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18 febbraio 2025 2 18 /02 /febbraio /2025 12:07
John Foot, La «Repubblica dei matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978, Feltrinelli UE

John Foot, docente di Storia Contemporanea Italiana e autore di numerosi saggi  storici tematici, con "La «Repubblica dei matti». Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978" (nella traduzione di Enrico Basaglia), pubblicato da Feltrinelli nel 2014 e successivamente nella UE (Universale Economica) alcuni anni dopo (nel 2017) ci ha regalato un contributo di grande rilevanza e soprattutto "super partes" in un ambito storiografico italiano che all'interno del grande capitolo dell'evolversi della Sanità pubblica nel corso del XX secolo tracciasse la storia della "distruzione" dei manicomi e l'apertura di un'epoca di assistenza ai pazienti psichiatrici più umana e più rispettosa dei comuni diritti dei cittadini.

In italia, pochi lo hanno fatto: infatti, come osserva lo stesso Foot, sono mancati sostanzialmente degli studi obiettivi e onnicomprensivi che andassero alla ricerca delle fonti e che tracciassero un'effettiva articolazione del movimento - in fondo pluricentrico - che ha portato a sostanziali trasformazioni (laddove invece sono rintracciabili molteplici testimonianze parziali a firma di quegli stessi operatori che vissero il movimento oppure degli scritti (in forma di articoli o saggi) da parte dei detrattori di quelle esperienze. In entrambi i casi, siamo di fronte ad una letteratura che ha prodotto "fonti" scritte in termini di riflessioni, resoconti di accadimenti, testimonianze, ma di un tentativo storiografico accurato (non a caso John Foot, mette mano a questa storia, soltanto in occasione del trentennale della promulgazione della cosiddetta "Legge Basaglia", quando cioè, il tempo trascorso aveva consentito la messa a punto di un analisi più oggettiva e attendibile).
Rimane comunque valido interrogarsi sul perché nessun studioso italiano abbia voluto intraprendere questa fatica. Forse, secondo John Foot, ciò è accaduto perché in Italia si è rimasti fermi ad un dibattito di tesi contrapposte e nessuno si è sentito l'animo di proporre uno sguardo più esaustive che sormontasse le contrapposizioni e che potesse fornire un racconto dettagliato, mostrando tutti gli aspetti del cambiamento e delle trasformazioni.
Ma quale movimento si sviluppò a partire dai primi anni Sessanta sino al momento culminante del 1978 (anno che vide la promulgazione della 180) e che protrasse i suoi effetti trasformativi sino ai tardi anni Novanta sempre del XX secolo?

Allora si parò di "antipsichiatria", un termine che da certi orientamenti di pensiero fu ovviamente molto contestato perché faceva parere che ci si volesse muovere verso una totale cancellazione delle sindromi psichiatriche e dello stesso ruolo dei medici che si specializzavano in questo settore medico, ma giustamente John Foot ricusa quel termine poiché lo si può applicare soltanto ad un gruppo ristretto di esperienze nell'assistenza psichiatrica (si veda ad esempio il movimento transitorio dell'antipsichiatria britannica, impersonato in modo particolare da David Cooper e Ronald Laing) e preferisce optare sulla definizione di "psichiatria radicale" che meglio si attaglia ad un'applicazione storiografica non soltanto di quanto accade a Gorizia e a Trieste con Franco Basaglia, leader ed ispiratore della trasformazione, ma agli accadimenti che si verificarono in molti altri contesti, in ciascuno dei quali si ebbero delle specificità.

Quella che si verificò fu una trasformazione policentrica 8che ebbe a teatro diverse regioni e provincie italiane) sempre a partire da "psichiatri radicali" che poterono operare grazien ad alleanze virtuose con il potere politico (e nella fattispecie con le Amministrazioni provinciali locali, visto che i Manicomi (o Ospedali Psichiatrici) erano sotto la giurisdizione delle provincie.

A Basaglia, alla prima e alla seconda equipe goriziana, ma anche al gruppo di operatori che assieme a Basaglia operarono a Trieste (mentre ebbe scarsa rilevanza la parentesi di Colorno) va il merito di avere avuto una grande risonanza mediatica (grazie anche alle capacità di esposizione dello stesso Basaglia, ma sicuramente con il favore di certe circostanze e congiunture.

il "fenomeno Basaglia" impersonificò il cambiamento in corso (necessario e non più procrastinabile) che, in realtà fu policentrico, poiché i tempi erano ormai maturi per questo: molte altre esperienze coeve che, in diverse realtà manicomiali operarono tentativi di cambiamenti più o meno fruttuosi (come a Perugia o ad Arezzo) rimasero in ombra in quanto oscurati dalla invadenza mediatica (in senso buono) di Basaglia e di quanto collaborarono con lui in modo diretto tra Gorizia e Trieste e che poi andarono incontro ad una diaspora che li portò ad operare in diversi altri contesti per l'abbattimento delle mura manicomiali e per la trasformazione dell'assistenza psichiatrica.

Tutto questo ci racconta in modo appassionato e con dovizia di dettagli John Foot, con il supporto di un ricco apparato di note e di un'esaustiva bibliografia.

(Quarta di copertina) Nel 1961 Franco Basaglia assume la direzione del manicomio di Gorizia; nel 1978 la legge 180 decreta la chiusura definitiva dei manicomi in Italia. La battaglia per la riforma radicale dell'assistenza psichiatrica fu innescata dal rifiuto di pochi medici e amministratori locali di avallare gli orrori di una realtà spesso paragonata ai lager nazisti. Dal lavoro concreto per l'umanizzazione di un istituto meramente repressivo nasce una riflessione culturale e politica di vasta portata sui meccanismi dell'esclusione sociale e sull'idea stessa della malattia mentale. Nel clima febbrile degli "anni delle riforme" e del Sessantotto, libri come "Che cos'è la psichiatria?" e "L'istituzione negata" consegnano al Movimento, la realtà della lotta anti-istituzionale sul campo, mentre documentari televisivi come "I giardini di Abele" di Sergio Zavoli contribuiscono alla diffusione di una nuova sensibilità nell'opinione pubblica. Conclusa l'esperienza pionieristica di Gorizia, gli psichiatri radicali incontreranno a Trieste, Parma, Perugia, Reggio Emilia, Arezzo e in tante altre città italiane una nuova generazione di amministratori capaci di rischiare per le proprie convinzioni. John Foot ricostruisce questa complessa vicenda con appassionato rigore storico, documentando non solo i successi e i fallimenti ma anche le feroci controversie (esterne e interne) che inevitabilmente l'accompagnarono. E che ancora non si sono spente.

 

John Foot

L'autore. John Foot, docente di Storia contemporanea italiana, ha insegnato presso il Dipartimento di italiano dell’University College di Londra e insegna all’Università di Bristol. Tra le sue opere pubblicate in italiano, ricordiamo: Il boom dal basso: famiglia, trasformazione sociale, lavoro, tempo libero e sviluppo alla Bovisa e alla Comasina (Milano, 1950-1970), (Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, 1997), Milano dopo il miracolo. Biografia di una città (Feltrinelli, 2003), Fratture d’Italia (Rizzoli, 2009), Calcio. 1898-2010. Storia dello sport che ha fatto l’Italia (Bur, 2010), Pedalare! La grande avventura del ciclismo italiano (Rizzoli, 2011) e La “Repubblica dei Matti”. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978 (Feltrinelli, 2014; Ue, 2017). Fonte immagine: sito editore Feltrinelli.

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7 febbraio 2025 5 07 /02 /febbraio /2025 12:38
Lawrence Wright, L'anno della peste. L'America, il mondo e la tragedia Covid, 2021

Lawrence Wright, premio Pulitzer per il giornalismo, dopo aver raccontato della pandemia in un'opera di narrativa quasi "profetica"  (molto interessante) - e si tratta di "Pandemia", pubblicato in traduzione italiana nel 2020, ha deciso di applicare gli strumenti dell'inchiesta giornalistica per raccontare cosa accadeva dietro le quinte negli USA nei primi due anni della pandemia, dalle prime avvisaglie tra la fine del 2019 e i primissimi giorni del 2020, all'esplosione dei contagi.
Il libro è stato pubblicato con il titolo, "L'anno della peste. L'America, il mondo e la tragedia Covid" (nella traduzione di Paola Peduzzi), da NR Edizioni, nel 2021.
Racconta l'autore nella sua postfazione di avere intervistato più di 100 personaggi-chiave dell'intera vicenda per raccontare come gli USA abbiano affrontato la pandemia  nei suoi momenti più cruciali. Tanto si sarebbe potuto fare che non è stato fatto; molte strade percorribili sono state sbarrate dalla disinformazione e dai pregiudizi.

I morti avrebbero potuto essere molto di meno e gravano dunque sulle coscienze di coloro che avrebbero potuto fare e non hanno fatto quando avrebbero dovuto.

Quest'inchiesta è un atto d'accusa, in verità, contro l'amministrazione USA, guidata (o, forse, sarebbe meglio dire "malguidata") da Donald Trump al tempo del Covid.

(Risvolto) Dall'inizio dell'epidemia a Wuhan in Cina, fino all'assalto del Campidoglio di Washington e all'insediamento di Joe Biden in un'America devastata, il giornalista del New Yorker e vincitore del Pulitzer Lawrence Wright racconta la diffusione della COVID-19, grazie a fonti autorevoli e dettagli autentici, facendo luce sulle conseguenze sanitarie, economiche, politiche e sociali della pandemia. Questo libro è l'angosciosa e furiosa storia di un anno in cui tutti i grandi punti di forza dell'America – la sua conoscenza scientifica, le sue grandi istituzioni civili e intellettuali, il suo spirito di solidarietà e comunità – sono stati abbattuti, non solo da una nuova terrificante malattia, ma da un'incompetenza politica e un cinismo senza alcun precedente. Con intuito, compassione, rigore, chiarezza e rabbia, Wright è una guida formidabile, che fende la fitta nebbia della disinformazione per fornirci un ritratto della catastrofe che pensavamo di conoscere. Proprio come "Le altissime torri" di Lawrence Wright è diventato il racconto decisivo del primo devastante avvenimento del nostro secolo, l'11 settembre, così "L'anno della peste" diventerà il racconto decisivo del secondo.

L'autore.  Lawrence Wright (nato nel 1947 a Oklahoma City, è giornalista e autore statunitense. Dopo aver scritto per «Texas Monthly» e «Rolling Stone», dal 1992 collabora con «The New Yorker», dove pubblica importanti inchieste, tra cui i reportage investigativi che vanno a comporre Gli anni del terrore (Adelphi 2017), incentrato sulle storie e i personaggi relativi ad al-Qaeda, i metodi con cui due agenti dell'FBI tentano di ostacolarli, le prime esecuzioni in diretta web dell'ISIS. Altre sue pubblicazioni: "La prigione della fede", che fa luce sulla Chiesa di Scientology.

"The Looming Tower" (Le altissime torri, Adelphi 2007), il suo libro più conosciuto, delinea la nascita e lo sviluppo del terrorismo islamico fino all'attacco dell'11 settembre. Con questo libro Wright ha ottenuto ben nove premi e riconoscimenti, tra cui il prestigioso Pulitzer nel 2007 e il PEN Center USA Literary Award.

