Si arrivava in genere per nave, essendo partiti nel tardo pomeriggio dal Pireo, alle prime luci dell'alba.
Si metteva piede a terra e ci si doveva inerpicare su per una ripida strada sino al centro abitato. Non ricordo che ci fossero taxi o bus, allora, se non un servizio rudimentale di trasporto dei bagagli per chi non avesse lo zaino, a dorso di mulo.
Infatti, c'erano i muli "parcheggiati" all'inizio della strada (simile a quella che conduce al santuario di Santa Rosalia, per intenderci) e vicino a loro i mulattieri che si proponevano per il loro servizio. I più affaticati potevano anche essere trasportati sul mulo.
Vedere tutto ciò all'arrivo, alle prime brume dell'alba, sembrava riportare all'indietro l'orologio del tempo, rispetto al luogo da dove si veniva...
Il mio viaggio a Santorini avvenne nella tarda estate del 1990.
Fu come tante cose che feci in quegli anni il risultato d'una decisione d'impeto.
Perchè scelsi di andare proprio a Santorini?
Non saprei.
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Forse - pochi mesi prima - mi era capitato di leggere un breve romanzo di Henry Miller ambientato nelle isole dell'Egeo (Il Colosso di Marussi) anche se dei diversi luoghi citati non si parla affatto di Thira.
Forse, nel mio animo riecheggiavano anche altre letture, tra cui Il mago di John Fowles che vede come sua ambientazione principale una piccola isola greca, ma per certo ebbe un notevole peso in questa mia decisione il riecheggiare di un viaggio effettuato alcuni anni prima in assetto familiare e che ci portò anche ad esplorare l'isola di Creta e la regia di Cnosso.
Molte e tante furono dunque le suggestioni che mi indussero a pensare a Satorini, come mia meta di viaggio, una scelta che fu di sicuro molto poco riflessiva e guidata dalla pancia, per così dire, oltre che dal desiderio di confrontarmi con un luogo in qualche misura mitico e dotato di grande fascino
Fu una vacanza di circa 15 giorni.
Ero allora nel pieno della mia preparazione per la partecipazione ad una maratona (forse avevo in programma la maratona di Berlino nel settembre successivo).
Quindi andai, fermamente deciso ad unire assieme lo sport e il turismo, realizzando al contempo uno stacco in solitudine da realtà controverse, conflittuali, nelle quali mi sentivo ancora dolorosamente immerso.
Cosa ricordo della mia vacanza a Santorini?
Innanzitutto il primo impatto con una natura selvaggia ed ostica, pietra lavica dovunque, nera e scura, in taluni punti rossastra.
Un'enorme mezzaluna di roccia vulcanica che racchiudeva un ampia laguna al cui centro si stagliava un isolotto brullo (Nea Kameni) che era quel che rimaneva dell'antico cratere vulcanico.
Al di là, altri isolotti nerastri racchiudenti l'orizzonte e che contribuivano a chiudere, per quanto con dei segmenti spezzati un vastissimo cerchio attorno all'isolotto centrale; di questi il più ampio è Therasia.
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L'isola principale che è Thira e quelle perimetrali - queste ultime scarsamente abitate - rappresentano ciò che rimane di una vastissima caldera, dopo un'immensa esplosione eruttiva che portò una parte degli ampi terreni che costituivano un'isola ben più grande dell'attuale (di forma grosso modo circolare) ad inabissarsi nel mare.
Forse proprio da quest'evento catastrofico che si verificò nel XVI secolo AC e che, secondo gli storici antichi fece oscurare il sole per via delle polveri vulcaniche sollevate nell'atmosfera, si originato il mito del continente sommerso di Atlantide.
Appena arrivato, mi resi conto che per girare l'isola occorreva un mezzo e fu così che, sin dal primo giorno (arrivai in nave alle prime luci dell'alba), affittai una scassata motorella, ma tuttavia sufficiente a portarmi in giro da un capo all'altro dell'isola principale.
