Non avevo mai visitato le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, sino a pochi giorni fa.
Per motivi diversi mi ero astenuto: forse, pensavo che sarebbe stata un'esperienza sgradevole, oppure ricordavo di quando la mamma mi raccontava che durante la sua prima visita negli anni Sessanta, improvvisamente si spense la luce e lei rimase al buio, assieme a quelle mummie (ebbe a nutrire il sospetto che fosse stato il frate custode a farle uno scherzo di dubbio gusto).
E' capitata l'occasione e sono andato.
Non parlerò del luogo di cui si sa tanto e di cui tanto è stato scritto, bensì delle mie sensazioni
Strane sensazioni.
La prima è che, considerando i racconti di coloro che, tra le mie conoscenze, le hanno visitate, i resoconti di viaggiatori illustri e le numerose foto disponibili sia nella carta stampata sia internet, non ho avuto sensazioni di spaesamento: bensì la sensazioni di esserci già stato, una sorta di dèjà vu, insomma.
La seconda è stata quella di potere osservare una rappresentazione della morte in modo distaccato: è come se la miriade di corpi mummificati appesi e disposti in file ordinate non riconducessero all'orrore oppure al terrore per la morte, ma fossero soltanto spoglie mortali, vuote, private di ogni implicazione spaventosa. Forse anche perchè siamo abituati alla rappresentazione della morte e del cadavere nei fumetti e nei film di animazione.
Le teste cadenti, le mandibole cascanti, gli abiti polverosi oppure le tele di sacco in cui in modo grottesco sono infilati alcuni dei corpi, le orbite vuote, i nasi mancanti, quei ciuffi di capelli sopravvissuti, fossero piuttosto che uno stimolo a riflettere sulla morte e sulla fine di tutte le vanità, una vacua rappresentazione del nulla che ci attende: una rappresentazione messa in scena in una sorta di iterazione ossessiva, quasi in un mantra dalle infinite variazioni, in una dimensione di horror vacui, tanto che quando capita di arrivare ad una galleria vuota, cioè con le nicchie prive di inquilini, si ha un'improvvisa sensazione di spaesamento.
Se non altro, quando si va al cimitero e ci sofferma davanti ad una lastra di pietra, posta nel terreno, oppure nella contemplazione di una lapide verticale o di una cappella funebre, con tutti i relativi orpelli, ci si ponesse di fronte ad un'assenza, all'assenza dei nostri cari più recenti o degli antenati che possono vivere solo se sono stati instaurati, e di conseguenza installati, nel nostro immaginario e nelle nostre emozioni con un diuturno (e talvolta faticoso) lavoro di elaborazione e rielaborazione (V. Despret, Non dimenticare i morti. I racconti di quelli che restano, Nuova Ipsa Editore, 2017, in particolare il cap. 1, Prendersi cura dei morti).
La terza cosa che più mi ha impressionato è stata quella di vedere nei volti delle mummie, ghigni e smorfie grottesche, come se alcuni dei morienti avessero avuto un trapasso doloroso e faticoso (e che non fossero stati ricomposti, come si fa oggi per rendere il defunto "presentabile" ai visitatori in cordoglio), mentre in altri casi mi è sembrato di cogliere in quegli sguardi vuoti curiosità e sorpresa, talaltra meraviglia.
Forse potrei aggiungere una quarta cosa che è quella del progressivo annichilimento delle salme, malgrado l'utilizzo di questo tipo di sepoltura, come se il tempo, grande scultore, finisse con il livellare tutto, riducendo comunque vesti, orpelli e carne, in ossa e, alla fine, in polvere.
I corpi esposti sembrano farsi via via più ristretti, più corti, più rinsecchiti, più fragili, in un continuo processo di ridimensionamento. E, a fronte di questo processo di progressivo annichilimento accentuato dalle teste reclini, dalle mandibole cascanti da quei sorrisi o smorfie o ghigni talvonta totalmente edentuli, quasi ad accentuare il ritorno di ogni creatura af uno stato larvale, crea un forte contrasto il fatto che qualche cosa delle vanità terrene sia stata mantenuta, essendo stati suddivisi gli spazi in cui sono collocati i corpi in categorie che, in qualche modo, fanno riferimento allo status che il defunto aveva avuto in vita, assieme - in taluni casi - agli abiti (ad esempio, di rigore per i cosidetti "professionisti", alloggiati in una specifica ala, è la giacca o la marsina).
Le Catacombe dei Cappuccini furono utilizzate sino a oltre il 1864: fanno fede di ciò alcune delle targhette applicate ai corpi che recano la data della morte (e a volte della nascita) del soggetto. Mi fa impressione pensare che mia madre che visitò questo sito negli anni Sessanta del secolo scorso, abbia potuto vedere queste salme in uno stato totalmente diverso, probabilmente, meno prossime, cioè al trasformarsi in larve e e polvere.
Le Catacombe dei Cappuccini (foto di Maurizio Crispi)
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Catacombe dei Cappuccini di Palermo
Scopri tutti i segreti delle Catacombe dei Cappuccini di Palermo e di Rosalia Lombardo, la mummia più bella del mondo.
Lo stato di conservazione degli innumerevoli cadaveri esposti rendono il cimitero del Convento dei Frati Cappuccini, conosciuto come le Catacombe dei Cappuccini di Palermo, uno dei luoghi più impressionanti da visitare al mondo. Uno spettacolo macabro che mette in evidenza gli usi, i costumi e le tradizioni della società cittadina palermitana che visse dal XVII al XIX secolo. Un patrimonio culturale unico nel suo genere che in tanti secoli di storia ha attirato e affascinato curiosi da tutto il mondo, tra cui moltissimi intellettuali, poeti e scrittori come Alexandre Dumas, Mario Praz, Guy de Maupassant, Fanny Lewald e Carlo Levi. Un luogo talmente suggestivo cui non rimase insensibile neppure Ippolito Pindemonte che visitò le Catacombe dei Cappuccini il 2 novembre 1777 e le decantò nei versi dei suoi "Sepolcri": "Morte li guarda e in tema par d'aver fallito i colpi."
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