la sdraio il sacco a pelo e dentro il sacco a pelo noi.

Chiacchierammo un po', immersi in quel silenzio profondo e del tutto lontani dalle luci della città, tanto che quasi potevamo vedere le stelle occhieggiare sulle nostre teste, e poi, alla fine, ci addormmentammo.
Io dormii saporitamente.

Fui risvegliato bruscamente alle prime luci dell'alba, mentere il sole appena cominciava a sorgere, da una voce aspra, molto british e alquanto severa.

Una volta dormii ad Hyde Park. Ecco la storiaAprii gli occhi ancora inciprigniti e, mettendo a fuoco faticosamente (ma non del tutto perchè ero senza occhiali), vidi proprio all'altezza della mia faccia due pesanti scarpe nere, rinforzate in punta e perfettamente lucidate.
Alzai gli occhi e, torreggiante sopra di me, alto quanto un gigante chi c'era?
Ma ovviamente un burbero "London Bobby", il quale, incurante del fatto che io e il mi amico capissimo o meno ci redarguiva sul fato che lì non si poteva dormire e che ce ne dovevamo andare subito, ma proprio subito.

Cosa che facemmo rapidamente, senza stare a contestare, raccogliendo armi e bagagli in un batter d'occhio, ma rimpiangendo quel placido sonno così violentemente interrotto.

Arrivammo trafelati alla macchina e lì ci mettemo a dormire ancora per un po'.
Poi, ci dirigemmo verso il British Museum per una visita piuttosto rapida perchè la strada che ci aspettava era tanta, e prima di iniziare la nostra visita (ma anche perchè in attesa che del museo aprissero i cancelli) ci concedemmo un nutriente e super calorico English Breakfast in un locale nei pressi, scelto con ponderazione, dopo aver verificato che era frequentato esclusivamente da Londinesi e non da turisti.

Dopo qualche ora, appagati della nostra visita a volo d'uccello del celebre museo, risalimmo in auto e ci dirigemmo alla volta di Dover per traghettare verso la Francia e proseguire così il nostro viaggio.

Ma questa è un'altra storia...

   
 

 

 


Due parole per dire da dove viene questo reminiscenza. L'altro giorno passavo davanti alla Villa Falcone e Morvillo (sul viale della Libertà, di fronte al Giardino Inglese) e mi sono ricordato che, qualche tempo fa, di mattina molto presto, quando ancora il cancello della villa era chiuso avevo visto una tenda montata da globetrotter di passaggio.
Ero rimasto abbastanza meravigliato di ciò e mi ero chiesto sino a quando avrebero potuto dormire indisturbati, prima che arrivassero gli addetti alla manuntezione a dire loro di sloggiare.
Ricordandomi di questo "immagine", per associazione mi è venuto davanti agli occhi il film di quell'avventuroso pernottamento ad Hyde Park che, a sua volta, mi ha riportato a rivivere in un flash buona parte di quel viaggio dell'estate 1971.
I ricordi sono proprio come delle scatole cinesi!

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12 febbraio 2013 2 12 /02 /febbraio /2013 11:50

Quando mi schiaccia un'unghia e gridai di doloreUna volta mi schiacciai un'unghia della mano nel chiudere un pesante sportello di ferro: lo sportello si era inceppato, io lo forzai e cedette all'improvviso sicchè il dito con tutta l'energia che io avevo messo per smuoverlo, venne schiacciato tra questo e lo stipite (pure di ferro).

Che mi schiacciasi un'unghia mi era già capitato, ma quella volta vidi letteralmente le stelle.

Il dito fu presto gonfio come un peperone e l'unghia fu rapidamente nera (per il versamento ematico sottostante o, come si dice in linguaggio tecnico, a causa dell'ematoma subungueale) e pulsante.

Penai per due giorni, a causa del dolore e di quella continua pulsazione.
Poi a distanza di qualche mese, riebbi un unghio del tutto nuovo (e, fortunamente, senza alcuna significativa deformità).