Le mie giornate presero rapidamente un ritmo ben preciso.
La mattina presto mi dedicavo all'allenamento di corsa e, per l'esattezza, correvo per circa venti chilometri al giorno, raggiungendo ogni volta l'estremità della mezzaluna e tornando indietro, un giorno andando in una direzione e il giorno successivo nell'altra.
Per arrivare all'estremità partendo sempre dal centro abitato principale che si trovava a metà circa della mezzaluna c'era una distanza di circa 10 km: quindi erano, ogni volta,10 km all'andata e dieci al ritorno: a giorni alterni, sempre correndo sulla stessa distanza, facevo dei lavori specifici, seguendo un piano di allenamento che un mio amico aveva predisposto per me.
Mentre correvo, pensavo e riflettevo, riempendomi la testa di un distillato di emozioni e sensazioni per il fatto di trovarmi lì in quell'isola in cui sembrava che si unissero le forze primordiali dell'acqua e del fuoco.
Tornato dalla corsa e dopo una breve seduta di ginnastica e stretching (e spesso con una pausa di lettura e di aggiornamento della mia agenda) me ne partivo in esplorazione con la motorella e andavo girando per l'isola minuziosamente senza lasciare che una singola parte di essa mi sfuggisse, peraltro guidato da ciò che avevo visto e osservato durante le mie corse quotidiane e che aveva attivato la mia curiosità.
A volta, sì, andavo anche al mare, mi mettevo in costume, me ne stavo al sole o sulla riva delle spiaggia sabbiose di bigia sabbia vulcanica che si trovavano tutte sul lato esterno dell'isola, decisamente più morbido e digradante, ma per me era più importante esplorare, e direi quasi "bere" - sino ad inebriarmene - l'atmosfera dell'isola, fermarmi nei punti più panoramici ad osservare, oppure sedermi in piccoli caffè ad osservare la gente.
La gente! Si c'era tantissima gente, di ogni nazionalità, in centinaia e centinaia, se non in migliaia, alcuni sbarcavano soltanto per poche ore o rimanevano per pochissimi giorni, altri erano più stanziali. Gli autoctoni quasi scomparivano di fronte alla numerosità degli stranieri.
Tantissimi gli americani e i tedeschi.
Il pregio dell'isola, tuttavia, risiedeva anche nel fatto che, essendo molto grande, durante il giorno tutti si disperdevano in giro qua e là.
Soltanto la sera si acquisiva la consapevolezza della compattezza e della vastità di queste falangi di turisti in massima parte e di viaggiatori veri (solo una minoranza), poiché andava a finire che tutti si ritrovavano nelle piazze principali del borgo abitato principale (Thira) e della cittadina abbarbicata ancora più in alto sul costone della montagna (Imerovigli).
Imerovigli era più frequentata per i suoi deliziosi piccoli caffè che consentivano a chi si sedesse a quei tavoli in portici ombreggiati di far spaziare lo sguardo verso il centro della caldera, dove sovente in corrispondenza di Thira stava ormeggiata una grande nave da crociera o da dove partivano imbarcazioni più piccole per escursioni verso Nea Kameni oppure Therasia.
Thira (o Santorini), invece, era più frequentata di sera dove frotte di gente si muovevano chiassose per consumare dei pasti raffazzonati presso numerose bettole fumose allestite al centro delle strade e protette da rozzi ripari di tela grezza, oppure alla ricerca di piccoli ristoranti un po' più raffinati.
Io mi limitavo alle bettole, sia perchè non volevo spendere troppo, sia perché adoro il cibo che vi si ritrova (molto simile al nostro cibo da strada), dove è possibile sempre un'ampia scelta di cibi gustosi e speziati (a partire dai souvlaki, sino agli involtini di riso e carne il cui esterno è fatto di foglie di vite (dolmades), passando dalla moussakà e dai peperoni o pomodori ripieni (Gemistà), buonissimi, per quanto indigesti) da innaffiare con birra oppure con l'onnipresente retsina.