Ha lavorato anche come sceneggiatore e produttore nel film di azione Attacco al potere (1998) e in Going Clear: Scientology e la prigione della fede (2015); per quest'ultimo ha anche recitato la parte di sé stesso.

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19 dicembre 2024 4 19 /12 /dicembre /2024 16:29

«Mi sembra di vederli questi ragazzi, Franco che passeggia con i romanzi e i libri di scuola sottobraccio per le calli di Venezia, e Rosa che cammina sul ciglio della strada tornando dalla fabbrica, entrambi con i pensieri che si hanno a quell’età: un amore, le amicizie, il futuro.
Cent’anni dopo la nascita di Basaglia cerco di dipanare il groviglio di fili di due vite parallele, in cui si intrecciano storie di guerra, sofferenza, malattia mentale, speranza.»

Valentina Furlanetto

Valentina Furlanetto, Cento giorni che non torno, Laterza

Nel mio percorso di letture basagliane (molte riprese e altre del tutto nuove) avviate da quando ho rinnovato i contatti con le pratiche psichiatriche (senza averne mai abbandonato i saperi) non poteva mancare un approccio all'opera di Valentina FurlanettoCento giorni che non torno. Storie di pazzia, di ribellione e di libertà, pubblicato molto opportunamente nel 2024, anno in cui si è celebrato il centenario della nascita di Franco Basaglia, da  Laterza Editore (I Robinson Letture).
Si tratta di un testo che si muove tra biografia, ricostruzione storica degli eventi che hanno portato alla legge di riforma psichiatrica e oltre, sin quasi ai nostri giorni, ma è anche un amarcord accorato (e su questo aspetto c’è un disvelamento che sarà fatto in maniera chiara ed esplicita solo in conclusione del percorso).
Molto brava l’autrice che, partendo dal progetto di raccontare due vite parallele e coeve (quella di Rosa e quella di Franco Basaglia) riesce a raccontare con grandissima e ferrata documentazione la storia della psichiatria italiana a partire dai primi anni Sessanta sino all’attualità dei nostri giorni in cui, assieme al drammatico e radicale cambiamento della tipologia dei pazienti sofferenti di disturbi psichici, assistiamo un po’ al fallimento della visione di Basaglia e siamo costretti a doverci confrontare con la realtà dilagante della creazione di una rete di mini-manicomialità diffusa, per non parlare dei manicomi “chimici” (a cui l'amico e collega Piero Cipriano ha dedicato uno dei suoi volumi) e della persistenza di quelli mentali (o meglio con i costrutti mentali del Manicomio) e ciò in una situazione in cui è stato presentato un preoccupante progetto di legge sull’assistenza psichiatrica (momentaneamente fermo) che, sia pure in modo elegante, riaprirebbe le porte agli internamenti di lunga durata e ad una esplicita filosofia custodialistica, proprio quella che pensavamo di esserci lasciata alle spalle, anche se in chiave "modernistica", oltre a mettere nelle mani delle organizzazioni private a scopo di lucro fette ancora più grandi dell'assistenza psichiatrica.
E' un libro assolutamente da leggere, sia da parte degli addetti ai lavori (che sempre di più sono sono sommersi da informazioni in stile DSM-5 e di tipo psico-farmacologico, ma sempre meno (almeno in larga maggioranza) sono attenti ad un approccio alle problematiche della salute mentale (sia quelle del benessere psichico sia quelle della malattia) in chiave umanistica e di risoluzione dei conflitti.

(Soglie del testo) «Mi sembra di vederli questi ragazzi, Franco che passeggia con i romanzi e i libri di scuola sottobraccio per le calli di Venezia, e Rosa che cammina sul ciglio della strada tornando dalla fabbrica, entrambi con i pensieri che si hanno a quell’età: un amore, le amicizie, il futuro. Cent’anni dopo la nascita di Basaglia cerco di dipanare il groviglio di fili di due vite parallele, in cui si intrecciano storie di guerra, sofferenza, malattia mentale, speranza.»
Questa è la storia di Franco Basaglia, nato nel 1924, figura rivoluzionaria che ha dimostrato che i ‘pazzi’ potevano vivere fuori dagli istituti e che ha lottato per il superamento degli ospedali psichiatrici.
Ma è anche la storia di Rosa, coetanea di Basaglia, una giovane donna nata e cresciuta non lontano da lui, che viene investita da un’auto e che da quel momento combatte con le crisi epilettiche e con la malattia mentale.
Rosa per tutta la vita affronterà il manicomio, l’elettroshock, l’uso massiccio di psicofarmaci, l’assenza di diritti civili, lo stigma. 
«Cento giorni che non torno», ripete a una delle figlie che la va a trovare in manicomio di nascosto, perché una madre internata è una vergogna. 

 

Valentina Furlanetto

Le due vite di Franco e Rosa corrono parallele in un secolo in cui l’approccio alla malattia mentale cambia profondamente. 
Con l’approvazione della legge 180 si apre una stagione di speranze, ma l’iniziale entusiasmo lascia spazio presto alla lotta delle famiglie con servizi pubblici sottodimensionati, alla preoccupazione per i Tso violenti, alla diffusione di un ‘manicomio chimico’.
Valentina Furlanetto ci accompagna, con la lucidità della cronista e la sensibilità della scrittrice, in un viaggio tra dolore, vergogna, voglia di libertà.

L’autrice. Valentina Furlanetto, giornalista, lavora a Radio24 e collabora con “Il Sole 24 Ore”,“Il Foglio” e “Review”. A Radio24 conduce la trasmissione Immagini. Le storie della settimana e lavora ai radiogiornali. Ha pubblicatoSi fa presto a dire madre (Melampo 2010) e L’industria della carità (Chiarelettere 2013). Per Laterza è autrice di Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa (2021, Premio Leogrande Studenti 2022).

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16 dicembre 2024 1 16 /12 /dicembre /2024 08:16
Matteo Collura, Perdersi in manicomio, Pungitopo

Scartabellando tra alcuni libri che raccontano della trasformazione della assistenza psichiatrica a partire dalle esperienze di Basaglia e di altri pionieri sino alla promulgazione della legge 180 del 1978 e al progressivo smantellamento degli ospedali psichiatrici, mi sono imbattuto in un volume che non ricordavo affatto.
Si tratta di una testimonianza, corredata anche di una impressionante documentazione fotografica, sulla sopravvivenza per un lungo periodo di tempo dopo la 180, dell'Ospedale Psichiatrico di Agrigento, venuto all'attenzione della cronaca nei primi anni Novanta per via di una epidemia di TBC tra alcuni dei suoi degenti cronici.
Sembra che l'Ospedale psichiatrico di Agrigento sia rimasto per lungo tempo a sopravvivere come in un'isola anacronistica fuori dal flusso temporale.
Il volume di Matteo Collura è intitolato "Perdersi in manicomio", ed è stato pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Pungitopo (collana La Parola e l’immagine), corredato con le foto di Lillo Rizzo e Tano Siracusa ed con una postfazione di Armando Bauleo, uno dei riconosciuti fondatori della psicoterapia gruppale in Argentina.

La pagina scritta in questo libro ruota essenzialmente attorno alle foto scattate da Lillo Rizzo e da Tano Siracusa all’interno del manicomio di Agrigento, nel 1993, a distanza dunque di 15 anni dall’entrata in vigore della legge 180 del 1978.
Una sostanziale lentezza nel rendere fattiva e operante quella legge, ma anche l’ignavia e la colpevole negligenza dei vari amministratori che vi si sono succeduti nel tempo, ha fatto sì che si mantenessero per anni gli aspetti più deteriori della manicomialità.
Le foto contenute in questo piccolo libro, aspre e crudissime, riportano immediatamente alle immagini di “Morire di classe” con le foto di Berengo Gardin e Carla Cerati, scattate a Gorizia e a Colorno (Parma) quando già la rivoluzione basagliana muoveva i primi passi.

L’Ospedale di Agrigento, divenuto forse il più grande della Sicilia quanto a numero di degenti, venne alla ribalta della cronaca nel 1993 quando vennero denunciate pubblicamente dal partito radicale  (e anche Domenico Modugno espresse delle critiche molto dure) le condizioni in cui vivevano gli internati in assenza dell’attivazione di un percorso di affrancamento e di restituzione alla società, con una serie di morti dimenticati (oltre duecento degenti in undici anni dal 1977 al 1988 vi morirono per una vera e propria epidemia di TBC).
L’ospedale agrigentino che, nelle pagine della cronaca, venne definito un “manicomio-lager” chiuse definitivamente nel 1996. 
Oggi quella struttura è sede della ASP agrigentina e del Dipartimento di salute mentale.

(soglie del testo) Una drammatica testimonianza sulla follia umana di quanti si dicono «sani» e di quanti sono giudicati malati. Dal «caso Agrigento», una finestra sulla condizione del malato di follia, su una solitudine terribile, su un enorme vuoto dl relazioni, su una specie di desolata allegoria del nulla. 
«Forse non abbiamo neppure fotografato i "folli", ma soltanto degli uomini e delle donne che si sono perduti in un ex manicomio».

L'autore. Matteo Collura è nato ad Agrigento nel 1945. Autore del bestseller Sicilia sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale del romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il Corriere della Sera e vive a Milano

La facciata del corpo principale dell'Ospedale psichiatrico di agrigento

L’Ospedale Psichiatrico di Agrigento. Un po' di storia

L’Ospedale Psichiatrico di Agrigento fu costruito tra il 1926 ed il 1931 sull’estremità orientale della collina detta della “Rupe Atenea” nell’ex feudo San Biagio, in una zona prevalentemente rocciosa
L’intera struttura manicomiale si componeva di tre corpi centrali posti su tre livelli e di dieci padiglioni sempre posti su tre livelli.
Il primo corpo era situato al centro del primo livello sul viale centrale e qui si trovavano ubicati la Direzione Sanitaria, la Segreteria, la Biblioteca, la Farmacia, i laboratori d’analisi cliniche, anatomia microscopica, l'ambulatorio di terapia fisica e ionoforesi, marconiterapia, ultrasuono, diagnostica radiologica, settore
ammodernato nel 1960 con un complesso di psicodiagnostica. In questo livello si trovavano anche l’alloggio dei medici e il cinema-teatro con 150 posti a sedere.
Il Secondo Corpo, al centro del secondo livello, ospitava la Direzione Amministrativa, l’Economato, l’alloggio
dell’economo, la cucina, la dispensa, il forno, le caldaie, la calzoleria e l’alloggio delle suore appartenenti all’ordine “Figlie di Sant’Anna”, il servizio cassa e l’officina degli elettricisti, la falegnameria, i laboratori per i fabbri e calzolai, per rispondere a tutte le esigenze interne.
Nel terzo corpo al centro del terzo livello erano ubicati il guardaroba, la lavanderia, la sartoria e la sala cucito e la stireria.
Più in alto ancora, quasi al limite con il muraglione del costone nord della Rupe Atenea, sorgevano il serbatoio centrale dell’acqua potabile e una grande cabina di trasformazione elettrica.
I Padiglioni dei degenti.  A sinistra di questi palazzi, rivolgendo lo sguardo verso la montagna, si trovavano i reparti maschili mentre a destra si trovavano i reparti femminili sempre in numero di cinque, disposti simmetricamente a seconda della destinazione.
La I sezione, anche chiamata Reparto Osservazione, era destinata agli ammalati primi ammessi da sottoporre per legge a 15 giorni di osservazione prolungabili a 30, prima della destinazione ai reparti.
La II sezione era riservata agli ammalati con diagnosi di malattia mentale ma bisognosi di ulteriori terapie intensive; qui trovavano posto anche gli ammalati “calmi”, bisognosi di terapie generali, ricostituenti o in attesa di essere affidati alla famiglia.
La III sezione era destinata agli “incurabili”, agitati permanenti aggressivi, suicidi, coprofagi, dementi irrecuperabili e cronici. Il reparto era comunemente chiamato la “Fossa dei Serpenti”.