Ma soprattutto, nei primi giorni dopo il trauma la mia sensibilità era tutta concentrata in quell'unghia offesa (tipico esempio di alterazione della cenestesi "focale")...

 

 

Qualche anno dopo, mentre camminavo per strada, fui testimone di una scena.

Un tipo che usciva dalla macchina, chiuse con forza lo sportello senza accorgersi che la fidanzata aveva le mani proprio sulla giunzione tra carrozzeria e sportello.

Bam! E il danno fu inevitabile.
La ragazza gridò di dolore e sbiancò in viso.

Il fidanzato cercava di consolarla, ma in modi poco efficaci (in più si sentiva colpevole del fattaccio e le sue premure erano in qualche modo falsate dal suo bisogno di essereoblativo e riparatore...).

Io, memore della mia pregressa esperienza (che, davanti a quella scena, balzò subito in primo piano nel mio panorama emozionale) non potei resistere...
Mi avvicinai ai due in ambasce e, senza preamboli, mentre la ragazza si torceva letteralmente i polsi in preda alla sofferenza, dissi: "Io so cosa vuol dire, lo capisco bene quello che provi. E' capitato anche a me!"
Dopo di ciò, dopo aver dato prova di questa forma di solidarietà empatica e ritenendo di aver assolto il compito, voltai loro le spalle e me ne andai.
No so perchè lo feci: la mia aesternazione fu il frutto di un irrefrenabile impulso.
Certo che i due, e ancor di più la ragazza "offesa", mi gurdarono allibiti e, forse, non capirono nemmeno il senso della mia frase.
Ma non ci fu il tempo di approfondire, perchè dopo aver espresso solidarietà in questo modo strano, me ne andai...

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7 febbraio 2013 4 07 /02 /febbraio /2013 16:03

Singer_sewing_machine_table.jpg(Maurizio Crispi) Le macchine per cucire Singer hanno rivoluzionato l'industria tessile del XIX secolo, ma - nello stesso tempo - hanno influenzato profondamente l'economia domestica, consentendo la realizzazione sia di interventi riparativi sugli indumenti logorati o strappati, ma anche di forme di piccola sartoria casalinga.
La macchina per cucire Singer, nella sua versione domestica ("da tavolo") che veniva commercializzata con tavolo in stile in una perfettà unità di forma e di funzione, faceva parte del panorama quotidiano di molte famiglie italiane (e del mondo occidentale), prima del boom produttivo delle industre e dell'avvento delle logiche consumistiche, nell'immediato dopoguerra. E, nella loro vita, rappresentava un accessorio indispensabile
Il più delle volte, si trattava di macchine per cucire Singer risalenti all'anteguerra, possibilmente acquistate come bene dotale per le nostre nonne.
Tra l'altro - e questa è una delle cose che rammento dei racconti della nonna Maria (madre di mia madre) - suo padre aveva una sorta di "concessionaria" per le Singer (ancora prodotte all'estero, poichè la prima fabbrica italiana Singer arrivò solo nel 1935 (con Stabilimento di Monza), e andava sovente a Malta per trattare affari (l'acquisto delle macchine per cucire per uno loro successiva venditain Sicilia), visto che proprio lì arrivavano i manufatti Singer prodotti in Inghilterra (prima negli stabilimenti di Glasgow, avviati dal 1867 e poi in quelli di Brighton, inaugurati nel 1871).
A casa da me, c'era una Singer, da sempre a mia memoria di bambino...
Poi, forse dopo la morte della nonna, quando io già andavo al Ginnasio, mia madre ne acquistò una moderna - sempre di marca Singer - inclusa - con un meccanismo a scomparsa in una tavolo-scrivania di solido legno massello.

