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25 novembre 2013 1 25 /11 /novembre /2013 06:28

Mia mamma e la conservazione degli oggettiMia mamma che aveva vissuto le ristrettezze delle guerra e che si era trovata ad approviggionarsi con la carta annonaria, voleva avere a casa abbondanti scorte di tutti i generi essenziali.
Il sale, lo zucchero, la pasta, lo scatolame non dovevano mai mancare.
Le scorte andavano periodicamente aggiornate e rimpolpate.
Ma lo stesso atteggiamento previdente lo adottava per qualsiasi cosa: lo spagno degli incarti, le carte degli involti, i vassoi di cartone, i ritagli di stoffa, i barattoli di vetro, le bottiglie vuote, tappi di sughero, sacchetti di carta e cartone, per citare le cose più comuni, ma ce n'erano anche di più speciose: tutto doveva essere conservato per possibili usi futuri.
Altri oggetti dovevano essere ricilcati ad altri usi sino alla loro totale consuzione: così era per gli spazzolini da denti consumati, ancora buoni per fare le pulizie, oppure per i vecchi bastoni di scopa.
Il principio di base era che nulla doveva essere mai buttato.
"Non si sa mai", soleva dire.

Ed anche: "Sarebbe un peccato buttarlo via".
Io, inevitabilmente, ho preso le stesse abitudini.

Per anni ho conservato di tutto, pensando che - esattamente come lei mi aveva inculcato - che ogni cosa potesse tornare utile un giorno.
Solo che a forza di conservare, ti dimentichi di ciò che hai conservato.
Una volta, da un rivenditore di strada comprai una "balla" di sale. Ciò accadde più di vent'anni fa. E ancora oggi sto usando di quel sale.
Recentemente, ho fatto un repulisti e, avendo la necessità di trovare nuovi spazi, per riporre le cose, ho eliminato un bel di queste cose "eccedenti", accumulate nel corso degli anni.
Ora, mi sento più leggero.
Ma nello stempo, quando mi avanza un sacchetto di carta dalla libreria o dall'aver fatto shopping o una scatole per scarpe vuota, un barattolo di vetro o la bottiglia che conteneva una birra, il mio primo impulso sarebbe di conservare, conservare, conservare
Devo forzare me stesso per "eliminare".

Ai tempi di mia madre (quando era giovane, durante la guerra e nell'immediato dopoguerra), conservare avere un senso, perchè alcuni "generi" e alcuni materiali erano rari e, quindi, la loro conservazioni ai fini di un loro riciclaggio funzionale, aveva un senso.

Adesso, non più. Non c'è alcun senso, anche se forse - perdurando la crisi - torneremo a queste forme di parsimonia.
Eppure, quelle meticolose procedure di conservazione possiedevano un loro fascino. Non posso non pensare al rito di quando c'era da aprire la confezione dei dolci che, la domenica, non mancavano mai sulla nostra tavola.
Prima di togliere l'incarto, occorreva  scioglere meticolosamente i nodi dello spago (mai tagliarli! Sarebbe stata un'eresia) e avvolgere con cura lo spago per poi metterlo in un apposita scatola di latta che faceva da deposito degli spaghi e delle cordelle (con cui, allora, si facevano i "chiacchi" per legare i panni sul filo per stendere: un succedaneo povero - ed economico - delle attuali mollette di plastica).
In ogni caso queste procedure - il rito - dilazionando i tempi, incrementavano ulteriormente il piacere di quando finalmente aperto il pacchetto e disvelato il suo contenuto ci saremmo potuti lanciare all'arrembaggio dei dolci (...ma sempre con parsimonia: uno a testa, al massimo, oppure due mezzi). Gli altri a cena oppure il giorno dopo per colazione o per merenda a scuola.

E' davvero straordinario come noi cresciamo ad immagine e somiglianza dei nostri giorni, plasmati da loro o come un positivo oppure, in taluni casi come un negativo. Ed è altrettanto straordinario come una serie di piccole abitudini acquisite negli anni dell'infanzia ce le portiamo appresso come parte di un nostro lessico familiare - in senso lato - prezioso ed unico.

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8 novembre 2013 5 08 /11 /novembre /2013 13:51

Il piccolo tesoro di Franci, dimenticato e ritrovatoQualche giorno fa, mettendo in ordine alcune cose nella casa di Capo Zafferano, dentro il cassetto di un tavolinetto del soggiorno, ho trovato una ciotola di palastica piena di frammenti di vetro colorati.
E mi sono ricordato, con una certa commozione, ovviamente.
Quando Franci era piccolino e andavamo alla spiaggietta di Capo Zafferano (dal lato di Sant'Elia) tra i sassi e i ciottoli, si trovano in grandi quantità eterogei reperti,alcuni dei quali indubbiamente interessanti. Tra questi, un intero assortimento di pezzetti di vetro - ciò che rimaneva di bottiglie di bibite diverse - che, nel corso del tempo, erano stati levigati e smussati dal mare sino ad assumere essi stessi l'aspetto di piccoli ciottoli, dal verde chiaro, al verde scuro, al marrone, per non parlare di quelli traslucidi e semitrasparenti, tutti con un effetto di "sabbiaturra".
Bagnati erano bellissimi, perchè erano luccicanti.

E, mescolati ai ciottoli bianchi, rotondi o ovali, conferivano loro un tocco di grande bellezza cromatica.

Franci ne era letteralmente affascinato: li ricercava minuziosamente, li raccoglieva e li portava a casa.
Li chiamava i "suoi gioielli".
E, nel corso del tempo, ne aveva raccolto una bella quantità.
Asciutti perdevano una parte del loro fascino perchè la loro brillantezza svaniva e diventavano opachi.
Ma rimaneva egualmente belli e a lui piaceva molto giocarci.
Poi, quando per un po' di tempo di tempo, abbiamo smesso di andare a Capo Zafferano, quel piccolo tesoro è rimasto là, proprio dove lui li riponeva al termine del gioco.
Dimenticato, come reperto di un tempo che fu.

