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3 aprile 2019 3 03 /04 /aprile /2019 12:18

Il "Diario" è considerato una testimonianza dell'Olocausto: questo è soprattutto ciò che non è.

Dalla òòa quarta di copertinau

Generazioni di lettori si sono abituate ad un approccio al famoso Diario di Anne Frank, in modi che sono stati distorti sia da precedenti edizioni espunte, sia dalla riduzione teatrale e poi cinematografica (si ricordare il famoso film firmato da Frank Capra). Letture che sono state determinate sia da un mal riposto rispetto nei confronti dei pensieri più intimi e crudi espressi da Anne Frank, sia da necessità ideologiche. Bisogna riportare il testo alla sua interezza e leggerlo, innanzitutto come un'opera letteraria di grande valore ed una testimonianza esistenziale, riducendo invece il sovradimensionamento di dolente racconto dell'Olocausto che esso ha ricevuto nel corso del tempo per esigenze ideologiche e/o ermeneutiche, sino a farlo divenire quasi emblema di quell'insieme di eventi e la sua Autrice un'icona quasi universale dell'innocenza ferita e mortificata. Infatti, il Diario che venne bruscamente interrotto dall'irruzione della Polizia olandese - allora al servizio dei Tedeschi invasori - nell'alloggio segreto non ha un suo finale, se non il non detto scaturente da una crescente sensazione di precarietà.
Del modo "vero" in cui si conclude la storia di Anne Frank, prima tradotta ad Auschwitz e poi da lì trasferita con una delle marce della morte a Bergen-Belsen dove morì di Tifo e di privazioni, poco prima della liberazione dei campi di sterminio, si sa da altre fonti e quindi dell'orrore dei mesi successivi all'ultimo aggiornamento non c'è nulla che sia stato scritto personalmente da Anne Frank non si sa nulla.
Questa ed altre considerazioni sull'uso spigliato e traditore del testo-testimonianza di Anne Frank sono contenute in un libro di recente - e meritoria - pubblicazione per i tipi de La Nave di Teseo. Si tratta di Di chi è Anne Frank? (titolo originale: Who Owns Anne Frank? nella traduzione di Chiara Spaziani, Collana Le Onde, 2019).

Il testo di Cynthia Ozick, proposto da La Nave di Teseo, venne originariamente pubblicato sulle pagine del "New Yorker" nel 1997.
Non era mai stato tradotto in lingua italiana.
Con lucidità l'autrice espone i motivi per i quali, secondo lei, il testo originale di Anne Frank sia stato tradito.
Le pagine del manoscritto, infatti, videro una serie di rimaneggiamenti, innanzitutto effettuato dallo stesso padre di Anne Frank e unico sopravvissuto all'Olocausto. Otto Frank, infatti, decise di omettere tutto ciò che ritenne irrilevante dal punto di vista della storia dell'Alloggio secreto: una serie di censure che indubbiamente hanno alterato l'immagine della figlia adolescente, con un'edulcorazione dei pensieri e delle emozioni. Questa prima edizione del Diario portò immediatamente alla costruzione di Anne Frank come "icona", anche perchè ai tempi della prima pubblicazione della Shoah si sapeva ancora bene. Dice la Ozick che ogni storia che si rispetti deve avere un finale e che nel Diario un finale manca. O meglio il finale - aggiunge ancora la Ozick - il lettore lo può conoscere soltanto se ha letto Primo Levi (con il suo I Sommersi e i Salvati) oppure Elie Wiesel (La Notte): quindi in ciò, secondo la Ozick, in stesso il Diario non è una testimonianza dell'Olocausto.
In ogni caso, ella dice, il Diario rivela che Anne Frank aveva della grandi potenzialità di scrittrice e che, se non fosse intervenuto quel tragico finale, avrebbe potuto realizzare grandi cose nel campo della letteratura.

 

Anne Frank, Il Diario. L'alloggio segreto, 12 giugno 1942 - 1° agosto 1944, Winaudi, 2015

Altri tradimenti furono effettuati, come ad esempio, nelle lunghe trattative che portarono alla realizzazione di una sceneggiatura per un lavoro teatrale rivolto al pubblico americano (riduzione curata dopo molte controversie sull'assegnamento del lavoro a Frances Goodrich e a Albert Hackett) e che avrebbe a sua volta ispirato il film - divenuto famoso - di George Stevens (USA, 1957).
O ancora, quando il Diario venne tradotto dall'Olandese al Tedesco, quando riferimenti ai Tedeschi invasori che avrebbero potuto urtare la sensibilità dei Tedeschi vennero ulteriormente espunti.
Solo tardivamente, il testo di Anne Frank venne pubblicato nella sua integrità (e un'edizione critica annotata e corretta di tale testo integrale venne a suo tempo pubblicata da Einaudi) e questo consentì di fare riemergere un'immagine più completa di Anne, certamente meno "buona" in alcuni suoi giudizi ed anche portatrice di sentimenti e di emozioni che potrebbero disturbare il lettore rispetto all'immagine edulcorata che era stata costruita prima proprio grazie a quei rimaneggiamenti del testo.
Insomma, sostiene la Ozick, la storia (e i testi storici e di testimonianze che ci pervengono) non dovrebbero mai essere traditi: soltanto così essi possono continuare a trasmettere intatta la propria forza.
E la stessa cosa è per la Memoria: il ricordo non deve essere mai edulcorato. E questo è un dovere morale.

