Tempo addietro ebbi un incidente con la bici.
Venivo dall'aver fatto un lungo circuito: da Palermo ero salito sino a Gibilrossa e quindi, passando da Belmonte Mezzagno, ero sceso dal lato di Altofonte.
Ero partito una domenica mattina abbastanza presto, facendo base da Via Lombardia, dove, nel box-cantinato che ho tuttora tenevo (e tengo) bici ed altre attrezzature.
In quegli anni, da sposato, invece abitavo in Piazza Europa (a meno di due chilometri).
Allora (e siamo all'inizio del 1995) con la bici andavo ancora bene, perchè nei due anni precedenti avevo preso parte a delle gare di Triahtlon (sia spirnt, sia sulle distanze olimpiche).
Insomma, rientrando in città e sentendo una certa fame, meditavo di fermarmi a "La Romanella" (che, a Palermo, tutti conoscono) per mangiare un pezzo di rosticceria.
Questo è esattamente quello che pensavo mentre pedalavo, avvicinandomi verso via Notarbartolo.
[Ma a questo punto, dissolvenza e buio]
Mi sono ritrovato nella casa di via Lombardia, in tenuta da sport: giravo per casa, confuso e stordito, mi affancedavo senza concludere nulla e non riuscivo a ricordarmi cosa stessi facendo lì e cosa avessi fatto sino a prima.
La casa era in penombra... Credo di aver fatto delle telefonate, avvolto com'ero in una specie di nebbia.
Ma non so a chi.
Mi sono accorto, con una certa inquietudine (come potete immaginare) di avere le mani insanguinate.
Mi sono chiesto: Cosa è successo? Ho picchiato qualcuno?
Poi, dopo un po' la mia mente ha cominciato a schiarirsi.
E mi sento ricordato che stavo facendo un allenamento con la bici e che, anzi, ero vicino alla sua conclusione.
L'ultimo pensiero che ricordavo di aver fatto è stato proprio quello: quell'acuto desiderio di mangiare un pezzo di rosticceria a La Romanella.
Sono sceso giù nel box e lì ho visto la bici messa ordinatamente nella sua rastrelliera, le scarpette da bici altrettanto ordinatamente allineate.
Tutto a posto: dunque, stavo facendo un'allineamento con la bici ed ero arrivato sino a casa.
E avevo anche sistemato tutto.
E, allora, perchè mai non ricordavo nulla dal momento in cui avevo pensato che volevo mangiare quel pezzo di rosticceria sino a quando ero arrivato nell'appartamento?
Già, perchè? Cosa mi era successo?
Guardando il caschetto (che indossavo sempre durante gli allenamenti) ho notato chein un punto era schizzato di qualche goccia di sangue e che il suo bordo bianco (in polistirolo) presentava una scanalatura abbastanza profonda, come se fosse stato colpito da qualcosa di tagliente e di duro.
Mi sono reso conto che cercavo di mettere assieme i pezzi di un puzzle, ma che - nello stesso tempo - mancava qualche parte essenziale per comporre una figura coerente.
Sono risalito su a casa (che allora utilizzavo come studio professionale ed anche come luogo di meditazione e come mio spazio personale) e ho telefonato alla mia ex moglie, per dire ... Cosa?
Non mi ricordo bene... Dissi forse che mi sentivo stanco dopo l'allenamento e che indugiavo un altro po' prima di tornare a casa: anche di questa conversazione ho poca memoria.
Mi guardai allo specchio e mi son reso conto che avevo una piccola lacerazione, non più sanguinante, sull'arcata sopraciliare di sinistra, poco più che un graffio.
Che le nocche delle dita fossero abrase lo avevo già scoperto da prima: ma il sangue che avevo sulle mani veniva presumibilmente da quel taglio sulla fronte.
Poco dopo, feci ritorno alla casa coniugale...
E mi distesi sul divano: mi sentivo devole e astenico, un po' sonnacchioso.
Passai l'intero pomeriggio così, entrando nel sonno e uscendone...