E adesso quel piccolo tesoro è venuto alla luce.
Li ho portati a Palermo, nella loro ciotola, perchè penso di consegnarli a Francesco.
Penso che gli piacerà vedere concretamente un piccolo "pezzo" della sua infanzia che non è andato disperso in periodiche epurazioni della sua stanza per far posto a nuove cose.
E adesso, soprattutto, è abbastanza cresciuto per dare a questa piccola - in sé senza valore - il valore affettivo e di supporto della memoria che merita.
Mi ricorda - d'altra parte - del tempo in cui io, da piccolo, collezionavo i tappi delle bottiglie di birra e di altre bibite gassate, sino a accumularne una piccola fortuna: ne avevo messi assieme oltre mille e li tenevo in un robusto sacco di plastica trasparente.
Ci giocavo spesso.
In che modo?
Dopo averli messi tutti sul pavimento, li usavo per comporre dei disegni, oppure li disponevo in interminabili file, oppure li suddividevo per tipi, ma anche guardavo ammirato la loro varietà cromatica e di decorazioni che spesso attorniavo il logo o il nome della bibita.
Un bel giorno mi stancai di questo gioco.
Ma - più o meno in concomitanza - ci fu anche mia madre che mi disse: "Maurizietto, ora sei cresciuto abbastanza. Quanto tempo ancora vuoi giocare con questi tappi?"
Io presi la sua frase come un invito a liberarmi del mio gioco preferito, perchè ormai ero diventato grande. E, detto fatto, presi il sacco con tutti i tappi e lo scaraventai fuori dal balcone che aggettava sul retro della casa (buttare cose le più disparate fuori dalla finestra, usarle come oggetti da lancio era un'altra delle mie attività preferite).
Il grosso sacco finì sul tetto del garage sottostante e, all'impatto, letteralmente esplose con un grandioso effetto "pirotecnico", cospargendolo tutto di tappi colorati che rimasero là ad arrugginirsi.
Ogni volta che mi affacciavo, potevo vedere questo pezzo della mia infanzia che sbiadiva e si andava corrodendo sempre di più.
Sino a quando non cambiammo casa.

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26 ottobre 2013 6 26 /10 /ottobre /2013 00:17

Subito! Un momento!Mia madre aveva sempre molte cose da fare.
Insegnava, e si portava il lavoro a casa.
Si occupava di tutte le necessità di mio fratello.
Aveva una casa da condurre.
Spesso cucinava o, comunque, si preoccupava che ci fosse sempre tutto il necessario, perchè la nostra collaboratrice di allora (ben prima della signora Maria che ci ha accompagnato soltanto negli ultimi 25 anni) potesse predisporre le cose del pranzo e cucinare delle verdure per la sera.
E, poi, riusciva a trovare il tempo per andare ai concerti, al teatro, al cinema e tante altre cose.
Trovava persino il tempo di leggere e di tenersi aggiornata.
Quando ero piccolo, spesso mi portava con sé per non lasciarmi a casa da solo.
Pensava che per me fosse meglio uscire con lei che non stare a casa con la nonna, privo della compagnia di altri miei coetanei (era un periodo, quando ero molto piccolo, in cui mio fratello non stava a casa tutto il tempo).
Oppure, uscivamo per andare a scuola: spesso, quando io frequentavo le Elementari e poi alle Medie, ci andavamo a piedi.

Quando andavo alle Elementari, le due scuole erano vicine, praticamente contigue.
E poi, alla scuola media, frequentai l'Alberigo Gentili, cioè la stessa scuola in cui insegnava lei.

Era sempre assillata dalla mancanza di tempo, oppure dalla sua ristrettezza.
Per lei non c'era mai il tempo per stare a trastullarsi o per essere contemplativi.
E spesso mi esortava ad affrettarmi.
"Muoviti!", "Sbriigati!" - mi diceva - e così via.
Io prendevo tempo e mi mettevo a giocherellare con questo e con quello, mi attardavo, mi distraevo e, senza malizia, in risposta alle sue sollecitazioni, avevo preso l'abitudine di dire una frase stereotipata che la faceva imbestialire.
Mia madre era sempre molto paziente ma, quando questa frase mi usciva dalla bocca, si innervosiva con me davvero tanto e diventava aspra.
La frase fatidica che io dicevo era: "Subito! Un momento!"
La mamma poi cercava di ragionare con me, invitandomi ad essere logico.
E faceva un'analisi semantica delle due parole che mettevo assieme in un'unica frase.
Mi diceva poi: "Non ti rendi conto che queste due parole sono in contraddizione l'una con l'altra? Se dici 'subito' significa 'immediatamente' e non c'è spazio per un 'momento'!".
Logica irreprensibile, per altro.
Per quanto potessi condividere la sua argomentazione, quel fastidioso "Subito!Un momento!", mi scappava sempre, come se fosse divenuto una specie di tic verbale.
Poi, mi è passato.
In seguito, con lei tornavo a rievocare scherzosamente quei tempi e quella frase, specie quando mi chiedeva di fare qualcosa per lei.
E ogni volta ci facevamo una bella risata.
Ma da questa piccola cosa e da tanti altri episodi analoghi ho imparato, grazie a lei, a ragionare sulle parole e a riflettere di continuo sui piccoli paradossi che spesso - senza che ce ne rendiamo conto - infarciscono le nostre affermazioni e ingiunzioni.