(dal risguardo di copertina) Apparso per la prima volta nel 1997 sulle pagine del “New Yorker”, questo impetuoso, lucidissimo saggio di Cynthia Ozick strappa il velo di dissimulazione e retorica che negli anni ha ovattato e mistificato la limpida voce di Anne Frank e del suo Diario. Troppo spesso e troppo a lungo oggetto di interpretazioni semplificate e fuorvianti, di appropriazioni indebite, tradimenti e comode “santificazioni”, il Diario è servito da lasciapassare per un’amnesia collettiva – storica e culturale – sulle cause e le circostanze della morte della sua autrice e di milioni di altre vittime dell’Olocausto. La depravazione e la ferocia dei nazisti, il male che ha consumato la protagonista, sono stati attenuati e sorpassati nel tempo dal solo battere della critica, dell’editoria, dei lettori e persino del padre – Otto Frank – sul tema della bontà e della forza umana, utilizzando strumentalmente la voce di Anne per costruire un discorso sul passato tanto rassicurante quanto sterile. Cynthia Ozick, ripercorrendo con il ritmo e la forza che le sono propri, le vicissitudini storiche, editoriali e teatrali del libro universalmente considerato il simbolo della Shoah, ci mette in guardia dalle conseguenze di questa tendenza: ammorbidire la Storia, nel tentativo di renderla più sopportabile, equivale a tradirla; tradirla equivale a negare – in una discesa inarrestabile verso il buio della ragione – ciò che è stato, gettando le basi perché possa avvenire ancora.
Cynthia Ozick, ripercorrendo con il ritmo e la forza che le sono propri, le vicissitudini storiche, editoriali e teatrali del libro universalmente considerato il simbolo della Shoah, ci mette in guardia dalle conseguenze di questa tendenza: ammorbidire la Storia.

(Quarta di copertina) Il "Diario" è considerato una testimonianza dell'Olocausto: questo è soprattutto ciò che non è.

Cynthia Ozik

L'Autrice. Cynthia Ozick è autrice di numerose opere, sia di narrativa sia di saggistica, riconosciute a livello internazionale. Ha vinto il National Book Critics Circle Awards, ed è stata finalista al Premio Pulitzer e al Man Booker International Prize. I suoi racconti hanno vinto per quattro volte l’O. Henry First Prize. Per Feltrinelli ha pubblicato Lo scialle e Eredi di un mondo lucente (2005). Presso Bompiani sono usciti La farfalla e il semaforo (2010), Corpi estranei (2011).

«Era mio dovere allargare il piú possibile la cerchia di coloro che volevano accogliere il messaggio di Anne, e per questo il teatro e il cinema erano i mezzi piú adatti. Dopo molte riflessioni e discussioni con scrittori è stata creata l'opera teatrale. Io sono convinto che essa adempie a una missione, e questa è la cosa piú importante».

Otto Frank, padre di Anne Frank

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17 gennaio 2019 4 17 /01 /gennaio /2019 08:29

Nino Di Matteo è stato - ed è -  il magistrato più minacciato d'Italia. Perchè? Ma perchè ha portato avanti, assieme ad altri magistrati altrettanto valorosi, l'inchiesta giudiziaria sullo scellerato patto stato-mafia che, consumato negli anni 1992-1994, fu preceduto dall'uccisione di Falcone, della Morvillo, di Paolo Borsellino e delle relative scorte e fu punteggiato da altri eventi intimidatori e da attentati dinamitardi che hanno cercato di portare terrore e instabilità ai più alti vertici dello stato.
Nino Di Matteo è andato avanti, malgrado le minacce, l'indifferenza e la denigrazione, soltanto spinto dal desiderio di giungere ad una verità giudiziaria incontrovertibile.
Ha dovuto lottare anche contro la tiepidezza dei politici e dei governanti, se non contro una loro aperta ostilità, facendo i conti anche con organi di stampa "di regime", portati a minimizzare e a utilizzare principalmente la strategia del silenzio.
E intanto Di Matteo, superscortato e costretto ad una vita blindata assieme alla famiglia, ha portato avanti il suo compito di servitore di uno Stato che, per essere credibile, ha bisogno di verità incontrovertibili e di giustizia vera.
Chi vive a Palermo avrà spesso notato un corteo di grandi gipponi blindati con i vetri oscurati muoversi da un capo all'altro della città. Di Matteo viaggiava sempre all'interno di una di queste vetture, super scortato e superprotetto da minacce che sono state concrete e tangibili.
Ho avuto modo di vedere questo corteo con i miei occhi visto che abito a poca distanza dalla sua abitazione, oppure, qualche volta in autostrada.
Ma, a parte questa visibilità estemporanea, di ciò che egli faceva si sapeva ben poco. I giornali locali e nazionali hanno sempre dedicato ben poco spazio all'inchiesta giudiziaria sul patto stato-mafia e, poi, alle diverse fasi del processo in Corte d'Assise d'Appello, durato ben cinque anni.
Non avendo informazioni di prima mano sui quotidiani e non avendo io occasione di frequentare nel web siti di informazione alterrnativa, sapevo soltanto che Nino Di Matteo stava indagando su quello scellrato patto.
Ora, a sentenza emessa (il patto stato-mafia ci fu), esce un libro intervista in cui Nino Di Matteo sollecitato dalle domande del giornalista Saverio Lodato racconta di quel'inchiesta sino al suo esito giudiziario: un libro fondamentale per sapere tutto quello che i giornali stampati, con i loreo silenzi e con le loro omissioni non ci hanno mai detto.

“Chiediamoci perché politica, istituzioni, cultura, abbiano avuto bisogno delle parole dei giudici per cominciare finalmente a capire... Un manipolo di magistrati e di investigatori ha dimostrato di non aver paura a processare lo Stato. Ora anche altri devono fare la loro parte.”