Ogni tanto arrivava un violento acquazzone serale determinando un fuggi fuggi generale e il cibo mezzo mangiato rimaneva abbandonato sui tavoli, in piatti frugali di ceramica povera semiallagati.
Come di giorno ero determinato a perseguire il mio allenamento (i famosi 20 km), così di sera vagavo oziosamente, lasciandomi trascinare dalla folla, andando dove mi portava il vento, ma non indugiavo mai in queste peregrinazioni da flaneur oltre una certa ora, poiché dovevo essere pronto il giorno dopo per il mio allenamento da stakanovista.
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Vivevo tutto come trasognato, devo dire, senza mai stabilire relazioni di nessun genere con altri, o almeno molto di rado.
Stavo molto sulle mie. Osservavo, guardavo, registravo dettagli nella mia mente.
Non ero interessato alla dimensione interpersonale. Non c'era spazio per altre persone con cui interfacciarmi; fondamentalmente, ero intento a risanare le mie ferite. Ero forse come un guaritore ferito.
Forse, ero più focalizzato sulla mia interiorità sofferente, ma ciò nondimeno aperta alla meraviglia.
Ricordo che, in quei giorni, scrivevo molto nella mia agenda e in foglietti volanti che avevo con me, cercando di catturare i miei stati d'animo, anche i più volatili, e i miei sogni: cercando di tradurre in parole e frasi i colori, i suoni, gli odori e tutte le altre sensazioni che mi attraversavano nell'intera gamma delle loro sfumature.
Leggevo anche, ma non ricordo proprio quali libri mi fossi portato da leggere in quei giorni: su questo aspetto c'è il buio più totale, a differenza di altri viaggi che ho compiuto nella mia vita, nel ricordo di ciascuno dei quali campeggia un libro (talvolta due) che hanno lasciato il segno dentro di me, integrandosi perfettamente nel mio ritmo interiore e nella meraviglia della scoperta.
Facevo anche cose da turista. Un giorno andai a visitare gli scavi archeologici dell'isola, in un sito dove è stata scoperta un'intera città che rimase sepolta sotto le ceneri della grande eruzione vulcanica che decretò la scomparsa della evoluta città (ed isola di Santorini), una sorta Pompei, insomma.
Poi, partecipai anche ad una gita organizzata che portava i partecipanti per mezzo di una semplice imbarcazione a Nea Kameni e forse anche a Therasia (ma adesso non ricordo bene): vedo nella mia mente un'immagine di tanti che camminavano in fila lungo un brullo crinale di pietre vulcaniche e poi mi sovviene ancora sul punto più altro di Nea Kameni il ricordo di un grosso masso di ossidiana (che debitamente fotografai) sulla cui superficie liscia una mano ignota aveva vergato in grandi caratteri a stampatello quest'esortazione: "Make love slowly" che mi lascio incantato, per quanto malinconico, poiché in quel momento non avevo riserve d'amore da poter dare e niente amore del tutto da ricevere (e l'amore, in quanto sesso, non lo facevo nè rapido, nè lento).
In fondo ero solo nell'intero universo. un corridore solitario - a volte un camminatore - sperso nel bel mezzo di infiniti campi di lava e, giorno dopo giorno, la sedimentazione del sommarsi di queste impressioni, emozioni e sensazioni, mi porto a scrivere un lungo racconto in cui si narrava di uno che instancabilmente correva in una corsa solitaria, infinita e interminabile.
Ero inebriato da ciò che vedevo.
Densi contrasti cromatici
Il nero o il rosso della pietra lavica
Il bianco abbacinante delle pareti delle case ricoperte da intonaci grossolani
L'azzurro delle cupolette soprastanti le unità abitative e delle cupole ben più grandi delle chiese costruite nei luoghi più elevati dell'isola, attorno alle quali le casette si addensavano come greggi di pecorelle.
E poi ancora l'azzurro dei tetti e degli scuri delle finestrelle che si intonava perfettamente con l'azzurro del mare e del cielo.