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16 ottobre 2013 3 16 /10 /ottobre /2013 11:40

Quei viaggi con la mamma: una stagione felice della mia vitaMi sono ricordato, viaggiando nei giorni scorsi, mi sono ricordato...
C'è stato un periodo, quando avevo tra i 10 e i 13 anni, in cui papà - d'estate - organizzava immancabilmente un viaggio per me e la mamma.
E, così, abbiamo fatto dei grandi viaggi (almeno così furono per me piccolo e ancora non esperto del mondo).
Dunque, viaggiavo con la mamma che, poi, nel corso di ciascun viaggio, pianificava attentamente tutto e che mi dava - per ogni luogo che visitavamo - un sacco di esaurienti e interessanti spiegazioni.
Vivevo queste esperienze come se fossero una cosa naturale e spontanea: forse, senza nemmeno rendermi conto della fortuna che avevo, rispetto a tanti altri della mia stessa età - anche dei miei stessi compagni di scuola - a cui i genitori non offrivano questa opportunità.
Decisamente, ero anche un po' orgoglioso di viaggiare con la mamma, perché mi sentivo un po' come l'ometto di casa, benché fossi ancora un moccioso con i calzoni corti (anche se poi nell'ultimo viaggio che ci trovammo a fare - fu quello a Como e Parigi - si verificò che cambiai voce e avevo già iniziato ad usare i pantaloni lunghi, tipo jeans).
I viaggi erano di solito organizzati così: prima un breve soggiorno in una località italian, dalla quale facevamo escursioni giornaliere a breve raggio e fu così che visitai Como e il suo Lago, Desenzano, Sirmione e Il Lago di Garda, Venezia, Padova, Trieste (dove allora stava lo zio Gigi, fratello della mamma), Napoli e il Vesuvio per citare solo le città principali; e, quindi, in genere dopo una settimana italiana, partivamo per un piccolo tour europeo.
Quei viaggi con la mamma: una stagione felice della mia vitaRicordo di questi giri: un viaggio attraverso la Francia sino a Parigi; un'altro tra Germania (lungo la Valle del Reno), Olanda, Belgio e Lussemburgo; uno in Spagna, dove oltre a Madrid, visitammo tutte le principali ed antiche città che la contornano (Avila, Segovia, Toledo), ma dove anche facemmo tappa a Barcellona.
Furono tutte delle esperienze molto formative: io assorbivo tutto quello che mi raccontava la mamma. E, forse, proprio da queste esperienze nacque il mio gusto per il viaggio.
Ma, nello stesso tempo,
ero asseconddato anche nei miei piccoli desideri.

Per esempio, una volta, entrati in una piccola bottega di rigattiere, trovai, pieno di meraviglia, una quantità inverosimile di libri d'avventura appartenenti ad una collana che era divenuta ormai pressocchè introvabile (la famosa serie brossurata in rosso della Sonzogno, con sovraccoperta in quadricromia e carta tipo pulp) e tanto insistetti con la mamma che li comprammo tutti (il prezzo di ciascun volume era davvero basso), solo che dopo, siccome erano davvero tanti ed erai impensabile trasportarli in valigia, la mamma dovette fare una spedizione postale ad hoc sino a casa.

E poi lei, per anni, usava raccontare questo episodio con una punta di orgoglio perchè mostrava che io, anziché desiderare cose futili, avevo strennuamente lottato per avere quei libri.
Questa mia condizione di sentirmi il "maschietto" accanto alla mamma, mi induceva a fare delle strenue prove di forza, quando dovevamo fare gli spostamenti da un luogo all'altro ed io, senza fiatare, mi caricavo dei due enormi valigioni con con tutte le nostre cose, facendo qeste prove di forza malgrado le proteste delle mamma.
Quei viaggi con la mamma: una stagione felice della mia vitaPoi, con il sopraggiungere della pubertà, non volli più partire con lei. Forse l'ultimo viaggio fu proprio quello a Parigi di cui si possono vedere alcune foto a corredo di questo piccolo amarcord.
Quando papà prese ad organizzare un nuovo viaggio, io dissi che ero ormai grande e che non volevo più partire con la mamma. Mi sarei vergognato - gli dissi - a farmi vedere solo con lei ed essere preso per un mammolino.

E, quindi, la stagione di quei viaggi terminò a quel punto.
Ma posso senz'altro dire che fu una staggione davvero felice della mia vita, e che, se potessi, tornerei volentieri a quegli anni.

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22 agosto 2013 4 22 /08 /agosto /2013 19:45

I razzetti (o aeroplanini) di carta della mia infanzia(Maurizio Crispi) Quando ero piccolo (!), uno dei modi per passare le lunghe sere invernali e per intrattenere noi piccoli era quello di inventare tanti giochi con la carta.
Giochi che, dopo che i grandi, ci avevano mostrato come fare, potevamo riprodurre facilmente.
Per esempio, come ritagliare pupazzetti e altre figure strane.
Oppure, come costruire le barchette di carta, sia quelle semplici, sia quelle più complicate con il fumaiolo, a mo' di piccolo bastimento (per quanto abbia tentato quest'ultima forma non sono mai riuscito a riprodurla).
Ma anche come fare cappelli di carta con i fogli di giornale, come quello conico (riservato agli "asini" soclastici di un tempo) o come quelli che, sempre nello stesso periodo, si facevano i muratori per ripararsi la testa dal sole (un copricapo "usa-e-getta" a costo zero, utilizzando la carta dei giornali vecchi oppure quella spessa giallo-marrone che il fruttivendolo usava per fare i "coppi")..