[NB - In questo padiglione è stata allestita la mostra “C’era una volta il manicomio” ed è visitabile il rifugio antiaereo scavato nel tufo dai degenti, fissando un appuntamento]

Nella IV sezione era un settore di altissima vigilanza dove trovavano posto gli epilettici, parafrenici, schizofrenici o detenuti in osservazione psichiatrica, questi prevalentemente nella sezione uomini, si ha ricordo soltanto di una donna detenuta in osservazione psichiatrica.
La V sezione era occupata dai malati tranquilli piuttosto paranoici, non laceratori, affetti soprattutto da ansia e depressione.
Nel settore orientale si trovavano altri tre isolati: La Chiesa, la camera mortuaria dove venivano praticate le autopsie, e una altro reparto dalla capienza di dieci posti che originariamente fu di isolamento il cosiddetto “Reparto Infettivi” fu chiuso dopo la scoperta dell’antibiotico e i malati furono trasferiti in strutture
ospedaliere specializzate.
La zona più a sud dell’odierna Casa della Speranza, oggi occupata dall’orto botanico, era denominata zona Agricola, un podere esteso centinaia di ettari e il con un ricco frutteto, mandorleto, orto e numerosi animali che permettevano all’intero Ospedale Psichiatrico di rendersi per buona parte autosufficiente nel fabbisogno alimentale
Chiesa di Sant’Antonio. La chiesa di Sant’Antonio, seppur nelle sue piccole dimensioni, è costituita da tre navate con arcate gotiche, dello stesso stile sono le quattordici finestre, per cui all’interno si può godere di una penombra che facilita il raccoglimento e la percezione del soprannaturale tipico dello stesso stile gotico che sembra spingere lo spirito verso l’alto.
Fu progettata dall’architetto Donato Mendolia.
Originariamente la Cappella fu dedicata al “Sacro Cuore di Gesù”
La capienza della chiesetta è di circa 150 persone ed è dotata di un prestigioso organo elettronico “Mascioni” del 1958.

[Ricerca storica e testi curata dal Dr. Giorgio Patti e dalla Dr.ssa Chiara Minuta]

Franco Basaglia, Morire di classe, Nuova edizione per Il Saggiatore

Franco e Franca Basaglia (a cura di), Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Il Saggiatore, 

Morire di classe (1969) da tempo non era più reperibile nelle librerie. Abbiamo deciso di ripubblicarlo ora, nella sua integrità, perché possa testimoniare alle nuove generazioni quale fosse la condizione dei malati mentali prima della rivoluzione di Franco Basaglia, di Franca Ongaro Basaglia e di tutte le donne e gli uomini che insieme a loro hanno operato per scardinare quel sistema. Un lavoro collettivo che ha segnato una svolta epocale nella gestione della salute mentale e ha portato all’approvazione della legge 180. (Alberta Basaglia, Luca Formenton)

Ringraziamo Elena Ceratti e Gianni Berengo Gardin per la collaborazione alla nuova edizione di questo libro «simbolo».

(da Wikipedia) Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, pubblicato per la prima volta nel 1969, è un'opera che critica le condizioni in cui si trovavano gli ospedali psichiatrici italiani dell'epoca, pubblicato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia con fotografie in bianco e nero di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, una introduzione dei Basaglia e vari altri testi.

Contesto. Negli anni sessanta lo psichiatra Franco Basaglia era il direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia. Anche se lo avrebbe dovuto gestire secondo i criteri tradizionali, simili a un carcere, Basaglia, sua moglie Franca Ongaro e il loro gruppo invece ridussero la contenzione dei pazienti, tanto che nel 1967 furono rimossi i lucchetti da tutti i reparti, in linea con gli ideali della psichiatria democratica. Basaglia ne scrisse in un libro molto famoso pubblicato nel 1968, L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico; e i cambiamenti da lui apportati furono meglio conosciuti grazie al documentario televisivo, I giardini di Abele, realizzato da Sergio Zavoli nel 1968 e trasmesso per la prima volta nel 1969.

Fotografia. Come riferisce il fotografo Gianni Berengo Gardin, nel 1968 Franco Basaglia chiese alla fotografa Carla Cerati di documentare per una rivista le condizioni nei manicomi italiani. A disagio per l'incarico, Cerati chiese a Berengo Gardin di accompagnarla; lui accettò a condizione che fosse permesso anche a lui di scattare fotografie, e in seguito convinse Basaglia a realizzare un libro. Nel resoconto dello storico John Foot non è menzionata nessuna rivista, e uno dei primi progetti del libro prevedeva fotografie di entrambi gli autori, Cerati e Berengo Gardin, ambedue già conosciuti da Basaglia.

Cerati e Berengo Gardin realizzarono i loro scatti in quattro ospedali: a Gorizia (il manicomio diretto da Basaglia), Colorno (vicino a Parma), Firenze e Ferrara. Il grado di libertà dei due fotografi variava notevolmente: fu permesso loro di visitare il manicomio di Firenze soltanto una volta (dove non furono bene accolti dalla direzione), ma erano molto più liberi di lavorare a Gorizia.

La loro fotografia era soggetta ad altri vincoli. Anche se Berengo Gardin aveva fotografato incontri tra pazienti a Gorizia, e scene in cui era presente Basaglia, queste ultime furono omesse dal libro: Basaglia voleva evitare l'impressione del paternalismo e Foot fa notare che le foto di Gorizia non rispecchiavano la situazione dell'epoca (insolitamente libera per i tempi) e si limitano a descrivere il suo passato repressivo.

Prima della pubblicazione del libro, e con l'appoggio del politico Mario Tommasini, fu organizzata a Parma una mostra intitolata La violenza istituzionalizzata (e più tardi fu spostata a Firenze); questa fu la prima occasione in cui furono esposte al pubblico molte delle fotografie che più tardi sarebbero apparse in Morire di classe.

Alcune immagini del libro sono state utilizzate anche nel film I giardini di Abele e Nei giardini della mente, per altri libri e volantini.

Testi. Il libro contiene un'introduzione scritta dai Basaglia, inoltre testi di Erving Goffman, Michel Foucault, Paul Nizan, Luigi Pirandello, Primo Levi, Louis Le Guillant e Lucien Bonnafé, Jonathan Swift, Rainer Maria Rilke, Frantz Fanon, Peter Weiss e altri.

John Foot fa notare nel suo saggio sulla storia della psichiatria radicale in Italia  che sia l'introduzione sia il testo fanno uso della nozione dell'istituzione totale, creata da Goffman o da lui resa famosa, nozione importante nel libro di Goffman (pubblicato nel 1961) Asylums, la cui traduzione italiana era stata pubblicata nel 1968. Il manicomio era totalitario (Goffman e Foucault), "colonizzava" i pazienti (Fanon), o li riduceva alla condizione di uomini "vuoti" dei campi di concentramento (Levi).

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20 aprile 2024 6 20 /04 /aprile /2024 09:41
Robin Cook, Sindrome fatale (Toxin), Sperling&Kupfer

Sindrome fatale (Toxin, traduzione di Linda De Angelis) è un thriller medico scritto nel 1998 dallo scrittore statunitense Robin Cook, pubblicato in Italia da Sperling&Kupfer, e mi sono ritrovato a leggerlo di recente, perchè, animato da un'improvvisa voglia di uno dei libri di questo autore, sono andato a pescarne uno in giacenza nella mia libreria e messo da parte appunto, per questo improvviso tipo di voglia.
Robin Cook è uno scrittore che coltivo di quando in quando.
Non di quelli i cui libri mi precipito ad acquistare in libreria appena sono usciti, no.
Solitamente non ricevono la mia priorità.
Li acquisto se ne ho la possibilità se ne trovo a prezzo scontato.
Nel corso del tempo ne ho infatti trovati diversi attraverso le vendite remainder.
Sono dei libri con titoli incisivi e inquietanti ero roboanti assieme, tipo “Febbre”, “Morbo”, “Epidemia”, “Contagio”, “Pandemic”, e così via (in calce a questo post sono elencati tutti i suoi titoli).

Di questi romanzi acquistati a prezzi scontatissimi e di cui ho fatto riserva, ogni tanto ne pesco uno e lo leggo.
Devo dire anche che le trame di Robin Cook, in generale, mi acchiappano (forse anche per via della mia formazione medica), perché in generale introducono il lettore immediatamente all’interno di una questione scottante che, a seconda dei casi, può riguardare la sanità pubblica e le sue storture, le malversazioni di sistemi corrotti le manipolazioni di Big Pharma ed altre tematiche scottanti e attuali.
In generale, si tratta di romanzi estremamente documentati che, senza ombra di dubbio, aprono la strada a delle riflessioni e aiutano a porsi degli interrogativi.
In questo romanzo, ad esempio, si affronta il tema delle aziende che forniscono il mercato alimentare di carni macinate, il problema della loro conservazione e del loro possibile inquinamento da parte di pericolosi agenti patogeni, ma anche delle collusioni tra i produttori e gli organismi statali di controllo.
Vi si parla anche delle tossinfezioni sostenute da un particolare ceppo di Escherichia coli che si diffondono attraverso le carni macinate non ben cotte (e possibilmente già contaminate in origine a causa degli inconvenienti procedurali legati alla gestione delle macellazioni su grande scala) e che negli Stati Uniti - al tempo della scrittura di questo romanzo - producevano diverse centinaia di morti all’anno, soprattutto come complicazione della sindrome tossica correlata (la cosiddetta Sindrome emolitica-uremica). 
Leggendo alcune pagine di questo “Sindrome fatale” (il cui titolo inglese tra l’altro è “Toxin”), viene indubbiamente voglia di non mangiare più le carni rosse, soprattutto quelle macinate che vengono dalla grande distribuzione.
Per Robin Cook scrivere è un modo per denunciare le malversazioni, le storture e le collusioni, ma anche per sensibilizzare il grande pubblico su queste grandi tematiche di sanità pubblica, sugli usi distorti dei progressi tecnologici in Medicina e sulla necessità di un superamento dei problemi segnalati attraverso l’adozione di comportamenti più responsabili.
Dal punto di vista stilistico, tuttavia, i romanzi di Robin Cook lasciano un po’ a desiderare (benché egli abbia venduto milioni e milioni di copie), soprattutto perché quando lo spunto tematico si esaurisce egli introduce nella macchina narrativa elementi che, essendo sono più da action thriller, a mio modo di vedere, fungono più da riempitivo e hanno uno scarso valore letterario.
Ciò non sminuisce il fatto che gli spunti narrativi siano sempre più che buoni.
E quindi mi sento di poter perdonare le sue cadute stilistiche.