Nino Di Matteo (quarta di copertina)

“Volevo che nelle pagine di questo libro parlasse il magistrato, parlasse l’uomo, protagonista e testimone di un processo destinato a lasciare il segno.”
Saverio Lodato

Saverio Lodato (quarta di copertina)

La testimonianza del pm più minacciato d'Italia. Le verità che molti volevano nascondere

Fascetta

Nino di Matteo e Saverio Lodato, Il patto sporco. Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista, Edizioni Chiare Lettere, Collana Principio Attivo Interviste e Réportage, 2018

In "Il patto sporco. Il processo Stato-Mafia nel racconto di un suo protagonista" (Edizioni Chiare Lettere, Collana Principio Attivo Interviste e Réportage, 2018), Nino Di Matteo, sollecitato dalle domande di Saverio Lodato, illustra tutto l'arco dell'iter giudiziario che ha condotto, alla fine, ad una sentenza di condanna in cui in maniera incontrovertibile si afferma la verità giudiziaria che il patto scellerato tra Stato e  Mafia ci fu, proprio al culmine degli anni delle stragi di mafia (1992-1994) e ci racconta una storia esemplare. Quella di un giudice caparbio che vuole andare sino in fondo alla ricerca della verità (anche al prezzo di dover vivere una vita blindata), malgrado le intimidazioni, i depistaggi, i tentativi di insabbiamento, le menzogne e le omissioni, il tiepido appoggio di politici altolocati di destra e di sinistra, se non la loro aperta opposizione, le campagne di denigramento in cui si è cercato di farlo apparire come uno che andava alla ricerca di verità risibili.
Gli anni dell'inchiesta, nella conversazione tra Nino Di Matteo e Saverio Lodato, ci sono tutti, dai primi passi sino a quando si è andati a processo, con un procedimento giudiziario in Corte d'Assise, lungo e accidentato, durato cinque anni e che ha, infine, portato il 19 luglio 2018, ad una sentenza liberatoria per coloro che avevano creduto a Di Matteo (e al gruppo di valorosi magistrati che si erano impegnati con lui per il trionfo della verità), una sentenza di condanna - storica ed epocale - per le parti implicate, supportata da un dispositivo articolato in migliaia di pagine (per l'esattezza, 5252).
Leggendo questo libro, ci si rende di quanto gli organi di stampa (soprattutto qelli cartacei, ma anche i conduttori di rubriche televisive di dibattiti a cui sono sempre invitati i soliti noti) abbiano attivamente disinformato su questi temi o non abbiano voluto informare correttamente: e, inoltre, si possono collocare tutti i passaggi del percorso dell'inchiesta giudiziaria e del processo nella giusta prospettiva.
Oltre alla parte dell'intervista in senso stretto, il volume è corredato da un commento di Nino di Matteo sui punti focali del dispositivo di sentenza (Questa storia la Corte d'assise di Palermo l'ha ricostruita così, pp.123-145) e da una serie di articoli, in appendice, di Saverio Lodato, pubblicati nel corso degli anni su fonti di stampa alternative (pp.147-207).
E' un libro che tutti dovrebbero leggere, poichè - come afferma Di Matteo - "...esso intende poter rappresentare un piccolo contributo alla realizzazione di un importante obiettivo: la conoscenza della verità presupposto e viatico irrinunciabile a libertà e domocrazia" (ib., p. 145).

Oggi questa sentenza rappresenta la piattaforma più solida sulla fondare un reale e storico cambiamento. Ma, come sempre, saranno in tanti a remare contro. E lo faranno, anzi lo stanno già facendo, ricorrendo alla sperimentata strategia di sempre: il silenzio, il nascondimento dei fatti, il tentativo di minimizzare il significato di ciò che è stato accertato. "Loro" continueranno ad agire così. Hanno iniziato a farlo ventiquattr'ore dopo una sentenza che li ha spiazzati e preoccupati, facendo subito scomparire quel processo dal riflettore dei "media". "Loro" sono tanti e sono forti perchè ancora in grado di manovrare importanti leve del potere; "Noi" abbiamo il dovere di raccontare, discutere, cercare di diffondere la conoscenza e la consapevolezza di ciò che è successo e che non deve più accadere.

Nino Di Matteo (ib. p.145)

(dal risguardo di copertina) Gli attentati a Lima, Falcone, Borsellino, le bombe a Milano, Firenze, Roma, gli omicidi di valorosi commissari di polizia e ufficiali dei carabinieri. Lo Stato in ginocchio, i suoi uomini migliori sacrificati. Ma mentre correva il sangue delle stragi c’era chi, proprio in nome dello Stato, dialogava e interagiva con il nemico.
La sentenza di condanna di Palermo, contro l’opinione di molti “negazionisti”, ha provato che la trattativa non solo ci fu ma non evitò altro sangue. Anzi, lo provocò. Come racconta il pm Di Matteo a Saverio Lodato in questa appassionata ricostruzione, per la prima volta una sentenza accosta il protagonismo della mafia a Berlusconi esponente politico, e per la prima volta carabinieri di alto rango, Subranni, Mori e De Donno, sono ritenuti colpevoli di aver tradito le loro divise. Troppi i non ricordo e gli errori di politici e forze dell’ordine dietro vicende altrimenti inspiegabili come l’interminabile latitanza (43 anni!) di Provenzano, la cattura di Riina e la mancata perquisizione del suo covo, il siluramento del capo delle carceri, Nicolò Amato, la sospensione del carcere duro per 334 boss mafiosi.
Anni di silenzi, depistaggi, pressioni ai massimi livelli (anche dell’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), qui documentati, finalizzati a intimidire e a bloccare le indagini. Ora, dopo questa prima sentenza che si può dire storica, le istituzioni appaiono più forti e possono spazzare via per sempre il tanfo maleodorante delle complicità e della convivenza segreta con la mafia.

Nino Di Matteo

Gli autori. Sostituto procuratore della Repubblica a Caltanissetta e poi a Palermo, Nino Di Matteo è ora sostituto procuratore alla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo. Ha indagato sulle stragi dei magistrati Chinnici, Falcone, Borsellino e delle loro scorte, e sull’omicidio del giudice Saetta. Pm in processi a carico dell’ala militare di Cosa Nostra, si è occupato anche dei processi a Cuffaro, al deputato regionale Mercadante, al funzionario dei servizi segreti D’Antone, e alle “talpe” alla procura di Palermo. Diverse amministrazioni comunali (tra queste Roma, Milano, Torino, Bologna, Genova) gli hanno conferito la cittadinanza onoraria per il suo impegno nella ricerca della verità. È autore dei libri “Assedio alla toga” (con Loris Mazzetti, Aliberti) e “Collusi” (con Salvo Palazzolo, Rizzoli).