E così si passavano ore senza mai annoiarsi.
E, poi, naturalmente,come realizzare i razzetti (o aeroplanini) di carta.
E questo era il gioco con la carta riciclabile (o presa illecitamente dai quaderni di scuola) per eccellenza.

A differenza di tutti gli altri giochi che erano un po' come gli "origami" di casa nostra, il cui insegnamento fu appannaggio delle donne, fu mio padre ad insegnarmi come costruirli, partendo dalle forme più semplici a quelle più complicate.
Mi insegnò, poi, qualche piccolo trucchetto per migliorare lo loro aerodinamicità.
Passavamo molto tempo subito dopo pranzo (ma non tutti i giorni) a giocare con questi razzetti nel corridoio della casa di viale Regina Margherita, dove a quel tempo abitavamo.
Ognuno aveva il proprio razzetto e bisognava lanciarlo a turno, cercando di coprire l'intera distanza del corridoio.
Era stupefacente come, a volte, questi razzetti, prendessero delle traiettorie inattese e si librassero in aria come se non dovessero mai cadere.
Ed era una magia starli a guardare, perchè dopo tanti lanci deludente ne veniva fuori per motivi inesplicabili uno davvero portentoso.

Ma poi, inevitabilmente, venivano giù.
Dopo molti voli la punta (o anche il naso) dell'aereo si storceva e occorreva fargli una piccola manuntezione, sino a che la punta si ammollava a tal punto che il razzetto finiva con l'essere inutilizzabile.
Erano ore di gioco spensierato, accompagnate da grandi risate.
Una volta reso autonomo nella loro costruzione, continuai ad esercitarmi da solo, anche fuori i confini di casa.
Spesso e volentieri, lanciavo i razzetti dal balcone verso la strada oppure verso il cortile interno, spinto dalla curiosità di vedere dove potessero arrivare.

In questi casi, sapevo che non avrei più potuto recuperarli: in fondo, erano come navicelle spaziali che spedivo in esplorazione nello spazio profondo.
Insomma, questi erano razzetti "a perdere" e quasi tutti finivano nel giardinetto dei condomini che occupavano la casa a pianterreno (i famosi "Signori Volpes").

Ma nessuno si lamento mai, né io fui mai rimproverato.
In fondo, quello era un innocuo gioco da bambini e, nei confronti dei bambini, c'è sempre una certa indulgenza, purchè non facciano cose pericolose.
E, per me, che da piccolissimo - rivelando in ciò un'indole da precoce Gian Burrasca - tentavo di scagliare fuori dal balcone oggetti pesanti (e ricordo momenti concitati in cui la nonna mi rincorreva per fermarmi), il lancio dei razzetti di carta, era decisamente un progresso.
Poi, un po' più avanti negli anni, prima di smettere del tutto, con i coetanei si facevano delle garette di lancio.
Si badava bene che la punta fosse ben diritta ed aguzza e, poi (chi sa perchè) ci si alitava sopra, forse per riscaldarla, nell'ingenua convinzione che così il razzetto avrebbe volato meglio e più distante di quello degli avversari.
E che dire poi dei piccoli alettoni che si creavano con una ripiegatura delle ali, in modo da rettificare la loro traiettoria oppure per far compiere loro un "giro della morte"?
Quando mio figlio Franci fu piccolo cercai di trasmettergli queste mie competenze, ma la cosa ebbe poca presa.
Era già l'era non solo della televisione a colori, ma anche dei videogiochi... e quei poveri razzetti di carta non potevano più competere con tanta sofisticata tecnologia.

 

A tutto questo ho ripensato, vedendo l'altro giorno un razzetto di carta dismesso, abbandonato sul marciapiedi di Tarling Street.

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31 luglio 2013 3 31 /07 /luglio /2013 21:16