 

Scrive l’autore in exergo:
Questo libro è dedicato alle famiglie che hanno sofferto per il flagello dell’Escherichia Coli 0157:H7 e per altre malattie contratte attraverso il cibo

 

Trama. Kim Reggis è un cardiochirurgo che non solo ha divorziato da poco, ma ha anche perso la posizione di primario del proprio reparto. E i suoi guai non finiscono qui, perché la figlioletta Becky viene colpita da una grave intossicazione alimentare. L'inesorabile progredire della sindrome, che porta alla morte Becky a causa del batterio E. coli, lo spinge a un'indagine dagli esiti agghiaccianti. L'industria della carne e l'organismo statale preposto al controllo risultano infatti legati da una segreta complicità ai danni dei consumatori e chi volesse far luce su questa sporca faccenda potrebbe rimetterci la vita.

 

Robin Cook (dal web)

L'autore. Robin Cook (New York, 4 maggio 1940) è un medico e scrittore statunitense, affermato autore di gialli, è considerato il padre dei thriller medici, e cioè dei gialli di argomento scientifico-biologico.
Si è laureato in medicina alla Columbia University e specializzato ad Harvard. Decise di abbandonare la professione dopo aver scoperto che in un ospedale in cui lavorava la cartella clinica di un paziente ricoverato da tre settimane non era stata ancora letta. Cominciò così a scrivere thriller per divulgare i maggiori problemi della sanità e della ricerca medica, temi che altrimenti non avrebbero appassionato. Dopo un primo tentativo con Year of the Intern, ottiene successo con Coma dal quale viene tratto il film Coma profondo, interpretato da Michael Douglas.
Cook ha scritto una trentina di libri che hanno ispirato anche altri film, tutti tradotti in italiano tranne il primo. Nei suoi romanzi Cook affronta diverse tematiche: dall'ingegneria genetica alle intossicazioni alimentari, dall'inquinamento chimico alla clonazione umana e qualcuno dei suoi lavoro appartiene al filone della fantascienza.
Ha venduto in tutto il mondo oltre 100 milioni di copie.

Cook scrive i suoi libri con l'assistenza di altri medici e specialisti della professione. 

 

Le opere
1972: Year of the Intern
1977: Coma (Coma)
1979: L'ombra del faraone (Sphinx)
1981: Cervello (Brain)
1982: Febbre (Fever)
1983: Al posto di Dio (Godplayer)
1985: Sotto controllo (Mindbend)
1988: Progetto di morte (Mortal Fear)
1989: La mutazione (Mutation)
1990: Sonno mortale (Harmful Intent)
1993: Vite in pericolo (Fatal Cure)
1993: Morbo (Terminal)
1996: Alterazioni (Acceptable Risk)
1997: Invasion (Invasion)
1998: Sindrome fatale (Toxin)
2000: Esperimento (Abduction)
2001: Shock (Shock)
2003: La cavia (Seizure)
2013: In caso di morte (Death Benefit)
2013: Nano
2014: Cell
2015: Host
2017: Charlatans
Serie Marissa Blumenthal
1987: Contagio (Outbreak)
1991: Segni di vita (Vital Signs)
Serie Stapleton e Montgomery
1992: Sguardo cieco (Blindsight)
1995: Epidemia (Contagion)
1997: Cromosoma 6 (Chromosome 6)
1999: Vector, minaccia mortale (Vector)
2005: Marker, segnali d'allarme (Marker)
2006: Crisi mortale (Crisis)
2007: Fattore di rischio (Critical)
2008: Corpo estraneo (Foreign Body)
2011: Il segreto delle ossa (Intervention)
2012: La cura (Cure)
2018: Pandemic

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28 marzo 2024 4 28 /03 /marzo /2024 13:47
Dario Musso sedato e sottoposto a TSO

Il video che riporto sopra racconta un evento increscioso al tempo del lockdown, accaduto qui in Sicilia, complici i camici bianchi in funzione puramente repressiva e nella veste di garanti dell’ordine pubblico.
Il camice bianco, in questa circostanza, in modo palese diventa emblema di potere, di cui si fa senza mezzi termini abuso.
Lo voglio riportare qui giusto per non dimenticare alcuni degli eccessi che sono stati perpetrati in tempo di Covid e per riflettere su alcune storture dell’apparato psichiatrico che continua, purtroppo, a ripetere quelle pratiche aborrite discendenti dalla legge manicomiale del 1904 che, pur essendo stata formalmente superata dalla legge 180 del 1978, continua ad essere viva e presente nella mente di molti (il Manicomio continua ad essere presente e vivo nella mente di molti, moltissimi, e rimane come costrutto di pensiero che salta sempre fuori).

Devo il recupero dell'assurdo episodio alla recente lettura (ancora in corso) di un testo di Piero Cipriano, Il libro bolañiano dei morti. Esercizi di ego dissoluzione (2020).

Complottista secondo me era pure Dario Musso ragazzo drammatico e teatrale di Ravanusa che il lockdown (non vedo l’ora di dimenticare questa parola) come a tutti gli aveva spezzato la pazienza e inizia a fare video inquietanti in cui si punta un cacciavite alla tempia e incita alla rivolta e pochi giorni prima viene fermato da un carabiniere Che assiste allibito a lui ti ha contrattacca gli dice che fare il carabiniere di questi tempi affermare persone innocenti è una merda e brucia la sua carta d’identità e il giorno del fermo sanitario e in giro nella sua auto con un megafono che incita alla disobbedienza a non abboccare alle favole governative non c’è nessun virus dice, togliete le mascherine riaprite negozi, uscite…
(ora confessate di non averlo pensato almeno una volta pure voi tutto ciò) lo circondano carabinieri e agenti municipali, lui fa un video in diretta in cui prova a mantenere la calma, scende, resta calmo, bravo Dario così si fa, ma non basta perché arrivano tre sanitari uno dei quali ha una siringa, il sanitario non gli va incontro davanti per parlargli no, lo aggira gli punta la siringa, vuol siringarlo da dietro con tutti i pantaloni, stato di necessità diranno poi nel processo che si farà ma io dico, dalle immagini, non c’era nessuno stato di necessità, legittima difesa dite? Nemmeno eppure un carabiniere lo prende per le gambe e lo atterra, il sanitario col camice e la siringa lo infila, la donna che fa il video grida atterrita in siciliano lo stanno sedando lo stanno sedando. Finisce il video inizia l’audio, il fratello di Dario, avvocato, prova per giorni a chiamare all’ospedale di Canicattì, al reparto psichiatrico dove Dario è ricoverato in TSO sedato legato cateterizzato ma la dottoressa balbetta, dice non possiamo dare notizie lui richiama e lei dice suo fratello dorme lui richiama lei dice non abbiamo il cordless lui richiama lei dice ho un’urgenza ho un ricovero ora non posso parlare, sono imbarazzato per lei per questa poverina che senza dignità né etica si schermisce. Dopo cinque sei giorni tali le pressioni, le lettere, le telefonate, ai medici e al sindaco, tra queste quella di Gisella Trincas dell’UNASAM (associazione di familiari dei pazienti psichiatrici) o del garante nazionale dei detenuti o di me stesso che provo a parlare invano con la dottoressa che ha sempre un’urgenza e non può rispondere, insomma Dario viene (altrettanto selvaggiamente) dimesso e per fortuna non fa la fine di Franco Mastrogiovanni o Giuseppe Casu o Elena Ca sì setto (cioè: non muore legato al letto).
” (ib., pp. 116-117)

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12 gennaio 2024 5 12 /01 /gennaio /2024 07:33
Piero Cipriano, La Società dei Devianti, Eleuthera

Con La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d'ogni sorta (Altre storie di uno psichiatra riluttante), pubblicato da Eleuthera nel 2016,
ho completato la lettura del terzo volume della trilogia dello “psichiatra riluttante” di Piero Cipriano, preceduto da "La Fabbrica della salute mentale: diario di uno psichiatra riluttante" e da "Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante" (sempre editi da Elèuthera)

Quale sia il progetto che emerge da questi tre volumi così ricchi di contenuti, eppure percorsi da un unico - coerente - filo conduttore, ce lo chiarisce in una breve, ma efficace, sintesi di intendimenti lo stesso Cipriano nell'incipit dell'ultimo capitolo di questo terzo volume della "Trilogia": una dichiarazione di intenti che ha tanto il sapore - mutatis mutandis - di quella poetica ed intimista - eppure di intensa critica sociale dei suoi tempi - di H. D. Thoreau, quando in una delle più celebrate pagine di Walden, ovvero Vita nei boschi, cerca di spiegare a se stesso e ai suoi futuri lettori il motivo della sua scelta di ritirarsi a vivere in maniera semplice in un luogo appartato nella selva, in una capanna da lui stesso costruita. Thoreau rimane pur sempre un fulgido esempio di un pensiero anarco-libertario e credo che Cipriano si possa in qualche collegare a quel tipo di pensiero che io mi sento di condividere profondamente e, del resto, per lui la transizione dalla definizione di sé come psichiatra riluttante a quella di "psichiatra anarchico" è stata naturale e spontanea.

Ma ecco le parole di Cipriano:

"Prima vorrei chiarire perché ho deciso di scrivere questi tre libri: Perché ad un certo punto della mia carriera, ho deciso che non avevo più voglia di fare carriera nel mondo, per lo più fuorilegge (fuorilegge in senso lato, per significare selvaggio, primitivo, ferino, immorale, anetico) della psichiatria, e avevo voglia, al contrario di intraprendere (nel mio piccolo specifico, sull'esempio dei grandi maestri dell'anticarriera psichiatrica, Franz Fanon e Franco Basaglia, per capirci) una carriera ritroso, l'anticarriera del medico mentale che si distrugge come soggetto di sapere e potere ai danni del malato e si ricostruisce come suo alleato" (ib., p. 217)