Saverio Lodato

Saverio Lodato è tra i più autorevoli giornalisti italiani in materia di mafia, antimafia e Sicilia. Per trent’anni è stato inviato de “l’Unità” in Sicilia e oggi scrive sul sito antimafiaduemila.com. Ha scritto: “Avanti mafia!” (Corsiero Editore); “Quarant’anni di mafia” (Rizzoli); “I miei giorni a Palermo” (con Antonino Caponnetto, Garzanti); “Dall’altare contro la mafia” (Rizzoli); “Ho ucciso Giovanni Falcone” (con Giovanni Brusca, Mondadori); “La linea della palma” (con Andrea Camilleri, Rizzoli); “Intoccabili” (con Marco Travaglio, Rizzoli); “Il ritorno del Principe” (con Roberto Scarpinato, Chiarelettere); “Un inverno italiano” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere); “Di testa nostra” (con Andrea Camilleri, Chiarelettere).

L'intervista integrale di Paolo Borrometi per il Tg2000, al sostituto procuratore nazionale antimafia Nino Di Matteo, storico magistrato del pool che ha istruito il processo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, e autore insieme al giornalista Saverio Lodato del libro "Il patto sporco".

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3 agosto 2018 5 03 /08 /agosto /2018 12:00
Io, Dio e Bin Ladem (Armi of One)

Io, Dio e Bin Laden (Army of One) è un film direct-to-video (termine usato per indicare un film non destinato alla distribuzione cinematografica, ma commercializzato esclusivamente per supporti Home video, come DVD, VHS, Blu-ray Disc) del 2016 diretto da Larry Charles (già regista di Borat) e interpretato da Nicolas Cage.
Il film è stato distribuito nelle sale cinematografiche italiane da Koch Media a partire dal 25 luglio 2018.
Il film è tratto dalla storia vera di Gary Brooks Faulkner, un cittadino statunitense che tra il 2002 e il 2010 si recò più volte (alcune fonti dicono 11, addirittura) tra le montagne del Pakistan, armato di una spada acquistata online, con l'obiettivo di localizzare e catturare Osama Bin Laden, sulla base di un "comando" divino: una missione portata avanti con tale perseveranza, magrado i veti, le barriere e le espulsioni da meritarsi l'appellativo popolare di "the Osama Bin Laden Hunter": un personaggio originale ed emblematico che ha conquistato un posto al "David Lettermann Show" per una lunga intervista. Per noi, cose mai viste e che solo in America...
La storia che la pellicola propone è interamente centrata sulla recitazione sopra le righe, esasperata e tragicomica, di un un insolito Nicolas Cage - barbuto e incanutito hippie fuori tempo - che, in una parte lontana dai ruoli che solitamente gli sono attribuiti, ha cercato (riuscendoci, se si guardano attentamente, prima dei titoli di coda i filmati che ritraggono il vero Gary Brooks Faulkner) di entrare nella parte di un personaggio fanatico con la sua ossessione di catturare personalmente Osama Bin Laden, avendone ricevuto mandato nientemeno che da Dio in persona.
Personalmente, ho fatto fatica a seguirlo; mi ha annoiato per la sua ripetitività tematica, nello sforzo di rappresentare (per quanto nello stile della commedia esasperata) una forma di follia razionale, monotematica ed egosintonica nella parodia del "buon americano" che, a tutti i costi, cerca di fare la cosa giusta per salvare il suo paese dal Male.

Comunque, chapeau all'interpretazione di Nicolas Cage.

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11 maggio 2018 5 11 /05 /maggio /2018 08:25
Maria Attanasio, La Ragazza di Marsiglia, Sellerio Editore, 2018

E' uscito in questi giorni il nuovo romanzo di Maria Attanasio, La Ragazza di Marsiglia (Sellerio, 2018), in cui si racconta della vita di Rose (meglio conosciuta come Rosalia) Montmasson, compagna e moglie di Francesco Crispi, al tempo dell'impresa dei Mille e sua ispiratrice.