Il nostro trasloco ovvero la Nel 1962 cambiammo casa, trasferendoci da quella di Viale Regina Margherita, dov'ero nato, all'attuale appartamento di Via Lombardia, dove - con delle brevi parentesi - ho vissuto sinora
Questo trasferimento nacque da lontano.
La mamma, previdente, cercava il nuovo appartamento in uno stabile fornito di ascensore e di posto macchina (possibilmente in un garage privato nel piano cantinato che consentisse di accedere direttamente all'ascensore, in modo tale che le uscite e le entrate in casa potessero avvenire per mio fratello in carrozzina senza difficoltà).
Allora, nella costruzione di nuovi edifici condominiali, non si progettava, tenendo conto della necessità di abbattere le barriere architettoniche: qualche cosa nasceva soltato in corso di lavori ad ho, dietro input di qualche acquirente con esigenze speciali e mia madre - da questo punto - fu un'antesignana, perchè sulla base delle sue esperienze personali, aveva perfettamente il concetto di ciò che era una barriera architettonica e dei modi per superarla.
In tutto il periodo in cui fummo nella casa di Viale Regina Margherita, dove eravamo senza ascensore, mio fratello veniva portato a braccia (letteralmente caricato sulle spalle) da mio padre. E ciò con difficoltà sempre maggiori.
Ma mio fratello cresceva e si appensantiva e il suo trasporto da piano terra al primo piano, poteva essere appannaggio di mio padre da solo (rifiutava sempre, categoricamente qualsiasi aiuto) e certamente, la mamma voleva una soluzione in cui anche lei potesse essere del tutto autonoma negli spostamenti di mio fratello.
Dopo molte ricerche riuscì, infine, a trovare le soluzioni migliori tra quelle che avevamo immaginato in un palazzo ancora in corso di costruzione.
E, quindi, i miei genitori si mossero per questa avventura che comportò per loro grandi sacrifici come l'accensione di un mutuo, la cessione del doppio quinto (entrambi gravanti quasi esclusivamente sulla mamma, perchè papà come giornalista freelance in quel periodo aveva degli introiti discontinui) e il dover far fronte alle periodiche scadenze dei pagamenti che il costruttore richiedeva.
La mamma, a distanza di molti anni, mi raccontò che spesso la notte non riusciva a dormire perchè era assillata dalle scadenze.
E, intanto, visto che andavamo in una casa un po' più grande e con esigenze di rappresentanza e di vita sociale (dei miei genitori) che, nel frattempo, si erano fatte più esigenti occorse acquistare nuovi mobili, fare incorniciare dei quadri e, di quel periodo, ricordo interminabili pomeriggi a girare alla ricerca di mobili antichi ed io che mi annoiavo da morire. E poi bisognava pensare a tanti dettagli, come le fonti di luce, le applique nel corridoio ...e così via.
Il nostro trasloco ovvero la Il tutto per costruire anche una casa che avesse, come quelle della buona borghesia colta della città un tocco di raffinatezza ed eleganza.
Ricordo che, una volta, mentre ci muovevamo in un grande capannone - scuro, cupo e maleoodorante -  dell'antiquario Burgio mio padre si imbrattò il piede negli escrementi freschi di un gatto e - permaloso di natura, com'era (un autentico Crispi, come soleva dire mia madre, irridendolo bonariamente) - si innervosì molto per questo fortuito evento, tanto che di lì a poco lo stesso antiquario corpulento con passo strascicato andò a prendere una scopa alquanto malconcia e con quella - in maniera goffa - tentò di pulirgli la scarpa dalla sozzura.
Io mi divertii molto di quell'episodio e poi, frequentemente, lo rievocavo perchè mi era rimasto impresso nella memoria come lo spezzone di una vecchio film delle comiche finali.
E quando lo rievocavo mio padre ogni volta si innervosiva e s'impermalosiva e, naturalmente, questa sua reazione faceva lievitare il mio divertimento alle stelle.
Amplificato da tante rievocazioni, quello rimase un episodio per così dire "mitico" nella storia familiare e paradigmatico della permalosità di papà e della sua scarsa attitudine a partecipare allo scherzo, anche se- in altre circostanze, quando era lui a condurre il gioco - sapeva essere oltremodo ironico.
Il nostro trasloco ovvero la Poi, finalmente la casa fu pronta e venne il momento del trasloco: momento che io, ascoltando, i discorsi dei miei, attendevo con grande eccitazione perchè lo vedevo come un grande cambiamento, ma anche un occasione di avvicinamento a molti dei miei compagni della Scuola Media che abitavano tutti nella zona dove saremmo andati ad abitare.
In contemporanea si trasferiva anche la prozia Irene, per mantenere la disposizione originaria nella case di Viale Regina Margherita: due appartamenti collocati sullo stesso piano e comunicanti tra loro, secondo i desideri della nonna e della prozia che volevano stare sempre in stretto contatto tra loro.
Con molti giorni di anticipo vennero gli operai della ditta di trasporti ad impacchettare in grandi scatoloni i libri (che erano già tantissimi). E questi scatoloni vennero portati via e i libri ammucchiati disordinatamente al centro del grande salone di rappresentanza della casa nuova; mia madre, quando vide quella montagna di cultura accatastata al centro della stanza inorridì, semplicemente, e si disperò.
Fu poi mio padre ad occuparsi della loro sistemazione, ma mia madre non imparò mai il posto dei libri nella nuova casa e doveva spesso chiedere a mio padre oppure a me.
Io imparai rapidamente, ma i miei libri e quelli di mio fratello - già allora tantissimi, comprese le collezioni di fumetti - me li sistemai da me.
Dopo il trasferimento dei libri venne il giorno della "carriata" (parola sicula per dire "trasloco" che prima della motorizzazione, si faceva utilizzando i carri a traino animale) vera e propria e vennero gli operai con le loro scale, con le loro coperte vecchie, con i sacchi di iuta e con tanti scatoloni di cartone (anche se le cose più delicate le aveva già impacchettate la mamma) nei giorni precedenti in un febbrile crescendo di attività. E furono predisposte all'ultimo minuto le valigie per mettere i vestiti e gli effetti personali, le borse con i documenti, i preziosi (scarni) e altri oggetti di valore messe da parte e tenute vicino per essere trasportate di persona.
Il nostro trasloco ovvero la Il trasferimento delle ultime cose rimaste e lo spostamento della Nonna e della Prozia, nonché di mio fratello, avvenne con una precisa pianificazione e quasi fosse un'operazione militare con una sua logistica determinata dalla mente organizzativa della mamma.
La mamma si spostò alla guida dell'unica auto che avevamo a quel tempo.
Io e mio padre - ultimi a lasciare il campo - avremmo seguito con le nostre bici (da poco mio padre mi aveva insegnato ed io spesso lo seguivo in lunghe passeggiate fuori porta)
Fu così che Io e mio padre fummo gli ultimi a lasciare la casa dove io avevo avevo vissuto dalla nascita sino ai miei dodici anni: un'immagine mitica questa di mio padre, come un comandante che è l'ultimo ad abbandonare la nave, dopo essersi assicurato che tutti si sono messi in salvo.
Era una sera di luglio, ma già faceva buio, quando lasciammo Viale Regina Margherita.
Non so per quale motivo mio padre non volle passare dal centro città, scendendo cioè, tra i possibili itinerari, per via Dante, ma volle optare per il percorso indubbiamente più lungo che passava per Piazza Principe di Camporeale-Via Noce- Circollanvallazione (l'odiermo Viale della Regione Siciliana) che allora era una semplice strada a doppia corsia, ma già super-trafficata. E, a quel tempo, non illuminata.
Forse aveva semplicemente voglia di fare un itinerario più lungo, non so.
Sicuramente era energico, perchè pedalava con grande vigore.
Stavo incollato alla sua ruota (io senza illuminazione), con il cuore in gola: ero spaventato da tutto quel buio spezzato dalle lame di luce delle auto e dei camion.
Ma nello stesso affascinato da quella che mi pareva essere un'avventura, un rito di passaggio nella transizione dal vecchio conosciuto (la casa della mia infanzia) al nuovo ancora ignoto (il nuovo appartamento e il nuovo mondo che mi si apriva all'esplorazione) e, certamente, comportante uno sradicamento.
Ma, nello stesso tempo, c'era l'odore sottile della zagara con le sue sottili promesse e c'era quello pungente e resinoso degli aghi di pino che mi avvolgevano e mi seducevano con la loro morbidezza e, direi quasi, con la loro tridimensionalità.
Il nostro trasloco ovvero la Arrivammo alla fine, sani e salvi: riponemmo le bici nel garage nuovo di zecca; salimmo al secondo piano e trovammo già pronta una frugale cena che consumammo tutti assieme semi-accampati e poi, tutti a nanna, a passare la prima notte nella nuova casa in una nuova fase della vita di noi tutti.
Ma io ero così eccitato che non riuscii a dormire granché: avevo voglia che facdesse giorno per vedere la nuova casa alla luce del giorno e per potere cominciare a spacchettare le mie cose.
E questa è la storia della nostra "carriata".
Era l'Estate di vacanza tra la mia II e III media ed io dovevo ancora compiere il mio 12° compleanno.
Credo senz'altro di poter dire, se dovessi annotare un punto di discrimine, che proprio lì ebbe inizio la mia adolescenza.

