Nel lessico italiano esiste l'espressione "parlare a vanvera" che significa in sostanza "dire cose inutili e spropositate", il che accade quando - per usare un'altra epsressione - qualcuno comincia a "dare fiato alla bocca".
Non è comunemente riconosciuta l'origine dell'espressione.
Per esempio questo è quello che si ottiene in campo etimologico, facendo una ricerca in internet su questa locuzione che sarebbe in uso almeno dal 1565 nel senso di "a casaccio, senza fondamento, senza senso".
E' attestata nell'uso familiare del parlare toscano, in specie fiorentino. Incerta è la sua etimologia, che è però tutta all'interno di modi di dire toscani: "a bambera", "a fanfera".
A fanfera [La Crusca nota a bambera, a vanvera, a fanfera; quest'ultimo è più comune nella lingua parlata. Ma la radice pare qualcosa di simile a vano] è meno che a caso; vale: senza la debita meditazione e cautela. Chi fa a caso non prevede né provvede; chi a fanfera, non può talvolta provvedere anche quel tanto che vorrebbe [Davanzati: « Corrono a combattere alla impazzata, tirando a vanvera nel buio ». Allegri: « Non usavano i vecchi nostri far le cose a vanvera ». Franzesi: « In queste rime, a vanvera dettate »]. Uomo a caso, diciamo, facendone come un aggettivo; non, uomo a fanfera.
Ma questo lemma nulla ci dice sull'origine della locuzione stessa, forse perchè proprio attorno a questa origine si è creata una certa pruderie.
Si sarà sorpresi di apprendere che, in un lontano passato quando ancora imperversavano le epidemie sulla cui origine e diffusione dominavano le teorie "miasmatiche", ci si convinse che anche le flatulenze potessero esserne una delle cause, in quanto fenomeni che ammorbavano l'aria.
Entrarono così in uso degli speciali dispositivi che servivano o a raccogliere le flatulenze stesse, oppure ad allontanarle dalle persone che le emettevano.
E la Storia dell'Umanità è ricca di oggetti, sistemi e tentativi che l'Uomo, nel corso dei secoli, ha inventato per mitigare e camuffare gli effetti dei meteorismi, alias flatus ventris, alias ventosità anali, alias scorregge, alias piriti.
Si trattava - giungendo in tempi recenti - delle piritere e delle vanvere, essendo queste ultime dei dispositivi più elaborati che avevano la funzione di allontanare i miasmi dall'alcova o dai luoghi in cui si conviveva abitualmente, mentre le prime erano dei dispositivi - per così dire - più "leggeri" e portatili, ad eccezione delle cosiddette "piritere di palazzo".
Ecco così spiegata l'origine della locuzione "parlare a vanvera" e il suo perché: in altri termini, altro non sta a significare che "parlare con il culo".
Ma vediamo più analiticamente i singoli dispositivi.
(Vai alla fonte originale) La piritera era un contenitore con beccuccio anatomico (tanto per intenderci, come le vecchie e rigide sacche usate per tenere la polvere da sparo) che si applicava all'ano del "paziente" (ovvero dell'"emittente")...
Le antiche credenze e convinzioni mediche (ma non molto lontane dalla nostra epoca, se si pensa che le piritere furono usate fino ai primi del '900) asserivano che i gas provenienti dai peti inquinassero l'aria e fossero portatori di epidemie.
Per questo motivo si ritenne che fosse meglio far sì che le flatulenze organiche (rumorose e non) fossero "intubate"in questi contenitori, per essere poi disperse lontano dalle mura domestiche.
Non si sa come si chiamavano gli operatori di simili servizi o i creatori di questi dispositivi, sopratutto attivi nelle case nobili e patrizie, ed è un peccato che ci siano solo cronache non ufficiali al posto di testimonianze storice documentate.
Ma prima di arrivare alla Vanvera altri oggetti furono inventati dall’Umanità.
Il Prallo è il primo oggetto che venne utilizzato. Non è altro che un uovo di ceramica o di legno dotato di due fori comunicanti. Tale uovo durante i lunghi banchetti dei Faraoni, degli Imperatori Romani, insomma dei Potenti del mondo, veniva infilato nel pertugio anale al fine di attenuare l’effetto miasmatico ed impestante delle flatulenze.
Al suo interno vi si infilavano delle erbe odorose; inoltre il gas nel suo attraversamento, provocava una curiosa nota musicale tipo trombetta o fischietto.
Proprio partendo da simili ragguardevoli esempi, la piritera è arrivata nel napoletano, secoli dopo, assieme ai Principi Borboni (e tenete presente che il termine medico ‘borborigimo’ vuol dire "rumore" o anche "gorgoglio intestinale" e sembra che i Borboni ne soffrissero alquanto). La piritera altro non era se non una specie di piffero in ceramica.
Famose erano le Piritere di Capo di Monte.
La piritera, ad una sua estremità aveva una imboccatura o cannula (da infilare dentro l'ano), mentre all'altra si presentava con la foggia della testa di un uccellino.