Ma quella che si usava in casa, quando ero bambino e che era fornita di pedana mobile per fare muovere il meccanismo (quel famoso meccanismo a pedana mobile simile a quello utilizzato nelle Filande)  venne purtroppo ceduta quando l'ultimo grido targato Singer entrò in casa.
In realtà, quelli erano oggetti fatti per durare: che si compravano una volta sola come parte del corredo domestico essenziale e che poi passavano da una generazione all'altra.
Non erano come gli utensili di oggi, fatti con la logica consumistica dell'essere "a tempo", cioè già predisposti con dei punti di debolezza che portano, dopo un arco di tempo variabile (ma in genere sempre più breve) alla loro rottura.
La logica del consumismo spinto implica che gli oggetti siano essenzialmente "disposable": da utilizzare per un arco di tempo e poi da buttar via.
Eppure, quando ero bambino e guardavo mia madre - o la signora che aiutava in casa nei lavori domestici usare quella macchina da cucire -  ero ipnotizzato e passavo il mio tempo a guardare quel magico meccanismo in movimento e l'armonia delle diverse parti che si muovevano all'unisono.
Essendo ancora basso di statura, mi concentravo sul supporto del piano di lavoro in metallo massiccio, con formava un elegante disegno e che portava al centro la scritta Singer, tutta in lettere di ferro.

Era una macchina che sentivo in qualche modo "minacciosa" e spesso fantasticavo cosa sarebe potuto accadere, se avessi ficcato il mio ditino sotto l'ago in movimento.
Stavo a lungo in quella stanza, mentre qualcuno era al lavoro, affascinato dal movimento delle diverse parti meccaniche e dal movimento del filo che si andava srotolando dal suo rocchetto per trasformarsi in cucitura perfetta, dritta e regolare; ed intanto ero cullato dal canto della macchina, che saliva e scendeva assieme al movimento instancabile della pedana.
Roba d'altri tempi...
Questa rievocazione è stata in qualche modo stimolata dal nell'amarcord di Silvana Carratura, con la quale condividiamo età e, quindi, anche tipologia di ricordi.
Ecco il suo contributo, pubblicato qui con la sua autorizzazione.



Macchina-da-cucire-Singer-depoca-fine-1800-molto-rara-Cisla(Silvana Carratura) La mia nonna materna aveva una vecchia macchina da cucire, la base con pedale in ferro battuto e lavorato in stile Liberty e della madreperla incastonata sul piano del tavolo.
Era proprio bella...
Lei al pomeriggio usava spostarla verso la finestra per avere più luce e si dilettava a correggere orli di lenzuoli, a fare qualche cucitura, ad accorciare vecchie gonne o a rifare l'orlo ai pantaloni di mio nonno; erano piccoli lavoretti cui si sobbarcava per noi, con amore.
Io piccolina la guardavo ammirata; osservavo il movimento del pedale, quello della ruota che girava mentre lei dava la spinta al macchinario che iniziava a muoversi piano,per poi prendere la rincorsa sempre più forte, sempre più forte, fino a sembrare una corsa automobilistica...
Quella velocità mi esaltava...
Osservavo quei minuscoli piedi chiusi nelle loro pantofole di lana color amaranto, coi bordi di pelliccetta grigia; li vedevo fare su e giù e poi ancora giù e su, su quel pedale prezioso sempre più velocemente e ne restavo affascinata, quasi ipnotizzata. Contemporaneamente, la nonna spingeva con le mani la stoffa che scorreva sotto l'ago allontanandola da sè.
Sembrava un rito... e lo era, forse.
Avrei voluto imitarla, emularla, ma mi toccava solo d'assistere a quello spettacolo in religioso silenzio per poi vedere il lavoro finito e la macchina da cucire che rientrava sotto il suo coperchio-cassetto in legno lavorato finemente, a custodia di un oggetto tanto prezioso e pregiato per quei tempi.

Era una delle prime Singer e la conservo ancora.
Ed ancora, quando la guardo, mi sembra di rivedere mia nonna e le sue pantofole col bordo di pelliccetta, le sue piccole mani con gli anelli d'oro, la sua minuta nuca grigia ordinatissima e composta nel suo chignon ed il suo sorriso soddisfatto e luminoso alla fine della sua lunga corsa sul pedale.


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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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