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15 luglio 2013 1 15 /07 /luglio /2013 09:33

Libri e segreti(Maurizio Crispi) Tornando a casa dopo un'assenza, trovo, inaspettatamente, tante persone e una grande confusione
A quanto pare, un elettricista sta lavorando all'impianto elettrico

Cado dalle nuvole

Chiedo cosa stia succedendo e mi dicono che, a causa di un problema urgente si sono dovuti avviare questi lavori
Tutto è sottosopra. I mobili sono stati spostati. I libri rimossi. Tutte le miserie e i vezzi di una vita trascorsa in questa casa sono stati impietosamente messi a nudo, mentre degli strati archeologici e dimenticati sono riemersi
Mi sembra che tutto abbia un aspetto diverso
Tutte le persone intervenute (alcune che non vedo da tempo) sono sedute e chiacchierano amabilmente
I libri rimossi dalle scaffalature sono stati accatastati sul balcone
Mi precipito fuori, gridando e sbraitando
"Ma come è possibile? Cosa avete fatto? I miei poveri libri! Sta per iniziare a piovere! Aiutatemi a portarli dentro casa! Si rovineranno!"
Ma nessuno si muove
Ed io comincio ad affannarmi, ma assieme ai libri ci sono anche delle cianfrusaglie delle quali non ricordavo l'esistenza che attraggono la mia attenzione (diventando dei veri e propri "reperti", ognuno dei quali ha una sua storia da ricostruire) e che mi distolgono da quello che sento essere il mio compito primario che è quello di mettere in salvo i miei amati libri
Tra i libri ci sono anche delle cose vecchissime, tra le quali degli enormi volumi rilegati con annate intere della rivista "Epoca" e "Arianna" che i miei compravano regolarmente e che, all'inizio del nuovo anno, facevano rilegare, ma poi - per problemi di spazio - smisero. E ricordo che quegli enormi volumi io adoravo sfogliarli, soffermandomi ad odorare il misto ineffabile di odori della carta patinata e della colla da rilegatoria
Ma ora - nella vita vera - quei volumi sono giù in garage.
Sia come sia, a poco a poco, riesco a mettere i libri al sicuro, anche se l'ingombro è davvero tanto ed è tutto sottosopra
E intanto continuano i lavori da parte degli operai, mentre gli invasori proseguono nelle loro amabili conversazioni: il tutto in una dimensione di allegro caos che però non genera alcuna stella danzante

Più avanti sto seguendo una seduta di psicoterapia che vede un bimbo piuttosto piccolo come paziente. Io sono presente come uditore, mentre due giovani psicoterapeute in formazione conducono la sedute
Presente anche, comodamente sdraiato di tre quarti su di un lettino da psicoanalisi nello stile di quello usato da Freud, anche il mio analista e didatta,  Francesco Corrao.
Io sono seduto un po' alla periferia della stanza e, sopra la mia testa, incombe una piccola scaffalatura di libri
Con il capo rovesciato verso l'alto vado prendendo questo o quel libro, ma poi non riesco a metterli al loro posto e, mentre maldestramente, tentavo di ricollocare i volumi al proprio posto mi sentivo puntato addosso lo sguardo di Corrao

Un'angoscia che mi riporta ai tempi della mia analisi personale, quando stavo seduto nel salottino adiacente alla stanza della terapia e osservavo quella quantità incredibile di volumi, ordinatamente collocati in una libreria che andava dal pavimento al tetto: ricordo che, durante l'attesa che a volte si portraeva per interminabili minuti, stavo a guardare il dorso di tutti quei volumi, cercando di leggerne il titolo: avrei voluto alzarmi e prenderne qualcuno in mano, per sfogliarlo e carpirne i segreti, ma non lo feci mai. Questa semplice azione rimase per tutta la durata dell'analisi al livello di semplice e bruciante desiderio
Una volta vidi sporgere dalle pagine di una rivista un foglio che recava scritte delle frasi  vergate a mano, e pensai che un/a paziente che mi aveva preceduto avesse voluto lasciare un proprio "messaggio nella bottiglia", ma quest'azione puramente immaginata mi sembrò allora una "profanazione" di uno spazio quasi sacrale e, in seduta, nemmeno ne parlai.