C'era da ubriacarsi di sensazioni ed emozioni. E ogni giorno bevevo avidamente da questo calice che il luogo mi offriva
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Un giorno, andavo sulla mia motorella (forse proprio nel giorno in cui feci l'escursione al sito degli scavi archeologici) e vidi che una tizia (una turista) camminava sulla strada sconnessa e polveroso, borsa a tracolla e un berrettino che le copriva solo parzialmente dei lunghi capelli). Quando fui alla sua altezza mi fermai e le chiesi dove stesse andando e se volesse un passaggio. Ci intendemmo alla perfezione poiché parlava inglese (era americana, come scoprii in seguito)
Mi disse che stava andando proprio dove ero diretto io
Le dissi di montare in sella che saremmo andati assieme.
E da lì partì una giornata fantastica di esplorazioni e di conversazioni
Forse capitò anche che andassimo al mare assieme (ma adesso questo dettaglio non lo ricordo bene).
Forse ci furono anche lievi conversazioni in cui scoprimmo di avere delle affinità. Era una psicologa statunitense e lavorava ad un progetto di studio sulle personalità borderline, mi disse.
E io ero psichiatra. Eccellente sintonia, anche su questi aspetti. Ma non parlammo solo di questo.
Parlammo di ciò che vedevamo e di ciò che ci colpiva.
Era una conversazione disincantata come solo può accadere tra due persone di sesso diverso che, incontrandosi, accantonano sin da subito qualsiasi intento di reciproca seduttività o semplicemente non ci pensano.
Riguardando indietro a quell'incontro, devo dire che quella che mi capitò di incontrare era una giovane donna carina, se non addirittura bella, oltre che intelligente e di gradevole conversazione.
Eppure quell'incontro non portò a nulla: al termine della giornata trascorsa assieme con grande diletto ci separammo. Forse ci scambiammo i rispettivi indirizzi al fine che io le potessi inviare copie delle foto che avevo scattato. Ma non saprei dire se lo feci veramente. In ogni caso, quell'indirizzo, se mai l'ho avuto, l'ho smarrito.
Ci separammo e fu un incontro conchiuso in se stesso. Io ero troppo oberato dalle mie vicissitudini di vita dalle quali desideravo soltanto di potermi disintossicare per potere pensare ad altro.
Non ci incrociammo più durante il mio restante soggiorno nell'isola.
Eppure fui grato di quell'incontro che mi donò lievità e spensieratezza.
In una diversa circostanza mi imbattei in una giovane svedese, anche lei molto giovane, che girava a fare delle foto alle cupole delle chiese e ai tetti delle case, azzurri e bianchi abbaglianti che si stagliavano contro lo sfondo del cielo azzurro e luminoso, e che poi - come mi spiegò - avrebbe usato per dipingere le sue tele, delle quali - aggiunse - di lì a poco avrebbe organizzato una mostra (oggi con parola più raffinata e blasé, si direbbe vernissage) mi uno spazio che le era stato messo a disposizione.
Ci andai a quella mostra e passammo molto tempo a chiacchierare delle sue opere, alcune delle quali erano di grandi proporzioni, non certamente miniature.
Lena - così si chiamava - pensava in grande: non si limitava alle miniature.
I suoi colori e il suo tratto riuscivano perfettamente a catturare l'essenza di quelle case e di quelle chiese ed anche forse una parte del segreto di quel cielo così intensamente azzurro.
Mi invaghii di uno dei suoi quadri. Fu un colpo di fulmine e, senza esitare, le dissi che avrei voluto comprarlo.
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Al momento del pagamento risultò che, quando le avessi pagato il prezzo della sua tela, sarei rimasto senza denaro per i restanti giorni del mio viaggio (ed eravamo ancora in un'epoca in cui i prelievi bancomat internazionali non erano attuabili).
Lei si fidò di me e mi disse che io avrei potuto pagarle il dovuto tramite bonifico bancario al mio ritorno in Italia (cosa che io, ovviamente, feci puntualmente).