(dal risguardo di copertina) Unica donna a partecipare alla spedizione dei Mille, protagonista del Risorgimento, per vent’anni moglie di Francesco Crispi (si erano sposati a Malta nel 1849) Rosalia Montmasson è stata cancellata dalla storia, rimossa dai libri e dalle memorie dell’epoca.
Maria Attanasio che ha una speciale vocazione per tratteggiare la vita di donne che hanno lasciato il segno nel loro Tempo (vedi ad esempio, "Di Concetta e altre donne", sempre per i tipi di Sellerio), ne ha seguito le tracce, ripercorso i luoghi, scavato tra cronache e documenti, appassionandosi alla vita di questa donna dal temperamento straordinario, ribelle a ogni condizionamento e sudditanza.
E ce la racconta in un romanzo sulla libertà di pensiero che è quasi una storia al femminile sul Risorgimento.
Chi sfogliasse l’album dei Mille, galleria fotografica degli eroi dell’impresa garibaldina, al n. 338 troverebbe la foto di Rosalia Montmasson Crispi, l’unica donna che si imbarcò alla volta della Sicilia. Di lei poi non si seppe più nulla, svanita nelle carte pubbliche e private, rimossa dalla memoria nazionale e oggi restituita alla sua grandezza grazie a una scrittrice da sempre attratta da figure ribelli e anticonformiste. Eppure Rosalia non era una donna qualunque, per vent’anni fu la moglie di Francesco Crispi, di cui aveva condiviso ideali e azioni. Si erano conosciuti a Marsiglia e poi Torino nel 1849, negli anni della cospirazione risorgimentale, Rosalia l’aveva seguito nell’esilio a Malta dove si erano sposati e dove si mantenevano con il lavoro di lei, lavandaia e ricamatrice. E poi a Londra, a Parigi, al servizio della causa mazziniana senza paura e senza riserve si era fatta cospiratrice e patriota, sempre al fianco del suo Fransuà, così chiamava Crispi. Alla vigilia della spedizione di Garibaldi in Sicilia lei si presentò. Il Generale era stato chiaro, né mogli, né madri, né volontarie, sulle navi non voleva donne, ma di fronte alla determinazione della ragazza cedette e non se ne pentì: fu protagonista di quella sollevazione di popolo che fu la spedizione dei Mille, ricevette la medaglia dalle mani dell’eroe dei due mondi, il riconoscimento del ruolo svolto, la pensione.
Poi, dopo l’Unità, le divergenze e i contrasti tra Rosalia e Fransuà si accentuarono, politicamente e personalmente: Crispi, ormai uomo di governo, tradì gli ideali mazziniani che li avevano uniti, sopraggiunsero per lui altre passioni. Sposò un’altra donna e accusato di bigamia negò la validità del precedente matrimonio con Rosalia, facendo sparire le carte. Una autentica impostura; eppure Rosalia era stata per vent’anni Madame Crispi, accolta a casa del Maestro Mazzini, come a corte dalla regina Margherita che per lei nutriva una istintiva simpatia. Annullato il matrimonio sparì anche Rosalia, dalla vita di Crispi, dai libri e dalla memoria, una totale rimozione della storia risorgimentale che si è protratta fino ad oggi.

Aggiungo che alcuni anni fa (nel 2011), in occasione del Cinquantenario dell'Unità d'Italia, a Ribera, venne inaugurato un gruppo scultoreo, in memoria di Francesco Crispi, suo cittadino illustre, realizzato dietro commissione della Giunta comunale di Ribera, allora presieduta dal sindaco Carmelo Pace, dal maestro Salvatore Rizzuti.

Lo scultore che ebbe commissionata l'opera volle includere nel gruppo statuario, in forma trasfigurata,  anche Rosalia Montmasson, riconoscendo in ciò l'importanza di questa figura nella figura del Francesco Crispi patriota e facitore dell'Unità d'Italia.
Per approfondimenti vedi nel sito web dello scultore siciliano, il suo personale commento all'opera monumentale.

 

Il gruppo scultoreo dedicato a Francesco Crispi, a Ribera, inaugurato nel 2011, opera dello scultore Salvatore Rizzuti

Ecco quanto scrissi a suo tempo, a commento della galleria fotografica, varata sul mio profilo Facebook.
"Il 27 dicembre 2011 ha avuto luogo. a Ribera, l'inaugurazione del gruppo statuario dedicato allo statista Francesco Crispi (1818-1901).
Un atto quasi "dovuto", grazie alla determinazione del sindaco di Ribera Carmelo Pace, visto che la cittadina dell'Agrigentino ha avuto l'onore di dare i natali ad una figura complessa e poliedrica che, indubbiamente, a pieno titolo si può considerare uno dei padri fondatori dell'Unità italiana e uno di quelli che, da statista, fece grande l'Italia che faceva i suoi primi passi nel consesso delle grandi nazioni.
La realizzazione di un gruppo scultoreo, di una statua o di un semplice busto, dedicati a Francesco Crispi, qui a Ribera, ha avuto delle vicisitudini tormentate, come ha bene illustrato Mimmo Macaluso, e nel corso degli anni non ha mai avuto un esito felice: sono sopravvenuti ogni volta fatti contrari, inaspettati eventi, non volontà politica, sino alla a felice congiuntura delle celebrazioni del Centocinquantenario dell'Unità e grazie al supporto dato a questa causa dall'Onorevole Giuseppe Ruvolo, parlamentate di origini riberesi.
Il gruppo scultoreo di innovativa conzezione rispetto alla retorica della statuaria pubblica che immortalò più volte Crispi, all'inizio del Novecento, è opera del Maestro Salvatore Rizzuti: si tratta di un'opera in bronzo e marmo, significativa per il suo stile, volutamente anti-retorico, ma nello stesso tempo carica di simbolismo e che accoglie, altrettanto significativamente, un personaggio femminile, carico anch'esso di simbolismo, ispirato a Rosalie Montmasson, al tempo compagno (e poi sposa) del Crispi ed unica donna presente nella Spedizione dei Mille; si tratto anche di una realizzazione significatica in un'epoca in cui le amministrazioni pubbliche sono sempre più restie ad investire in statue di grandi proporzioni che servano al radicamento e al rafforzamento della memoria della collettività.

La rappresentazione trasfigurata e arricchita di simpbolismi di Rosalia Montmasson, compagna e moglie di Francesco Crispi, nell'interpretazione di Salvatore Rizzuti

La cerimonia d'inaugurazione (avvenuta in grande stile, con la partecipazione di tutti i sindaci della Provincia d'Agrigento) è stata preceduta da tavola rotonda, in cui si sono succeduti il Presidente del Consiglio Comunale di Ribera, il medico Mimmo Macaluso (animatore della manifestazione e appasionato raccoglitore di documenti relativi all'epoca del Crispi), lo storico Ignazio Parrino che ha parlato delle relazioni che legano la figura di Crispi a Ribera e a Palazzo Adriano, Maurizio Crispi (che ha parlato brevemente dell'importanza dello statista all'interno della sua famiglia), e Raimondo Lentini di Ribera, storico locale che ha illustrato i complessi legami tra la famiglia Crispi, con tutte le sue ramiicazioni, e Ribera.
Contestualmente, è stata inaugurata una piccola mostre di documenti, illustrazioni e altri importanti reperti (molti originali) messa a disposizione dallo stesso Mimmo Macaluso".