In questo terzo volume della trilogia, in circa trenta capitoli, Piero Cipriano, basagliano convinto, porta avanti le sue riflessioni che seguono vari filoni con un’attenzione questa volta più accentuata verso diverse forme di devianza e di intolleranza nei confronti dei diversi.
Cipriano si definisce, oltre che seguace delle idee di Franco Basaglia, uno psichiatra “riluttante” nei confronti dell’applicazione di misure contenitive e restrittive nel trattamento di ogni forma di disagio psichico, e quindi si proclama contrario a tutte le pratiche psichiatriche “restraint” (siano esse fisicamente o chimicamente contenitive). In ciò, sicuramente è uno psichiatra non allineato, uno che assieme a pochi altri (eredi di Basaglia, come lui) cerca di praticare una psichiatria che curi e che consenta in maniera autentica di liberare dalle sofferenze, di risolvere le conflittualità e di promuovere percorsi di liberazione.
Porta avanti il suo pensiero con coerenza, in maniera non omologata, incurante del fatto che molti colleghi operanti nell’ambito della psichiatria possano considerarlo un eccentrico (o anche un rompiscatole).
Eppure - e Cipriano ce lo mostra con efficacia - dire di no a certe pratiche omologate, a sistemi curativi pseudoscientifici non è soltanto espressione di coerenza con le proprie idee, ma può portare a dei risultati e può aprire delle crepe in un apparato “curativo” omologato e omologante (non solo nei confronti dei “pazienti” ma degli stessi operatori che vi lavorano), con un’azione di dissenso (alla maniera del melvilliano Bartleby lo scrivano) verso l’imperante “manicomializzazione diffusa” nel territorio che, accanto ai circa trecento mini-manicomi a degenza breve sparsi nel territorio nazionale, vede il proliferare sempre più importante ed imponente di strutture per degenze medio-lunghe, come le CTA oppure di Case di Cura convenzionate che accolgono pazienti psichiatrici per periodi di svariati mesi, funzionanti in base al principio della “porta girevole”.
È un piacere profondo leggere le considerazioni e le riflessioni di Cipriano, poiché egli riesce a realizzare sempre una brillante sintesi tra letture e approfondimenti fatti, film visti e la propria viva e inconfondibile esperienza clinica nella quale s’intravede in filigrana una profonda umanità.
Nelle sue pagine si coglie un vivido percorso di volontà di crescita professionale che si arricchisce di giorno in giorno, dove letture e riflessioni scritte servono a decostruire e a ricostruire di continuo delle buone prassi e a trovare continuamente lo stimolo interiore per porsi delle domande (ed é più importante, sempre, porsi delle domande, nutrire dei dubbi, anziché procedere avendo delle certezze assolute ed irremovibili).
Esperienza quotidiana, letture, studio, confronto e reminiscenza sono tutti elementi che confluiscono nelle scritture diaristiche, nelle riflessioni e nelle narrazioni a volte fiction di Cipriano che, essendo fuori dagli schemi, si definisce (e può essere senz’altro definito) uno “psichiatra anarchico”.
Non manca - come nei due precedenti volumi della “trilogia” - un ricco apparato bibliografico, un vero e proprio pozzo delle meraviglie, che consente ai lettori più esigenti di approfondire dei propri percorsi di lettura o di lasciare che si attivino proficue risonanze intellettuali nel caso quelle letture le abbia già esplorate precedentemente, ma cogliendo l’opportunità di rivisitare alcune tematiche viste in una nuova, originale, sintesi.
Cipriano non è soltanto un neo-basagliano, uno psichiatra riluttante, uno psichiatra anarchico (o anarcoide), ma è anche un esploratore impenitente che cerca di venire fuori dalle sue personali contraddizioni, trovando una propria strada che, per successive approssimazioni, lo porta a vivere sempre più coerentemente la propria professione.
Non vedo l’ora di leggere gli altri suoi libri che scaturiscono appunto da questa continua ed indefessa ricerca che nella sua più recente evoluzione è approdato ad un interessamento nei confronti della neo-psichedelia e del potere curativo di certe pratiche rituali messe in atto nelle culture tradizionali e che, dunque, in questa sua più recente evoluzione di pensiero e di interessi culturali si allinea con i grandi psiconauti del nostro tempo (di cui il nostro Giorgio Samorini è un rappresentante importante nonchè portavoce di altri studiosi del settore).

Ma, prima di concludere, diamo voce a Piero Cipriano che, in un paragrafo sintetico e denso, ci spiega chi e cosa è uno psichiatra riluttante.

"Chi è, oggi, uno psichiatra riluttante?
Uno che non accondiscende ai dogmi della psichiatria e alle sue pratiche, quasi sempre repressive. Uno psichiatra critico, radicale. Non ho trovato di meglio per definirmi. Non sono il primo e spero di non essere l'ultimo. Anzi, lo so di essere in buona compagnia. Eppure per molti anni, nei luoghi dove ho esercitato il mio mestiere mi sono sentito completamente solo. Come un cane sciolto. O meglio, come un cane in chiesa. Come se fossi rimasto l'ultimo uomo sulla terra. Su pianeta abitato da zombie. E cosa può fare un uomo rimasto solo, su un pianeta disumanizzato, o su un'isola, o in un faro, o in un reparto psichiatrico blindato, se non scrivere, raccontarsi, provare a rimanere se stesso, o, perfino, rimanere vivo, per non lasciarsi andare alla disperazione, e cercare alleati, altri come lui: i riluttanti appunto." (ib.,
p11)

Trovo che queste parole di Piero Cipriano siano bellissime e particolarmente adatte per concludere questa breve recensione: molto meglio che una puntuale disamina capitolo per capitolo delle diverse tematiche trattate con competenza e con forte attitudine critica.


(Risguardo di copertina) "Ho vissuto metà del mio tempo nei luoghi dove si deposita la follia più indesiderata e tutta la possibile devianza dalla norma.
"E ho visto, da questo luogo privilegiato, in che modo gli uomini si trasformano, sia i curanti che i devianti
".
Si chiude con queste crude storie che raccontano il mal di vivere della nostra epoca la trilogia della riluttanza iniziata con "La fabbrica della cura mentale" e proseguita con "Il manicomio chimico".
A partire dalla sua frequentazione quotidiana con la sofferenza psichica, Cipriano si misura con quella stanchezza esistenziale, sbrigativamente definita depressione, che la nostra società antropofaga prima alimenta e poi cerca di etichettare con quel furore diagnostico e categoriale che le è proprio. A ogni deviante la sua etichetta, medica o psichiatrica, ma anche sociologica o giudiziaria, che così diventa una sorta di tatuaggio identitario, un destino imposto da cui tutto il resto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che ognuno potrà o non potrà fare (ed essere) nella sua vita.

Piero Cipriano (DAL WEB)

L'autore. Piero Cipriano (1968), medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d'Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. Autore di numerosi saggi sull'argomento, con Elèuthera ha pubblicato «la trilogia della riluttanza», che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale (2022 n.e.), anche Il manicomio chimico (2023 n.e.) e La società dei devianti (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).

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1 dicembre 2023 5 01 /12 /dicembre /2023 06:20
Piero Cipriano, La fabbrica della salute mentale, Eleuthera

Ho scoperto solo adesso - molto di recente - Piero Cipriano, forse perché - avendo ripreso dopo anni di pensionamento a lavorare in ambito psichiatrico - in una CTA per essere precisi - sto sentendo il bisogno di aggiornamento intellettuale e di contributi critici allo stato attuale della Psichiatria e che diano nello stesso tempo dei colpi all'impero dello Psicofarmaco e di Big Pharma.
Sino ad ieri, in sostanza, non sapevo nulla di Piero Cipriano e, quindi, come sono arrivato ai suoi libri? 
Semplice! 
Ho sentito parlare di lui in una trasmissione su RAI 3 (che è quella gestita al mattino da Nicola La Gioia ed altri che si alternano nel commentare quotidianamente una selezione di articoli culturali comparsi nella stampa e sul web) nel corso della quale il collega Cipriano veniva anche brevemente intervistato (in occasione della recente uscita del suo più recente volume "Ayahuasca e cura del mondo", Politi Seganfreddo Edizioni, 2023) e ho trovato che ciò che egli aveva da dire fosse estremamente stimolante, ed anche critico.

Ho anche percepito che Cipriano si poneva come una voce fuori dal coro.
Di conseguenza, sono passato immediatamente dal dire al fare e ho ordinato alcuni dei suoi volumi disponibili: e subito mi sono immerso nella lettura de "La fabbrica della salute mentale" (Eleuthera, 2012 con una nuova edizione nel 2019). 
Il caso ha voluto (senza che io ne avessi alcuna consapevolezza nel momento in cui l’ho scelto come prima lettura) che si trattasse anche del primo volume della trilogia dello "psichiatra riluttante" che poi è lo stesso Cipriano che si confessa ed espone le sue idee di psichiatra libertario e che dice no (almeno cerca di farlo) all’uso estensivo delle “fasce” nei “moderni” reparti di psichiatria, per non parlare di altri aspetti coercitivi (come l'uso delle sbarre alle finestre o delle porte chiuse a chiave, come è nella maggior parte dei circa 300 SPDC in Italia, salvo poche e lodevoli eccezioni, come ad esempio quella rappresentata dall'SPDC di Ravenna dove gli operatori hanno deciso nel 2021 di passare ad una pratica di cura e assistenziale e di cura no restraint, ma ne esistono altri in tutta Italia, forse una quindicina in tutto).
Finito questo volume  (anzi  sarebbe meglio dire, avendolo "divorato", mi correggo), sono passato alla lettura di quello che è la seconda pietra miliare della trilogia, sempre pubblicato da Eleuthera, ovvero Il Manicomio Chimico
In questo primo approccio,  ho apprezzato la lucidità e la nettezza di scrittura di Cipriano, il suo modo di dire le cose utilizzando registri narrativi diversi tra la puntata diaristica, il saggio breve, le modalità proprie del pamphlet critico e accusatorio (ma sempre documentato): questo apprezzamento scaturisce,  ovviamente, da una condivisione intellettuale di alcune delle tematiche esposte.
Apprezzo la scrittura di Cipriano per il semplice motivo che mi ci rispecchio molto e torno a rivedere le molte battaglie culturali combattute contro i pregiudizi e gli stereotipi, quando vennero fondati i primi servizi per il trattamento delle tossicodipendenze sul finire degli anni Settanta e nessuno sapeva ancora nulla di questa problematica, in assenza persino di una letteratura decente che potesse servire da guida. Ricordo le molte battaglie intraprese anche soltanto per potersi intendere con altri colleghi operanti nello stesso settore e che avevano concezioni delle tossicodipendenze e della loro cura radicalmente diverse. Battaglie che sovente dovevano necessariamente partire da una definizione linguistica degli ambiti di cui dovevamo occuparci e della capacità di sfrondare dal discorso tutte le aggiunzioni e ridondanze connotative legate a termini di comune uso come "droga" e "drogato".
Scrivere serve, se attraverso la scrittura si divulga un pensiero "altro", se si viene letti e se, attraverso ciò, si creano sacche di pensiero alternativo rispetto a prassi consolidate, erronee o fondate su presupposti pseudoscientifici, le quali poi possono diventare caposaldi per un possibile cambiamento di paradigma più estensivo.
E ricordo appunto che, ai tempi della mia pratica pionieristica nel campo delle tossicodipendenze giovanili, scrivevo e scrivevo, quando possibile pubblicavo, coinvolgendo anche altri in questi progetti di scrittura, cercando di dire le cose come stavano, di correggere il tiro, creare degli assessment innovativi e le premesse di buone prassi.
Cipriano è un basagliano convinto, di seconda generazione, decisamente critico nei confronti della cosiddetta "restraint" psichiatria (cioè della psichiatria che pratica la contenzione, a tutti i livelli: porte chiuse e finestre sbarrate, contenimento chimico, uso delle fasce) che, di fatto, dietro un esile paravento di scientificità e di modernizzazione tradisce la spirito della riforma del 1978 che abolì i manicomi vecchia maniera, ma è anche un fervente seguace delle idee e delle pratiche di Tobie Nathan, un altro grande pensatore e clinico (nell'ambito clinico -psichiatrico applicato al presunto "diverso", che pure io apprezzo e che ho letto, traendone molti spunti di riflessione e di ispirazione.
Indubbiamente, sia Basaglia sia Nathan si possono considerare due maestri del pensiero (nel senso più lato), ma anche attivamente propositori di "buone" pratiche eticamente fondate, soccorrevoli, empatiche e attente al benessere effettivo di chi chiede di essere curato, in forme e secondo modalità che siano inclusive e fondate sulla comprensione, in primo luogo e sul desiderio di risolvere i conflitti là dove essi si sono generati.
La lettura di alcuni capitoli de La Fabbrica della Salute mentale mi ha indotto a riprendere alcune delle pagine di Basaglia che hanno fatto parte del mio bagaglio formativo e culturale (anche se certamente non incluso nel programma di studi della scuola di specializzazione che frequentai a suo tempo).
Basaglia - se ci si pensa bene - risulta tuttora troppo scardinante rispetto ad un approccio che vuole essere di controllo e sedazione, "clinostatico" come dice Cipriano (con l'ammalato sdraiato sul letto, quindi - fondamentalmente in posizione down o - per tornare a Basaglia - in un'atmosfera in cui si pratica la medicina del "corpo morto") ma di base scarsamente evolutivo in termini di effettivo miglioramento della salute psichica delle persone sofferenti, poiché manca quasi del tutto un approccio "umanistico" e il supporto di strutture territoriali agili ed efficienti che consentano di sviluppare programmi articolati di psichiatria di comunità con una possibilità di presa in carico H24 di un paziente, ma direttamente a contatto del territorio in cui vive, là dove sono sorti i problemi e là dove essi possono essere risolti, soprattutto per quanto concerne conflitti e contraddizioni.
Leggere le considerazioni di Cipriano a distanza di quasi cinquant'anni dal fatidico 1978, anno dell’entrata della legge che sancì l’abolizione dei manicomi e l’avvio di una “nuova” psichiatria, spinge a riflettere sul fatto che, al di là dell'apparente rinnovamento (la chiusura dei manicomi e a partire dal 2013 anche dei Manicomi Giudiziari), si sia creato un mondo di assistenza psichiatrica, fondato su di una "manicomalità diffusa" e del crescere di quello che Cipriano con un ardito neologismo definisce "terricomio" (in cui al posto di pochi giganteschi manicomi abbiamo adesso una quantità impressionante di mini-manicomi sparsi nel territorio a degenza breve come sono appunto gli SPDC oppure a degenza medio-lunga come sono alcune case di cura convenzionate che sono in condizione di tenere i pazienti per lunghi periodi di tempo oppure le cosiddette CTA, ovvero le Comunità Terapeutiche Assistite per pazienti psichiatrici.
Cipriano si definisce uno psichiatra riluttante, prendendo a prestito la parola dal titolo di un libro da lui letto (anche io lo conosco) che è "Il fondamentalista riluttante": un romanzo in cui fa da protagonista un fondamentalista (che tale è stato addestrato ad essere) ma che tuttavia attenendosi alla propria coscienza e a valori etici più universali, non vuole esserlo: ed è per questo motivo un "riluttante", uno psichiatra che lotta quotidianamente per evitare i compromessi e per improntare la propria pratica quotidiana a principi etici irrinunciabili.