In un'altra parte del sogno, un mio segreto compromettente sta per essere rilevato
Ho fatto dei passi falsi e ho lasciato dietro di me tracce ed indizi
Ho in mano una busta dal contenuto compromettente e vorrei liberarmene
Penso di andare in Polizia o dai Carabinieri a denunciare che ho ricevuto questa busta in un ufficio postale in cui sono esplose delle bombe e che, pertanto, temo che anche dentro il plico che mi è stato consegnato possa esserci del materiale esplosivo
Ma, poi, penso di essere del tutto fuori di testa
Rifletto bene al fatto che, dovunque io vada, poi aprirebbero la busta per verificare se la mia teoria sia vera, per poi ricondurre tutto il materiale all'interno a me
E la frittata sarebbe fatta. Sarei per sempre compromesso. Io steso probabilmente sarei considerato un pericoloso terrorista
Che fare?

Dopo aver fatto questo sogno (o questi sogni) ho pensato a me, quando ero piccolo, ai miei genitori.
Penso che i genitori di rado parlino con i propri figlio.

Loro, il più delle volte, sono chiamati ad agire, a fare delle cose, cercando di comportarsi nella maniera che sia il più possibile giusta.

Non ricordo di aver fatto mai dei discorsi particolarmente profondi con uno o con l'altro dei miei genitori, nell'età della ragione.

Mi ricordo di cose fatte assieme, questo sì, oppure di cose mancate, di momenti in cui ci sono stati un allontanamento e la creazione di una distanza.
Per una parte della nostra vita siamo impegnati a distanziarci e a differenziarci dai nostri genitori.
Per esempio, quando ero ragazzino non sopportavo che dovessi venire identificato come il "figlio di Ciccio Crispi".
Volevo essere identificato per quello che ero e, tuttavia, non conoscevo quale fosse la strada per diventare un'entità autonoma, conquistando una mia identità differenziata, unica, originale.
Spinti da questo bisogno di differenzaizione ci allontaniamo e, poi, va a finire che ci siamo allontanati così tanto che una nuova convergenza su basi diverse è impossibile, finche i nostri genitori sono in vita.

Poi, quando non ci sono più, delle convergenze inaspettamente si verificano: noi, in qualche modo, diventiamo loro.

Ma loro non ci sono più: e non è più possibile parlare con loro, intavolando un discorso, se non in una maniera puramente immaginaria.

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12 giugno 2013 3 12 /06 /giugno /2013 16:22

Il cucchiaoine della prozia IreneQuando ero piccolo...
Ecco il solito incipit per introdurre dei ricordi d'infanzia.

 

La prozia Irene (sorella della nonna materna) viveva da sempre nell'appartamento accanto al nostro.
Lei che non aveva avuto figli era affezionatissima a tutti noi e alla nonna, un po' più piccola d'età rispetto a lei.
La prozia Irene da che era rimasta vedova aveva sempre vestito di nero ed è così che io la ricordo: in nero, non grassa, e con i capelli candidi.
Potrei raccontare su di lei e sulle monellerie che io architettavo in cui lei era in qualche modo coinvolta tante storie, ma ognuna meriterebbe uno spazio a sé stante.

La prozia Irene era affezionata in modo speciale a mio fratello, a cui dedicava molto tempo e delle attenzioni particolari: lo aiutava a disegnare e gli leggeva delle storie.
E gli faceva di frequente dei piccoli regali.
Negli ultimi anni della sua vita era un po' svanita di testa, ma in modo innocuo.
Spesso entrava a casa nostra (i due appartamenti erano comunicanti) e, specie quando non c'era nessuno (la nonna era già morta) veniva a rovistare nel nostro frigofero, cercando chi sa cosa.
E, poi, dopo averlo fatto, se ne tornava a casa. Per poi tornare a fare qualche nuova incursione. Oppure vagava per le stanze del nostro appartamento, cercando qualcosa che forse passava nella sua mente come un ombra che vi si travasava dal serbatoio dei suoi ricordi.
Una volta, proprio nei suoi ultimi anni (morì quasi centenaria) regalò a mio fratello un grosso cucchiaio: un dono incongruo e che non aveva logica alcuna.
Io però trovai molto divertente l'idea del cucchiaio che, malgrado il mio apprezzamento, rimase per qualche tempo accantonato, anche perchè era decisamente  fuori misura, ben più grande di un semplice cucchiaio da minestra.
In quel periodo, mio fratello soffriva di una forma di gastrite e il medico aveva prescritto che la sera mangiasse abbondante mela cotta.
Segretamente, quando i miei uscivano la sera per andare a teatro, io nutrivo mio fratello con il cucchiaione regalato dalla prozia Irene, che per essere maneggiato, in considerazione della lunghezza eccezionale, richiedeva di mantenere delle distanze opportune.
E lo utilizzavo soprattutto per fargli mangiare proprio quella mela cotta.
Inutile dire che tutti e due, all'insaputa di papà e mamma, ci divertivamo da matti.


E perchè mi è venuto in mente questo piccolo ricordo? Semplice! L'altra sera io e mio fratello abbiamo mangiato dell'ottima mela cotta!

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30 aprile 2013 2 30 /04 /aprile /2013 13:54

Le capanne di Mondello e la famiglia dei Quando ero piccolo - e poi per molti anni ancora - d'estate avevamo la capanna a Mondello, la ben nota spiaggia di Palermo.

Ogni anno, con il dovuto anticipo, occorreva andare alla sede della Società italo-Belga per vergare il contratto stagionale e per versare la caparra.