Mi piace citare quest'evento, in quanto Salvatore Rizzuti, ponendo accanto a Francesco Crispi, una presenza femminile che, spogliata di incrostazioni simboliche (ad esempio, la spada che tiene in mano), si ispira per diretta ammissione dell'Artista a Rosalie Montmasson, è stato un pioniere di questa rivistazione storiografica di questa figura risorgimentale, di cui in forma romanzata narra Maria Attanasio.

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18 aprile 2018 3 18 /04 /aprile /2018 08:21
An old lady in red
The old lady in red

Mi sono imbattuto per puro caso in una quasi surreale comparsa lungo una domenicale Via Libertà a Palermo, chiusa al traffico per via della gara podistica Vivicittà (lo scorso 15 aprile 2018).
Ho avvistato un'attempata signora, tutta in rosso, comprese le calzature di vernice con tacco a spillo, collant del pari rossi, perfettamente intonati alle scarpe e un buffissimo capellino sulle ventitré, adagiato su quella che sembra essere una cuffietta di rete nera... tutto in pendant, in una sapiente combinazione di rossi.
Unica nota dissonante nella prevalenza del rosso fiamma sono i legging neri indossati da questa lady in red e la borsa beige (così sembrerebbe) che porta con noncuranza, penzolante dalla mano destra.
Malgrado la squillantezza del colore e i capelli biondi (ma finti, ovviamente), la donna è piuttosto agée e ha il volto avvizzito di rughe (per come ho potuto intravedere prima che nel suo incedere mi girasse le spalle)e quei rotolini di ciccia che si intravedono sotto l'abitino fasciante e che, forse (anzi sicuramente), un tempo non c'erano,... ma, ciò nondimeno riesce a portare con sè un'impressionistica ventata di primavera.
La sua è forse una mise per dichiarare guerra al tempo che passa inesorabile e porta al punto in cui si sente con troppa forza che non c'é più tempo...

 

Foto di Maurizio Crispi

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23 febbraio 2018 5 23 /02 /febbraio /2018 09:47
Un omaggio fotografico alla storia che, quando ero piccolo, mio padre mi leggeva sempre e che sempre mi affascinava ed inquietava allo stesso tempo.
Un omaggio fotografico alla storia che, quando ero piccolo, mio padre mi leggeva sempre e che sempre mi affascinava ed inquietava allo stesso tempo.
Un omaggio fotografico alla storia che, quando ero piccolo, mio padre mi leggeva sempre e che sempre mi affascinava ed inquietava allo stesso tempo.
Un omaggio fotografico alla storia che, quando ero piccolo, mio padre mi leggeva sempre e che sempre mi affascinava ed inquietava allo stesso tempo.

Un omaggio fotografico alla storia che, quando ero piccolo, mio padre mi leggeva sempre e che sempre mi affascinava ed inquietava allo stesso tempo.

La storia de Il PIfferaio di Hamelin mi è sempre piaciuta. Mio padre soleva leggermela (dando ampio spazio alla recitazione, così da far emergere anche con la voce, con la mimica e con la gestualità i diversi personaggi) da un libricino illustrato che lui stesso mi aveva regalato. Io ne ero affascinato, ma anche spaventato.
E tutte le mie emozioni si riversavano sempre su quel povero bambino che, per essere claudicante, non riesce a tenere il passo con tutti gli altri bimbi e rimane escluso per sempre dalle false delizie promesse dalla musica ammaliante del pifferaio. Naturalmente, c'era anche lo sdegno nei confronti della dubbia onesta del Podestà e dei suoi consiglieri che si rifiutano di dare al Pifferaio il compenso pattuito e che poi, a causa di ciò, vengono duramente puniti.

Il titolo originale della storia (di origine germanica) è molto più prosaico e nella traduzione suonerebbe come "Il Cacciatore di topi di Hamelin". La magia del titolo della storia è rispecchiata invece nella lingua inglese (compresa la traslazione poetica fattane da Robert Browning) e in italiana. In Inglese vi è in più la nota di colore che manca nel titolo italiano: "The Pied Piper of Hamelin".

Il pifferaio di Hamelin (in tedesco Der Rattenfänger von Hameln, letteralmente Il cacciatore di topi di Hameln) è il soggetto di una leggenda tedesca ambientata nella città di Hameln o Hamelin, in Bassa Sassonia. È anche nota come Il pifferaio magico o titoli similari.
Nella sua versione base, che fu oggetto di trascrizione dei fratelli Grimm e messa in poesia da Wolfgang Goethe e dall'inglese Robert Browning, narra di un suonatore di piffero (dotato di magivi poteri) che, su richiesta del Borgomastro, allontana da Hamelin i ratti al suono del suo strumento; quando la cittadinanza rifiuta di pagarlo per l'opera, questi si vendica irretendo i bambini del borgo al suono del piffero e portandoli via con sé per sempre (a quanto pare, il suono evoca in coloro che lo ascoltano, delle visioni sinestesiche di cose, luoghi, cibi estremamente attraenti, cibo per i topi e una specie di Paese di Bengodi per i bambini, inducendo in essi uno stato di trance che, letteralmente li rapisce, sino alla loro rovina e al loro annientamento. I topi che infestavano Hamelin annegano tutti. I bambini invece vengono inghiottiti dalla montagna. In emntrambi i casi, tuttavia, rimane un testimone che ha subito l'attrazione del piffero magico, ma non ha potuto camminare lestamente come tutti gli altri : entrambi i sopravissuti rimarrano per sempre con la nostalgia di quelle visioni seducenti.
La leggenda del pifferaio nacque intorno alla seconda metà del XIII secolo e parrebbe correlata alla peste che imperversava in Germania in quel periodo, il cui agente, il bacillo Yersinia pestis, trovava un efficace vettore nel ratto (roditore anche noto come «pantegana»). Un'altra possibile origine della leggenda parrebbe essere il repentino abbandono della città da parte di circa 130 ragazzi, probabilmente emigrati per andare a lavorare altrove nel Paese. Meno probabile appare essere una teoria secondo la quale i giovani abitanti di Hameln sarebbero morti in blocco per via di un'inondazione o, ancora, rapiti da qualche setta o annegati nel fiume Weser.