Poi, arrivò mio cugino Gianfranco - cosa insolita che venisse in visita - si sedette accanto a me, mi chiese come stavo...
E raccontò quello che era accaduto.
Lui era a poco distanza dall'incrocio subito dopo "La Romanella", dove c'è la pompa di benzina della ESSO (credo che sia l'incrocio tra la via Rapisardi e Via Leopardi).
Mi vide arrivare da lontano a quell'incrocio e tirare dritto: senonchè un'auto che veniva da via Rapisardi e attraversava via Leopardi, non mi diede la procedenza e mi speronò.
Gianfranco mi disse che, con tutta la bici, fui catapultato in aria e che feci un volo di alcuni metri, per cadere proprio sul bordo del mariciapiedi con cui termina lo spazio occupato dalla pompa di benzina.
Aggiunse che, dopo un attimo, mi rialzai e che, da lontano, pareva che fossi del tutto lucido e coerente.
L'automobilista investitore mi si fece vicino - così descrisse quest'ultima sequenza - e ci fu tra me e lui un fitto scambio di frasi e di gesti.
A quanto pare - così sembrava da lontano - pareva che mi stesse chiedendo se avessi bisogno di qualcosa o se volessi essere portato in ospedale.
Io, a gesti, dissi che era tutto a posto, inforcai la bici che non si era per nulla danneggiata e mi incamminai nella direzione di casa.
Mi fa strano tuttora parlare di questo fatto. Perchè questo racconto che mi riguarda, in realtà, è come se non mi appartenesse.
Mi manca del tutto quel pezzetto di vita.
Ogni volta che passo da quel luogo, anche adesso, penso all''incidente occorsomi e ci penso con la dinamica degli accadimeni, secondo il racconto di mio cugino.
Ma io continuo a non trovare nella mia memoria la benchè minima traccia di questo segmento temporale: come se ci fosse un buco al posto di un pieno.
I miei ricordi "reali" cessano con il pensiero di mangiare un pezzo di rosticceria e riprendono con l'essermi accorto di avere le mani insanguinate.
Quello che mi accadde fu un classico caso di amnesia retro-anterograda di tipo traumatico (commotivo, presumibilmente), comprendente un arco di tempo che, per me, si estende per 30 o 45 minuti in cui sono accaduti fatti che non sono mai stati impressi nella mia memoria.
Per completare la storia, il giorno dopo, solertemente, andai al lavoro.
Raccontai dell'accaduto alla signora che, nel servizio, svolgeva il lavoro amministrativo.
E lei mi disse: "Dottore Crispi, ma perchè non va a farsi refertare al pronto soccorso?".
Già, pensai io, la prudenza non è mai troppa. E' quello che direi io stesso, come medico, ad uno che ha subito un trauma cranico..."
Ma noi medici - si sa - siamo pessimi medici di noi stessi.
Ed io ci andai.
Il collega dell'Area di Emergenza dell'Ospedale Villa Sofia (ma allora si chiamava ancora "Pronto Soccorso") a cui raccontai l'accaduto mi visitò, mi fece fare una TAC d'urgenza e, poi, senza che io gli avessi chiesto nulla, mi prescrisse 30 giorni di riposo a casa.
Insperati.
In quel periodo, per vari motivi, ero stressato, sotto pressione, ed io quei giorni di malattia non previsti (e quasi caduti dall'alto) li accettai come una manna dal cielo.
Ho pensato a lungo a quell'incidente e al contesto della mia vita in cui avvenne.
Nulla mi leva dalla testa che, in qualche modo, fosse correlato con il mio stato d'animo di quel periodo (forse complicato da inconfessate venature depressive). Mi rendo conto che avrei potuto anche morire o riportare gravi conseguenze.
E non oso nemmeno immaginare cosa sarebbe accaduto se non avessi indossato il casco protettivo: quell'incisura sul bordo parlava molto chiaro.
in fondo me la cavai soltanto con quel vuoto di memoria che ancora oggi mi porto appresso.
Nulla accade mai per caso.
Tutto è fatidico.