 

(quarta di copertina) Nonostante siano passati oltre quarant'anni dall'approvazione della legge che avrebbe dovuto sancire il superamento definitivo della barbarie manicomiale, Piero Cipriano – psichiatra riluttante, come si definisce – ci racconta in presa diretta cos'è oggi un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Grazie al suo sguardo impietoso, quei luoghi che avrebbero dovuto garantire una gestione umana ed efficace delle crisi psichiatriche ci appaiono invece come le nuove roccaforti di una rinata «cultura manicomiale» in cui il potere del sano sul malato è ancora gestito in modo arbitrario e burocratico. 
Con alcune notevoli differenze rispetto al passato: se il manicomio tradizionale ricordava un campo di concentramento, l'attuale SPDC ricorda piuttosto una fabbrica, dove il primario è il direttore, lo psichiatra il tecnico specializzato addetto alla catena di montaggio umana e il malato la macchina biologica rotta da aggiustare. 
E quando il farmaco non basta, ecco che tornano le fasce: proprio come nei vecchi manicomi.

 

L’autore. Piero Cipriano (1968), medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d'Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. 
Autore di numerosi saggi sull'argomento, con Elèuthera ha pubblicato «la trilogia della riluttanza», che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale (2022 nuova edizione), anche Il manicomio chimico (2023, n.e.) e La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante) (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).

 

Piero Cipriano. Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Eleuthera

Piero Cipriano con Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante (uscito per la prima volta nel 2015 e riedito nel 2023 per i tipi di Eleuthera) prosegue le riflessioni iniziate in “La fabbrica della salute mentale”. 
Si muove anche qui tra memorie personali, riflessioni legate alla sua pratica lavorativa ed anche piccoli voli fantastici in cui elementi della realtà si mescolano con suggestioni letterarie discendenti da alcuni dei suoi autori preferiti.
Cipriano - come già detto - è un basagliano convinto e ciò è un grande pregio in un momento in cui, mentre ci avviciniamo al cinquantenario della Legge che ha abolito i manicomi e, dopo il 2013, anche i manicomi giudiziari, Basaglia e le sue critiche destruenti contro qualsiasi forma di psichiatria costrittiva, sembrano essere dimenticati, anzi radicalmente rimossi dalla coscienza collettiva.
Cipriano, nel suo assetto di seguace delle idee di Basaglia ed essendo contrario a qualsiasi pratica restrittiva sia essa contenzione fisica (uso delle fasce, sbarre alle finestre e porte chiuse)  o farmacologica ad libitum, si definisce anche uno psichiatra “riluttante” nel senso di essere portatore di una voce critica nei confronti delle pratiche imperanti (quelle del farmaco e dei molti modi per esercitare forme di costrizione), all'infuori di poche isole virtuose. 
Più avanti, Piero Cipriano si definirà anche uno psichiatra “anarchico” in quanto sostenitore del principio che uno psichiatra deve essere in condizione di essere in pace con la propria coscienza, dando sempre maggior risalto a decisioni e a modus operandi che siano “etici” anche al costo di scardinare pratiche consuetudinarie.
Le riflessioni di Cipriano sulle prassi psichiatriche attuali sono imbevute di un profondo senso etico.
Per tutti questi motivi, Cipriano è spesso entrato in rotta di collisione con il il sistema dominante e da parte di alcuni si è meritato la nomea di essere uno “psichiatra eccentrico”.
Ho già letto “La fabbrica della salute mentale” e non posso non ammirare la ricchezza di contenuti che traspare da questo secondo volume e la coerenza profonda delle riflessioni che vi vengono sviluppate.
Questo volume, ben più corposo del precedente, meriterebbe una disamina dettagliata dei suoi contenuti e magari lo farò in altra sede. Tra i diversi argomenti dettagliati vi è una disamina-sunto dell'interessantissimo studio di Robert Whitaker, Indagine su di un'epidemia (Fioriti Editore, 2013) che in maniera molto documentata e rigorosa sfata miti della moderna psichiatria farmacologica e mostra la nuda verità di un incremento inarrestabile delle patologie psichiatriche, suggerendo l'ipotesi (con il sostegno di studi effettuati) che sia  proprio l'utilizzo degli psicofarmaci a incrementare l'incidenza e la cronicizzazione delle patologie psichiatriche. 

 

Robert Whitaker, Indagine su di un epidemia, Fioriti, 2013


 

(sintesi del volume di Whitaker) Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci.
Se quello che ci è stato raccontato finora è vero, cioè che la psichiatria ha effettivamente fatto grandi progressi nell’identificare le cause biologiche dei disturbi mentali e nello sviluppare trattamenti efficaci per queste patologie allora possiamo con concludere che il rimodellamento delle nostre convinzioni sociali promosso dalla psichiatria è stato positivo.
Ma se scopriremo che la storia è diversa – che le cause biologiche dei disturbi mentali sono ancora lontane dall’essere scoperte e che gli psicofarmaci stanno, di fatto, alimentando questa epidemia di gravi disabilità psichiatriche – cosa potremo dire di aver fatto? Avremo documentato una storia che dimostra quanto la nostra società sia stata ingannata e, forse, tradita.


Quella del secondo volume della trilogia dello psichiatra riluttante è una lettura che consiglio caldamente a chiunque desiderasse farsi un’idea critica dello stato dell’arte del sistema dell’assistenza psichiatrica in Italia, oggi


(Risguardo di copertina) Oggi il manicomio non è più costituito da fasce, muri, sbarre, ma è diventato astratto, invisibile. Si è trasferito direttamente nella testa, nelle vie neurotrasmettitoriali che regolano i pensieri. Il vero manicomio, oggi, sono gli psicofarmaci. Stiamo oltretutto assistendo a una vera e propria mutazione antropologica: agli psichiatri, e alle case farmaceutiche, non bastano più i malati da curare, ma servono anche i sani. Lutto, tristezza, rabbia, timidezza, disattenzione, non sono stati d'animo fisiologici, ma patologie da curare con il farmaco adatto. Dal suo punto di osservazione privilegiato, Cipriano, il nostro psichiatra riluttante, sottopone a una critica severa i principali dogmi della psichiatria «moderna», a cominciare dalla diagnosi, ovvero l'urgenza burocratica di considerare «malattia » qualunque disagio psichico, cui segue l'immancabile prescrizione di un farmaco. E quando i farmaci non sono sufficienti, ritorna l'uso nascosto delle fasce e dell'elettrochoc. È questo il nuovo manicomio, meno appariscente, più discreto, in cui diagnosi e psicofarmaco dominano la scena.

Seguendo il link sotto potete accedere alla recensione del terzo volume della trilogia dello psichiatra riluttante

La società dei devianti. Continuano - in un terzo volume - le riflessioni e narrazioni di Piero Cipriano, psichiatra riluttante

 

Quello linkato sopra è un articolo di Zanfini Roberto, Crescenti Maria Cristina, Correddu Giuseppina, Gottarelli Lorenzo, Linari Federica, Ricci Manuela, Bandini Barbara (SPDC di Ravenna, AUSL della Romagna)

L’articolo descrive come il SPDC di Ravenna sia divenuto, dal 2016 un reparto no-restraint. Viene descritto come il no restraint non sia una posizione ideologica ma un metodo di lavoro che, se applicato, può portare al superamento della contenzione meccanica. Alla base del no restraint vi sono: a) fattori architettonici del reparto b) organizzazione interna e gestione delle interfacce; c) attività clinica e assistenziale; d) formazione.
Vengono portati dati a supporto del fatto che il no restraint, oltre che etico, riduce il numero delle giornate perse per infortunio del personale, il numero degli episodi di aggressività nei confronti del personale, la spesa sanitaria complessiva per ricovero. Infine vi sono suggestioni che possono anche essere ridotte le giornate in TSO. Servono comunque ulteriori studi a supporto di questi dati preliminari.