Le capanne delle spiaggia di Mondello erano divise per "censo", da quelle extralusso posizionate nel tratto tra il Circolo Canottieri Roggero di Lauria e il Baretto che erano disposte in fila unica, frontale rispetto al mare, e dotate del famoso "terrazzino", a quelle "medie" che erano disposte in cortili molto ampi, pure dotate di terrazzino, per arrivare a quelle disposte in "cortili" piuttosto stretti e senza terrazzino.

La Società Italo-Belga con questa disposizione topografica, e variando opportunamente la morfologia" delle capanne aveva trovato la formula perfetta per mantenere una divisione per classi anche nel contesto balneare. 

Non dobbiamo dimenticarci, peraltro, che a Mondello, un tempo, per quanto concerne la tipologia dei suoi frequentatori abituali non si scendeva sino al livello veramente "popolare", dal momento che sino agli anni Sessanta, la destinazione dei "ceti" veramente popolari era il litorale di Romagnolo. E, in più, possiamo anche dire che le vacanze al mare sono state inventate in tutta Europa solo all'inizio del Novecento e che, proprio per questo motivo, per lungo tempo, andare al mare é rimasta una cosa d'élite e propria delle persone culturalmente più evolute.

Poi, naturalmente con la motorizzazione si è verificato il livellamento di massa e Mondello - come tanti altri posti balneari - nel clou dei mesi estivi è diventata veramente di tutti.

Ma - per quanto negli ultimi anni la Società Italo-Belga abbia cercato di ammodernarsi, differenziando l'offerta con parti della spiaggia destinate a locatari giornalieri che si limitano ad affittare ombrellone e sdraio - quell'uso delle capanne come luogo di bivacco dalla mattina alla sera è rimasto immutato, con gli immancabili pantagruelici banchetti sulla spiaggia a base di pasta l forno, di arancine e di altri intingoli, sino a tarda ora o a volte financo dopo il tramonto.

Le capanne di Mondello e la famiglia dei In ogni caso, le capanne anche allora erano costose: e noi avevamo una capanna nella zona intermedia, pressappoco all'altezza dell'attuale Commissariato di Polizia.

Prima che arrivassero i miei cugini dalla Sardegna (e da allora avemmo la capanna assieme a loro) era consuetudine cercare dei co-locatari, per dividere la spesa.

Fu così che la mamma, un anno, fece ritorno dagli uffici della Società (era sua l'incombenza di occuparsi di queste faccende), annunciando che nella prossima stagione avremmo diviso la capanna con la famiglia Gattoni.

Quando sentii questa notizia, fui eccitatissimo della novità, ma non dissi nulla a nessuno, pur iniziando a fantasticare attorno a questi misteriosi "gattoni".

Poi, nel corso del tempo, ci furono sicuramente durante le conversazioni tra gli adulti numerosi accenni alla misteriosa famiglia dei "gattoni". E, di quando in quando, la mamma e mio padre si interrogavano su come sarebbero stati questi "gattoni" come compagni di capanna. Io orecchiavo le loro conversazioni e questi accenni facevano vieppiù galoppare la mia fantasia.

Sia come sia, arrivò il tempo dell'inaugurazione della stagione balneare e, con armi e bagagli, andammo al mare per la prima volta.

Io a quel tempo dovevo avere quattro o cinque anni.
La mamma mi raccontava spesso che appena arrivato, anzichè cominciare a fare i miei giochi preferiti, io cominciai a cercare e a guardare in giro, instancabilmente. Entravo ed usciva dalla capanna, guardavo nei piccoli spazi dietro la cabina, sbirciavo da ogni parte, spostavo l esdraio addossate alle pareti e rimestavo in giro, mostrando una delusione via via crescente.

Ad un certo la mamma mi chiese: "Ma cosa stai cercando, Maurizietto?"

Ed io le risposi: "Ma mamma mi avevi detto che quest'anno ci sarebbero stati i gattoni. Ed io non vedo nessun gattone!"

E, naturalmente, a questa mia risposta fece segue l'immancabile coro di risate da parte degli adulti presenti.

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30 aprile 2013 2 30 /04 /aprile /2013 00:06

Mamma, mamma, guarda la buttana!Da piccolo coniavo spesso dei neologismi, talvolta per similitudine a partire dal processo di formazione di altre parole note.
Questa consuetudine, a volte, poteva provocare un certo imbarazzo, poichè ciò che io credev,o esprimesse un certo significato, invece ne possedeva un altro, magari anche sconveniente.

Una volta al mare ero intento a "buttare" sassi in acqua e ad ogni lanco ero sempre più sovraeccitato e compiaciuto.
E ad un certo punto, desiderando catturare l'attenzione della mamma, cominciai a gridare eccitato: "Mamma, mamma, guarda la buttana!", estrapolando un ipotetico sostantivo dal verbo "buttare".
La mamma, sentendosi imbarazzata (e da più grande, di questo imbarazzo, avrei potuto comprendere il perchè), prese a dirmi con voce suadente: "No, Maurizio, guarda che si dice lanciana, non buttana!", ma ovviamente senza spiegarmi perchè non potessi usare liberamente e con disinvoltura la parola "buttana".
 

 

Ma è rimarchevole il fatto che la mamma in quella circostanza abbia trovato il modo di correggere il mio mal detto, con un'altra espressione che, nello stesso, non tarpava le ali alla mia creatività lessicale. Quindi, anzichè, dirmi di usare tout court la parola "lancio", mi suggerì la parola "lancia-na", dando in qualche modo una validazione al mio neologismo (o quantomeno alla sua logica interna), addirittura proponendomi di esso un sinonimo costruito secondo un analogo meccanismo.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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