Veniva adoperata nelle sfilate del Regnante attraverso la città di Napoli: questi, disteso nella sua portantina, appoggiava l’imboccature al proprio ano in modo che, con l’emissione di flati, il piffero suonasse in faccia alla gente che lo osannava dicendo ”Lunga vita al Principe“ o “Salute al Principe”.
La vanvera è lo strumento inventato dai Veneziani. A partire dal Seicento venne usata fino a tutto il Settecento, essendo molto più ‘democratica’ e alla portata di tutti. Di vanvere ne esistevano di due tipi.
La vanvera da passeggio. L’oggetto costruito in pelle di vari colori si poteva suddividere in quattro parti. La prima parte - quella più importante - era fatta a coppa (1) per poter aderire completamente alle chiappe del suo utilizzatore e, quindi, doveva essere per lo più costruita su misura. La "coppa" comunicava attraverso un "collo" (2) con una "vescica", atta a contenere i gas intestinali (3), per terminare con un pertugio munito di chiusura con un piccolo laccio (4), per consentirne lo sfiato. L’utente nelle occasioni di sofferenza per meteorismi, ma nella necessità di uscire di casa per doveri lavorativi o sociali, la indossava sotto il mantello, se uomo, e sotto la gonna, se donna. Poteva così tranquillamente recarsi al Caffè Florian o al Teatro La Fenice senza preoccupazione alcuna. Ogni rumore veniva attenuato ed ogni odore veniva evitato nel modo più assoluto. Una volta distante dai luoghi frequentati poteva aprire lo spago!
Con la diffusione dei cappotti nell’Ottocento, si è perduto a poco a poco l'uso della vanvera.
La vanvera da alcova. Simile solo nella prima parte alla vanvera da passeggio, poichè al posto della Vescica veniva saldato un lungo tubo, sempre in pelle, che doveva arrivare fino ad una finestra tenuta opportunamente aperta durante l’Estate.
D’inverno lo si lasciava sfiatare nella stanza, ma comunque lontano dalle coltri, o lo si faceva arrivare sino ad una stanza vicina, pensando che in questo modo potesse mitigarne la temperatura.
Veniva usata specialmente dal consorte durante le prime notti di nozze o quando si era reduci da pasti particolarmente copiosi, e ancora non si era creata quella confidenza fra gli sposi tale da rendere sopportabili ventosità fetide troppo frequenti.
Alcune fonti sostengono infine che, ubicati nei palazzi della corte borbonica, esistessero dei dispositivi fissi, denominati, "Vanvere di palazzo" che venivano utilizzato da coloro che, non potendo scorreggiare liberamente essendo sprovvisti di "vanvere da passeggio", se ne potevano servire estemporaneamente per convogliare all'esterno degli edifici le proprie flatulenze.
(Palermo, il 3 agosto 2018) Sono davvero sorpreso ed incuriosito. Questo mio post, pubblicato nel 2013, sta avendo proprio in questi giorni un successo inaspettato ed improvviso, essendosi registrate migliaia di apertura della pagina tra fine luglio e primi giorni di agosto, configurandosi quelo che è un autentico record di accessi al mio blog, mai verificatosi prima.
Mi chiedo da cosa sia dipeso ciò: a volte è capitato con altri post, ma mai in questa misura.
I misteri insondabili dell'algoritmo di Google...
Mi sono imbattuto per la prima volta in questo dissacrante e anche divertente tema - perchè no? - leggendo un libricino (forse tardosettecentesco) scritto da un certo Pierre-Thomas-Nicolas Hurtaut, pubblicato da Guanda (e abbastanza di recente riedito da Baldini&Castoldi nel 2016), dal titolo "L'arte di petare", e un altro libricino-pamphlet, dal titolo "La petologia. La scorreggia nella letteratura, nella storia e nel costume" (pubblicato da Scipioni Editore, ultima ristampa nel 2007).
Prova teorico-fisica e di metodo a beneficio delle persone stitiche, serie e austere, delle signore malinconiche e di tutti coloro che restano schiavi del pregiudizio. È molto difficile saper petare. Ciascun peto possiede delle caratteristiche specifiche, e per comportarsi come si deve in società. È necessario conoscerle bene. Sapreste distinguere il peto di una fanciulla da quello di un signorotto? Per l’utilità di tutte le persone malinconiche o sofferenti, questo libro insegna l‘arte di provocare o dissimulare un peto che il primo sciocco arrivato si sarebbe ingenuamente lasciato sfuggire. «È davvero un gran peccato, Lettore, che pur petando da tempo immemorabile tu ancora non sappia come lo fai e come dovresti farlo. Si pensa comunemente che i peti non differiscano tra loro che nelle dimensioni – ovvero nell’essere piccoli o grandi – e che in definitiva siano tutti della stessa specie. Grossolano errore. Petare è un’arte, dunque una cosa utile alla vita, come dicono Luciano, Ermogene, Quintiliano e tanti altri autori. Saper petare correttamente, infatti, è più importante di quanto non si pensi. Non esiterò dunque a rendere pubbliche le mie ricerche e le mie scoperte su tale arte a tutti i curiosi desiderosi di metterci il naso».
«Il peto è la più grande forma d’arte.»