Questo il mio pensiero, scaturito da una mia riflessione sul campo, dopo il mio rientro lavorativo, presso una struttura che si occupa di pazienti psichiatrici.

Su oltre trecento SPDC sono solo una trentina quelli in cui non si pratica contenzione (bandita oggi per legge, ma praticata per "necessità"). Rimangono delle case di cure per disturbi mentali che accolgono pazienti per periodi protratti di tempo o, in alternativa, in alcune regioni si è attivata una rete di CTA a gestione privata e convenzionate con le Regioni, in cui i pazienti psichiatrici possono stare per periodi protratti (in Sicilia sino a sette anni (con un conteggio di tipo cumulativo che riguarda anche periodi diversi, intervallati con altri tipi di intervento). In molte regioni pochissimo si è investito per sviluppare degli interventi intermedi, diffusi nel territorio con strutture di accoglienza (Day Hospital, strutture di accoglienza, Centri diurni) con una modalità operativa H24 in modo che le famiglie e gli stessi individui possano ricorrere in tutte le diverse circostanze.
Vi è un gap enorme, incolmabile tra gli SPDC e le strutture di ricovero e residenziali a lungo termine, un vuoto che non potrà mai essere colmato se le diverse regioni continuano a restringere i budget della Sanità e, nello specifico, quelli assegnati alla Salute Mentale.
Cipriano nelle sue analisi ha ragione: nell'assenza delle regioni, nella mancata pianificazione di interventi capillari ed organici nel territorio, è ben difficile costruire buone prassi e cercare di ridurre quanto più sia possibile l'impregnazione farmacologica dei pazienti psichiatrici.
E questa è purtroppo la nostra realtà regionale (in Sicilia).
E' chiaro che quanto più si diffondono le CTA a gestione privata (che a tutti gli effetti rappresentano un business lucrativo) convenzionate con la Regione, tanto meno la Regione investirà nello sviluppo di interventi organici nel territorio.
Spinto dall'entusiasmo derivante dalla scoperta degli scritti di Cipriano, l'ho contattato attraverso i social e gli ho scritto una breve lettera per raccontargli la mia esperienza e desideroso di un confronto.

Buongiorno, Piero!
Sono un collega psichiatra, ormai un po’ anzianotto
Dopo anni di quiescenza (sono andato in pensione nel 2008) ho ripreso a lavorare in una struttura convenzionata, una CTA
Sto toccando con mano le incongruenze del sistema dell’assistenza psichiatrica qui in Sicilia
Mancano quasi del tutto le strutture intermedie, i CSM aperti H24 sarebbero un’utopia (e se proposti a chi governa e decide sarebbero considerati una blasfemia)
Manca il personale per far funzionare adeguatamente le strutture esistenti
Per esempio, in uno CSM decentrato un solo psichiatra, in un SPDC nella provincia di Palermo solo due, tanto per fare esempi di cose di cui sono a conoscenza.

Le CTA a gestione privata sono di fatto dei mini-manicomi territoriali per degenze medio-lunghe (con proroghe di sei mesi in sei mesi, sino ad un massimo di sette anni).
Dopo, il nulla.
Ho scoperto casualmente di te e dei tuoi libri che sto leggendo con molto interesse ed apprezzamento
Nel tuo modo di accostarti alle tematiche per sviscerarne in modo critico ritrovo tanto di me stesso giovane, anche per via del tuo stile non tanto di saggista ma di giornalista “gonzo” che ama mettere se stesso in gioco anziché ricorrere alla pratica del giornalismo in cui chi scrive si defila e mantiene una sua neutralità.
La lettura dei tuoi libri procede a gonfie vele e sono già al terzo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, mentre in parallelo leggo a piccoli pezzi quello sull’ayauasca.

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17 novembre 2023 5 17 /11 /novembre /2023 05:49
Painkiller. L'impero americano e la grande epidemia americana di oppiacei (titolo originale: "Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic", nella traduzione di Chiara Libero), opera di inchiesta dello scrittore e giornalista Barry Meier

Painkiller. L'impero americano e la grande epidemia americana di oppiacei (titolo originale: "Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic", nella traduzione di Chiara Libero), opera di inchiesta dello scrittore e giornalista Barry Meier, pubblicato nel 2022 da Mondadori (collana Oscar nuovi bestsellers), è una lettura di estremo interesse, poiché amplia di molto lo sguardo che la recente miniserie Netflix ha consentito di gettare sulla epidemia da oppiodi che si è registrata negli Stati Uniti dalla fine degli anni novanta del secolo scorso al 2020, avendo al suo centro l'Oxycontin, l'oppiaceo (la cui molecola è ricavata dalla tebaina, uno degli alcaloidi dell'oppio) millantato come “a lento rilascio” e sicuro, messo a punto dalla Purdue Pharma, azienda di proprietà della famiglia Sackler da sempre imprenditori del farmaco.
E’ stata un'epidemia di impressionanti dimensioni dal momento che si calcola che i morti per cause dovute/correlate all'assunzione di Oxycontin, siano stati oltre 250.000.

Il libro mette in luce con molta più forza le basi operative da cui è partita la famiglia Sackler che ha fondato, di fatto, le tecniche dell'orientamento marketing aggressivo dei farmaci, con tutta una serie di accorgimenti strategici, tra cui anche il controllo delle pubblicazioni " o scientifiche" o presunte tali. Tecniche che, nello specifico degli oppiacei "terapeutici" erano già state collaudate con il farmaco MS Contin (Morphine Solphate, in cui come per Oxycontin, il "contin" sta per "continous", ossia "a rilascio prolungato".
Il lancio di MS Contin e di OxyContin, dopo, si inserisce peraltro in un clima in cui sin dalla fine degli Ottanta si comincia a ragionare diversamente sulla terapia del dolore e sulla necessità di trovare dei farmaci adatti al trattamento del dolore cronico anche al di fuori delle situazioni oncologiche terminali.
In questo terreno la Purdue Pharma, grazie anche alle società correlate (e controllate dalla famiglia Sackler) si inserisce perfettamente con il suo marketing aggressivo e con il sistema da un lato di sistematica disinformazione indirizzata ai medici di base, cioè ai GP e non solo agli specialisti di terapia del dolore, e dall'altro di un sistema di incentivi ai medici prescrittori, oltre che con una costante minimizzazione del fenomeno della diversione sul mercato illegale nei modi più diversi sino ad arrivare alle cosiddette "

".
Il libro-inchiesta di Meier racconta tutto questo in modo avvincente e con ricchezza di particolare e la sua narrazione si legge come un romanzo.
Vi è naturalmente un atto d'accusa nei confronti del Big Pharma e della capacità delle lobby farmaceutiche di manipolare l'opinione pubblica, i medici, i politici nel perseguimento ostentato dei propri interessi di profitto.

Il libro, ma anche le due diverse miniserie che sono state prodotte, ispirandosi a questi drammatici eventi, inducono a riflettere e a porsi degli interrogativi sulla forza iatrogenica dei farmaci quando i medici non prescrivono più secondo scienza e coscienza, ma perché forzosamente indotti da un marketing aggressivo e mistificatorio, oltre che ad essere incoraggiati ad un un utilizzo di certi farmaci "pericolosi" in quanto generatori di dipendenza, seguendo delle indicazioni "off label", senza le necessarie tutele e essendo privi di un'informazione sincera e disinteressata. 
 

Painkiller. L'impero americano e la grande epidemia americana di oppiacei (titolo originale: "Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic", nella traduzione di Chiara Libero), opera di inchiesta dello scrittore e giornalista Barry Meier

(soglie del testo) A metà fra il thriller medico e giudiziario e l'investigazione finanziaria, Pain Killer è soprattutto l'amaro, sconvolgente resoconto della tragedia che ha coinvolto un'intera nazione.
Tra il 1996 e il 2017 circa 200.000 americani sono morti di overdose da antidolorifici regolarmente prescritti, una vera e propria epidemia scatenata dal marketing aggressivo di Purdue Pharma attorno al suo OxyContin, il cui principio attivo è la morfina. Intere famiglie di ogni classe sociale sono state devastate e numerose aziende sono state danneggiate, mentre i proprietari della casa farmaceutica, i "filantropi" Raymond e Mortimer Sackler – i cui nomi sono incisi tra quelli dei benefattori dei musei di mezzo mondo – accumulavano notevoli fortune. Barry Meier racconta come Purdue abbia trasformato OxyContin in un affare miliardario: in passato gli oppioidi, potenti antidolorifici, sono stati usati come "ultima spiaggia" da chi non riusciva a placare il dolore con altri farmaci. Ma la comunicazione di Purdue ha illuso i consumatori che Oxy fosse più sicuro dei comuni analgesici. Il che era falso: anche se assunto sotto controllo medico, infatti, dà dipendenza; ma l'azienda ha volutamente nascosto i dati in suo possesso alle agenzie regolatorie, ai medici e ai pazienti. Pain Killer, qui presentato in un'edizione aggiornata, ci fa conoscere chi ha tratto enormi profitti dalla situazione e chi ne ha pagato il prezzo, chi ha tramato nelle sale dei consigli d'amministrazione e chi ha tentato di lanciare l'allarme: Art Van Zee, un medico condotto della Virginia, che ha avvisato le autorità della sempre più diffusa dipendenza da OxyContin; Lindsay Myers, una promettente studentessa liceale che è arrivata a rubare ai propri genitori per procurarsi il farmaco; l'agente della DEA Laura Nagel che ha denunciato Purdue. Dopo decenni di inchieste, Meier dà anche conto di come il Dipartimento di giustizia non sia riuscito a fermare la politica di Purdue e a proteggere i cittadini. A metà fra il thriller medico e giudiziario e l'investigazione finanziaria, Pain Killer è soprattutto l'amaro, sconvolgente resoconto della tragedia che ha coinvolto un'intera nazione.

L'autore. Barry Meier (New York 1949) dopo gli studi alla Syracuse University, ha iniziato a lavorare come giornalista d'inchiesta per il «Wall Street Journal», il «New York Newsday» e il «New York Times». Molte delle sue inchieste hanno portato a interrogazioni al Congresso. Nel 2017 il suo team ha vinto il Pulitzer for International Reporting.