Le scrissi in seguito, mandandole anche una foto per farle vedere dove avevo collocato, a casa, quel suo quadro e come l'avessi fatto incorniciare, per valorizzarlo ancora di più (per comodità di trasporto, mi aveva dato soltanto la tela, schiodata dalla sua intelaiatura in legno).
Ci vedemmo ancora qualche volta prima della mia partenza
Avrei voluto invitarla a cena, ma poi non ne feci nulla.
Avevo con me la mia agenda che adesso a distanza di oltre trent'anni ho riesumato, un'agenda piena zeppa di appunti fitti e quasi indecifrabili, quasi geroglifici al mio sguardo di adesso. E quando le pagine non bastavano aggiungevo dei foglietti volanti datati. Descrizioni minuziose dei paesaggi e di ciò che vedevo. Annotazioni maniacali e ossessive dei miei allenamenti giornalieri. Poco o nulla su incontri con altri e con queste due persone di cui ho brevemente parlato, attingendo esclusivamente ai miei ricordi.
Vivevo come in un guscio che, all'esterno, mi proteggeva dall'impelagarmi in storie e relazioni che in quel momento non desideravo e che, con la sua faccia interna mi proteggeva dal dovermi confrontare con emozioni che non desideravo sperimentare.
Da alcune di queste annotazioni nacquero degli scritti più compiuti, tra i quali il lungo racconto di cui ho parlato prima e che venne ospitato in due numeri della rivista CorriSicilia.
E questo è quanto
Fu questo viaggio una terapia per il mio animo esacerbato?
Non so, ma sicuramente mi lasciò dentro molte cose.
Una piccola chiosa. In quegli anni, quando non c’erano ancora i telefonini, viaggiare significava “staccarsi” totalmente del luogo di origine e dalle consuetudini quotidiane.
per tutto il tempo del viaggio si usava scrivere cartoline o lettere ai parenti lontani (che magari sarebbero arrivate dopo il nostro arrivo). Ma, pur con questa sfasatura temporale, questo modo serviva a tenersi in contatto con i propri cari, anche se in maniera meditata e “lenta”.
Ogni tanto, occasionalmente si telefonava anche, utilizzando i luoghi di telefonia pubblici (evitando di chiamare dagli alberghi che aumentavano il costo della chiamata a prezzi di strozzinaggio), e si parlava con collegamento vocale incerto e con un sottofondo di suoni da disturbo della linea: erano queste, peraltro, telefonate, peraltro scarsamente significative dal punto di vista della comunicazione, ma era giusto un modo per far sentire la propria voce.
Al giorno d’oggi con l’abuso dello smartphone e per il fatto di essere continuamente collegato in rete in tempo reale con il luogo dal quale, viaggiando, intendiamo allontanarci, é mortificata profondamente l’esperienza del viaggiare in cui occorre principalmente essere soli con se stessi per potere assorbire tutti gli elementi della nuova realtà che stiamo esplorando, per riflettere sulla nuova esperienza che stiamo conducendo e per ricomporre pezzi della nostra esistenza, per poi riportare tutto a casa per poterlo narrare a noi stessi e agli altri.
In questo senso - prima dell’avvento della telefonia mobile - tanti anni fa viaggiare era davvero un’esperienza autenticamente "terapeutica".
Paradossalmente, allora avevamo di meno, ma nello stesso tempo - e forse proprio per questo - avevamo molto di più e non ce ne rendevamo conto.
Le mie foto a Santorini (solo alcune, prevalentemente quelle in BiancoNero)
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"Il Mago" e quei libri che portano in "una terra sconosciuta"
Cosa tiene insieme quei libri in cui si distillano decenni di riscritture e ossessioni? A guardare "Il Mago", capolavoro di John Fowles, che di questa famiglia è un esempio paradigmatico, si ...
https://www.illibraio.it/news/dautore/il-mago-john-fowles-1481619/
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