Dal 2023 Painkiller è diventato una miniserie disponibile sulla piattaforma Netflix

Dal 2023 Painkiller è diventato una miniserie disponibile sulla piattaforma Netflix Alla scoperta di Painkiller: serie tv provocatoria, drammatica e basata su eventi reali

Alla scoperta di Painkiller: serie tv provocatoria, drammatica e basata su eventi reali
"Tutto il comportamento umano è costituito essenzialmente da due cose. Fuggire dal dolore, correre verso il piacere". Sono queste le parole pronunciate da Matthew Broderick mentre recita il ruolo di Richard Sackler - presidente di Purdue Pharma, società conosciuta per lo sviluppo di OxyContin - in Painkiller, serie tv provocatoria e drammatica ispirata all'omonimo libro di Barry Meier.
I 6 episodi della miniserie basata su eventi reali sono disponibili sulla piattaforma Netflix dal 10 agosto 2023, e racconteranno la crisi degli oppioidi che ha colpito gli USA negli ultimi vent'anni, uccidendo centinaia di migliaia di persone.
La limited-series originale della piattaforma di streaming è stata ideata da Eric Newman e dai creatori di Narcos, che hanno fondato le sue radici sul libro d'inchiesta del premio Pulitzer Barry Meier, e sull'articolo The Family That Built the Empire of Pain scritto da Patrick Radden Keefe pubblicato dal The New Yorker.
Una miniserie, e un libro, che seguono i responsabili, le vittime e dei cercatori di verità le cui vite sono state alterate per sempre dall'invenzione dell'OxyContin.
“Painkiller” non è il primo prodotto pensato per indagare la storia degli oppioidi sintetici e arriva soltanto due anni dopo di “Dopesick”, incentrata sul medesimo argomento e a sua volta basata su un attento lavoro di ricerca giornalistica. La serie di Fitzerman-Blue e Harpster è infatti tratta da una duplice fonte: l’articolo del New Yorker “The Family That Built an Empire of Pain” di Patrick Radden Keefe, e il libro “Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic” di Barry Meier. Il ritorno sul medesimo argomento non deve assolutamente sorprendere, dato che secondo le stime del National Center for Health Statistics soltanto nel 2021 le morti per overdose negli States collegabili agli oppioidi erano più di 80 mila. Non tutte erano direttamente legate all’OxyContin, ma il suo iniziale utilizzo sfrenato seguito dalle restrizioni arrivate intorno al 2015 ha spinto molti consumatori a cercare soluzioni più economiche e reperibili, come eroina e fentanyl.

"Dopesick - Dichiarazione  di dipendenza" è una mini-serie che racconta la lotta contro la dipendenza da oppioidi negli Stati Uniti, per descrivere i presunti conflitti di interesse tra varie agenzie governative - principalmente la FDA e il DOJ - contro la Purdue Pharma e, infine, sulla causa legale[3] contro la stessa Purdue Pharma per le svariate illegalità occorse durante lo sviluppo, il test e commercializzazione del farmaco denominato Ossicodone. La narrazione ripercorre le vicende reali a partire dai primi anni '90, fino ai primi anni 2000 - attraverso diversi personaggi e storie, partendo dalle miniere della Virginia fino al processo operato dalla Procura Federale dello stato di Washington e del Connecticut.

https://youtu.be/Zr7Q9sIFalo

https://www.my-personaltrainer.it/salute/oxycontin-epidemia-da-oppiodi.html#:~:text=Nel%202022%2C%20Purdue%20Pharma%20fu,vent'anni%20negli%20Stati%20Uniti.

Articoli di approfondimento 

The family that built an empire of pain
https://www.newyorker.com/magazine/2017/10/30/the-family-that-built-an-empire-of-pain

https://www.theguardian.com/books/2021/apr/18/empire-of-pain-review-sacklers-opioids-purdue-oxycontin-patrick-radden-keefe

L'immagine di copertina illustra perfettamente il nucleo centrale attorno cui la Purdue Pharma ha costruito la mistificazione attorno all'Oxy Contin.

Al centro campeggia la pillola incriminata, mentre davanti si vede un mucchietto di polvere bianca che altro non è se non la stessa pillola sbriciolata.

Nell'informazione scientifica fornita ai medici si diceva, in modo non esatto, che la preparazione a rilascio continuo e controllato avrebbe minimizzato i rischi di dipendenza nell'uso terapeutico e soprattutto l'utilizzo improprio in caso di "diversione" delle stesse pillole. 

Ma i consumatori leciti (quelli che ottenevano il farmaco con prescrizione medica) e quelli illeciti si resero presto conto che era sufficiente inumidire la superficie della pillola per poterla sbriciolare e ridurla in una polvere fine.
Quando si compivano questi passaggi si perdeva la possibilità del rilascio controllato del principio attivo e l'efficacia del farmaco si manifestava interamente, in tutta la sua potenza.

Purdue Pharma si è sempre rifiutata - anche di fronte all'evidenza - di accettare questa semplice spiegazione, mettendo in discussione la propria preparazione farmaceutica e la sua presunta (o millantata) sicurezza.

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22 settembre 2023 5 22 /09 /settembre /2023 07:03

...il film vuole essere soprattutto didascalico di un ipotesi che secondo alcuni è remota ed improbabile, secondo altri, invece, sempre più incombente, anche perché l'odierna tecnologia medica ha di fatto abbassato la guardia nei confronti delle malattie infettive che, nel nostro non lontano passato, rappresentavano uno degli spettri più temibili.

Maurizio Crispi (2011)

Contagion (2011, USA)

Contagion è un film del 2011 diretto da Steven Soderbergh, e vede come protagonisti Marion Cotillard, Matt Damon, Laurence Fishburne, Jude Law, Gwyneth Paltrow, Kate Winslet e Bryan Cranston.
Visto nei giorni passati su Amazon Prime, convinto di non averlo mai visto prima.
Se ne era parlato ai tempi dell'esorfio della pandemia e avevo cercato di vederlo, ma niente. Poi, nel 2022 è comparso su Prime.
Se consideriamo che il film di Sonderbergh venne realizzato nel 2011, lo possiamo sicuramente prendere come una realistica (e pessimistica) messa in scena di quanto è avvenuto un decennio dopo e sta tuttora accadendo, con una precisa rappresentazione delle diverse fasi di una pandemia e degli scenari che si vanno via via aprendo.
Vengono vagliate tutte le ipotesi possibili sull’origine del virus letale.

Per alcuni versi il film sembra avere delle doti quasi visionarie per quanto concerne ciò che ci è capitato successivamente a partire dalla fine del 2019 con la pandemia di COVID.

La realtà è che già molti epidemiologi, da tempo, sostenevano che qualcosa del genere sarebbe accaduto, grazie al fenomeno dello spillover.
Il film è narrato in modo spettacolare e coinvolgente e si avvale di un cast di attori davvero eccezionale.
Il film affronta il tema della diffusione di una malattia nuova e letale, causata da un virus trasmesso da goccioline respiratorie e fomiti, del tentativo inutile da parte di ricercatori medici e ufficiali di salute pubblica di identificare e contenere il virus, della conseguente perdita di ordine sociale in una pandemia e dell'introduzione di un vaccino per fermarne la diffusione.
Per seguire diverse trame il film fa uso dello stile multi-narrativo "hyperlink", utilizzato in diversi film di Soderbergh.

A vederlo adesso ci sembra robetta passato. Ma nel 2011 non eravamo ancora pronti a recepire il suo messaggio.



E quella che segue è la recensione che ne scrissi, dopo averlo visto al cinema il 19 settembre 2011.

Contagion (2011)

Contagion è un film del 2011, diretto da Steven Soderbergh, con protagonisti Marion Cotillard, Matt Damon, Laurence Fishburne, Jude Law, Gwyneth Paltrow e Kate Winslet.

«Non parlare con nessuno. Non toccare nessuno» (tagline del film)

Il film è incentrato sulla minaccia rappresentata da un contagio mortale simile all'influenza suina e su un team internazionale di medici assunti dal CDC per affrontare l'epidemia.
Dopo essere stata ad Hong Kong in viaggio d'affari, Beth Emhoff crolla a terra apparentemente per una banale influenza. Portata velocemente in ospedale, muore poco dopo il suo ricovero a causa di una malattia sconosciuta. La donna viene quindi indicata come la prima persona conosciuta ad aver contratto questa malattia.
Nella ricerca di una possibile cura il dottor. Ellis Cheever, capo del CDC, incarica la dottoressa Erin Mears di indagare sui primi casi di morti negli Stati Uniti. Contemporaneamente la dottoressa Leonora Orantes viene inviata in un villaggio cinese alla ricerca del paziente zero.
Negli anni più recenti l'epidemia virale "aviaria" o quella detta "suina" hanno intimorito l'opinione pubblica, hanno seminato nel mondo intero panico e timori relativi all'allargarsi a macchia d'olio del contagio.
E' stato tutto gonfiato dai mass media, a loro volta "imbeccati" nel modo giusto da fonti accreditate che però erano interessate affinché l'opinione pubblica e le relative decisioni politico-strategico si muovessero in un certo modo piuttosto che in un altro. E ci sono riuscite egregiamente: in Italia, il Servizio Sanitario ha acquistato decine di migliaia di dosi vaccinali che poi sono rimaste inutilizzate, tanto per fare un esempio.
In simili casi, alla luce degli eventi recenti, c'è da diffidare degli allarmismi che sono in parte pilotati. Tuttavia nel mondo della globalizzazione in cui tutti si muovono con una velocità pazzesca da un punto all'altro del mondo, la possibilità di una diffusione epidemica che esce fuori dal controllo è pur sempre una realtà da tenere nel debito conto.
Per non parlare poi delle scorte (sicuramente non distrutte) di pericolosi agenti patogeni prodotti per uso militare e che, da qualche parte, come segnalano fonti accreditate continuano ad essere conservati.
Per non parlare di agenti infettivi noti, nei cui confronti si è abbassato il livello di guardia: sempre fonti accreditate sostengono che se, per ipotesi, si dovesse riaccendere il vaiolo (come?

Anche qui si fa ancora riferimento alle armi biologiche accantonate e secretate) il mondo sarebbe impreparato ad affrontarlo adeguatamente, perché le scorte di vaccino sono in pratica del tutto esigue. 
Nel 1918 ci fu un'impressionante epidemia influenzale prodotta da un ceppo virale particolarmente aggressivo che impazzò nel mondo, provocando ben 18.000.000 di morti.
Ecco, il film Contagion, fa riferimento a tutto questo, mettendo in evidenza come la causalità dei contatti, a partire dal punto 0 (quello della prima comparsa dell'infezione nella popolazione) e la velocità degli spostamenti possano provocare una rapida diffusione del morbo, con l'accendersi di focolai sparsi in tutti i punti del globo e, soprattutto nelle realtà, ad elevata densità abitativa, le grandi metropoli in particolar modo.
Tutto il resto è una corsa contro il tempo: l'identificazione dell'agente virale, il tentativo di dar vita con un ceppo attenuato un vaccino efficace, la sperimentazione di esso.
Il ritmo del film è abbastanza incalzante, l'esito è scontato, ma con un conto finale di oltre 33.000.000 morti.
Bravi gli attori: un accorato Matt Damon, misteriosamente immune, che tenta di salvare la figlia dall'esposizione, una Gwineth Paltrow scelta per impersonare il caso n°1 e una serie di altri attori, bravi interpreti di parti da routine che vengono sviluppate prescindendo dalla situazione specifica (l'infezione virale): il punto centrale è quello di studiare come si sviluppano le reazione dei diversi personaggi in una situazione "estrema", di sconvolgimento del proprio assetto esistenziale e di incombente pericolo di vita.

 

Del resto, il film vuole essere soprattutto didascalico di un ipotesi che secondo alcuni è remota ed improbabile, secondo altri, invece, sempre più incombente, anche perché l'odierna tecnologia medica ha di fatto abbassato la guardia nei confronti delle malattie infettive che, nel nostro non lontano passato, rappresentavano uno degli spettri più temibili.
 

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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