 

Helen McCabe, Piper. Il Pifferaio Magico, Leone Editore, 2014

Di recente, mi è capitato di leggere un romanzo che rivisita la storia del Pifferaio di Hamelin in chiave horror e che è a tutti gli effetti un pmaggio al poema di Robert Browning che, in calce alla storia, viene riportato per esteso.
Si tratta di Piper. Il pifferaio Magico di Helen McCabe, pubblicato da Leone nel 2014 (collana Mysteria).
Qui, il Pifferaio diventa un essere che sopravvive ai secoli, risvegliandosi periodicamente per andare in caccia di nuove prede, e muovendosi sempre in compagnia di temibili e mordaci topi dai denti aguzzi.
E gli elementi de Il Pifferaio magico, trasposti nell'inquietante figura di Diep Koppelberg, ingaggiato da una scuola americana per bimbi disabili, ci sono tutti.

(Dal risguardo di copertina) Arva, Romania: la giovane Anka Petrescu muore in circostanze misteriose, e le indagini della polizia si scontrano con il muro di silenzio degli abitanti del villaggio. Chi è l'assassino, e quali antichi, orrendi riti si tramandano di generazione in generazione ad Arva? Sunny Mead, Stati Uniti: la famiglia Durrant accoglie Diep Koppelberg, affascinante insegnante di musica dal talento prodigioso, quasi magico, ma dal passato oscuro. Un misterioso individuo trama nell'ombra, una presenza inquietante che sconvolge le vite degli sfortunati che capitano sulla sua strada.
 

E naturalmente la Storia del Pifferaio Magico non potè non sollecitare l'estro creativo di Walt Disney

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18 febbraio 2016 4 18 /02 /febbraio /2016 08:43
Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa
Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa
Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa

Dopo diversi libri sulla filosofia del viaggiare lento, sulla "filosofia della corsa" (Correre é una filosofia. Perchè si corre") e dopo la precedente biografia-intervista a Marco Olmo (Il corridore. Una vita riscattata dallo sport), grande interprete della corsa in natura sulle lunghissime distanze, Gaia De Pascale con Come le vene vivono del sangue. Vita imperdonabile di Antonia Pozzi (Ponte alle Grazie, 2016), ci regala una interessante biografia "in soggettiva" (dunque, in forma di romanzo) su di un personaggio controverso dell'Universo letterario italiano della prima meta del Novecento e scomparsa dopo una breve, intensa, vita sempre controcorrente e all'insegna dell'esplorazione anti-conformista.
Tuttavia qualcosa, in me, non ha mai smesso di dare l'impressione di essere in procinto di cedere, come se una crepa fosse sempre sul punto di aprirsi per i movimenti tellurici della mia anima. Ma era la troppa vita, quella che forzava le pareti, fino a venare la crosta esterna nella quale tutti, intorno a me, hanno sempre cercato di stringermi.
Molto è già stato detto su Antonia Pozzi, ragazza "imperdonabile" che, nonostante la sua breve vita, ha lasciato più di trecento poesie, numerose lettere, pagine di diari e circa tremila fotografie, e la cui figura è oggetto di una straordinaria riscoperta di pubblico e di critica.
Molto è già stato detto su di lei, accurati studi critici e biografici ne hanno già messo in evidenza poetica e vita. Eppure, c'e sempre, quando si parla di lei, l'impressione di qualcosa di incompiuto. Come se la "troppa vita" che le scorreva nel sangue non si sia mai voluta lasciare decifrare fino in fondo. Come se ci fosse sempre troppo da dire e nello stesso tempo un'urgenza di silenzio avesse costantemente percorso lei e le persone che le stavano accanto.
Per raccontare questa figura complessa, profonda e a tratti enigmatica, che ha attraversato gli anni Trenta con intelligenza e passione, sofferenza e determinazione, Gaia De Pascale ha scelto la via del romanzo.
Il libro dà la parola alla stessa Antonia, scavando nell'animo della protagonista e restituendo le persone, i luoghi e le atmosfere di un tempo cruciale sotto ogni punto di vista per la storia del nostro Paese. In bilico tra realtà e finzione, "Come le vene vivono del sangue" usa il verosimile come unico mezzo possibile per accedere al fondo segreto dell'esistenza di Antonia Pozzi, e rende omaggio a una figura femminile che ha saputo attraversare con la stessa profondità tanto la vita quanto la morte.
Eppure c’è sempre, quando si parla di Antonia Pozzi, l’impressione di qualcosa di incompiuto. Come se la “troppa vita” che le scorreva nel sangue non si sia mai lasciata decifrare fino in fondo.
Dice Gaia De Pascale: "Antonia Pozzi ha lasciato molte tracce del suo passaggio: poesie, lettere, diari, fotografie. Il fatto che alcuni di questi materiali siano andati perduti, talvolta per precisa volontà della famiglia, è lo specchio concreto e tangibile di un dato di fatto: non si può conoscere la verità della vita, tanto meno quella degli altri. Si può solo procedere a tentoni, amalgamare il vero e il verosimile, entrare negli spazi vuoti lasciati dalle parole sperando, in uno scatto di empatia, di riuscire a cogliere un barlume della realtà. Per questo ritengo necessario raccontare la vita di Antonia come se fosse un romanzo. Perché a volte la finzione è l’unica via per andare oltre le apparenze, i fraintendimenti, e ricomporre il puzzle di personalità poliedriche in cui fatti, intenzioni e volontà sono stati scossi da continui scarti.
Tessendo la trama delle parole di Antonia Pozzi, ricostruendo la cronologia degli eventi salienti della sua vita, riempiendo i vuoti con cose che non sono state, ma avrebbero potuto essere, mi propongo di restituire il ritratto di una donna e del suo tempo – per come io l’ho vissuto, quasi un secolo dopo. E per come io l’ho sentito, romanzesco e sfuggente, più vero del vero".

Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938) è stata una poetessa italiana. Figlia di Roberto, importante avvocato milanese, e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi,[1] Antonia scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove vive con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta da Cervi nel 1933. Forse a causa di questa grave ingerenza nella sua sfera affettiva, parlando di sé quell'anno scrive: «e tu sei entrata / nella strada del morire».
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia dell'Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, e segue le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il più aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, studia il tedesco, il francese e l'inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra, ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, nella provincia di Lecco, dove si trova la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece descrizioni degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene.
La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all'università, disse che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Avvertiva certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpirono alcuni dei suoi amici più cari: «Forse l'età delle parole è finita per sempre», scrisse quell'anno a Sereni.
A soli ventisei anni si tolse la vita. Nel suo biglietto di addio ai genitori scrisse di «disperazione mortale». Si uccise mediante barbiturici in una sera di dicembre del 1938, nel prato antistante l'Abbazia di Chiaravalle. La famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite.
È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo: il monumento funebre, un Cristo in bronzo, è opera dello scultore Giannino Castiglioni.
C'è un sito web dedicato alla poetessa e alle sue opere (www.antoniapozzi.it).

Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa
Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa
Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa

Un romanzo dalla scrittura diramata e tutta scheggiata da punte di luce, con la grazia di una Katherine Mansfield o di una Alice Munro

Giuseppe Conte

Nel nuovo romanzo di Gaia De Pascale, la vita e le opere di Antonia Pozzi, ragazza imperdonabile, poetessa e fotografa
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18 febbraio 2016 4 18 /02 /febbraio /2016 07:49
Masanobu Fukuoka. Non far niente é il miglior metodo agricolo
Masanobu Fukuoka. Non far niente é il miglior metodo agricolo
Masanobu Fukuoka. Non far niente é il miglior metodo agricolo

Masanobu Fukuoka (福岡正信 Fukuoka Masanobu?) (2 febbraio 1913 – 16 agosto 2008) è stato un botanico e filosofo giapponese, pioniere della agricoltura naturale o del non fare, autore di "La rivoluzione del filo di paglia" e "The Natural Way of Farming".

"L'umanità non sa assolutamente nulla. Nessuna cosa ha valore in se stessa e ogni azione è inutile, senza senso".
Dopo aver formulato questo pensiero, all'età di 25 anni, Masanobu Fukuoka, decise di mettere in pratica la sua intuizione. Si dedicò alla coltivazione dei cereali, evitando il più possibile di interferire nel delicato equilibrio della natura con le comuni pratiche agricole. Così, mentre nell'agricoltura tradizionale si sperimentano nuove tecniche chiedendosi: "Se si provasse questo o se si provasse quest'altro?" Fukuoka sperimenta ponendosi la domanda: " e se si provasse a non fare questo o a non fare quest'altro?".
Alla fine arrivò alla conclusione che sono davvero poche le pratiche agricole veramente necessarie, fondando la sua agricoltura del non fare sull'applicazione di 4 regole fondamentali: nessuna lavorazione, nessun concime chimico, nessun diserbo, nessuna dipendenza dai prodotti chimici.
Prese ad utilizzare i fili di paglia per pacciamare in modo naturale, scoprendo un nuovo (e vecchio) modo di essere contadini e di rapportarsi con la natura e con il cibo, imparando altresì a riconoscere il cibo naturale, sano e saporito che l'agricoltura moderna non può ottenere.
Con il suo percorso verso un'agricoltura naturale Fukuoka introdusse a un modo diverso di rapportarsi con le stagioni e con il tempo di vita e si rese conto che la rivoluzione da lui intravista e sperimentata non poteva prescindere dal comportamento dei consumatori. "I consumatori generalmente danno per scontato di non avere nulla a che fare con chi provoca l'inquinamento agricolo", eppure "La disponibilità del consumatore a pagare alti prezzi per alimenti prodotti fuori stagione ha contribuito all'intensificarsi di metodi artificiali di coltivazione e di uso di sostanze chimiche... e i soldi non sono il solo prezzo pagato per permettersi una simile concessione".

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8 gennaio 2016 5 08 /01 /gennaio /2016 07:27
Quando è cominciato davvero tutto. Un racconto-riflessione di Salvatore Sulsenti

Il brano che segue, scritto dal mio amico e corrispondente FB Salvatore Sulsenti, è una piccola storia che è anche una meta-storia, poichè contien una riflessione sugli "inizi".
Salvatore nel suo scritto non ci dice esattamente di cosa si tratta: solo chi lo conosce e che lo segue comprende a cosa si riferisce.

Ma il fatto che abbia lasciato il testo così indefinito ci aiuta a dargli un significato più universale.

L'inizio non è mai semplice: un inizio è periglioso, poiché implica oltrepassare una soglia, da un lato della quale c'è il mondo da cui veniamo, mentre oltre si distende un universo ancora sconosciuto.

Superare soglie nella propria vita è qualcosa di creativo e di stimolante poichè ogni volta che ciò accade ci si confronta con qualcosa di nuovo e il nostro ingegno (e le nostre forze non solo mentali, ma anche fisiche, verranno messe alla prova.

Essere sulla soglia e superarla dà improvvisamente nuovo significato alla nostra vita.
I Romani antichi avevano un Dio che proteggeva le soglie e che, per questo era anche un Dio degli Inizio: Giano Bifronte, poichè nella sua classica rappresentazione aveva due volti, ciascuno dei quali guardava un lato della soglia.

E, nell'universo induista, c'è il Dio Ganesh, il Dio-Elefante che, danzando, creò il mondo.

E Ganesh è, per questo il Dio degli inizio, ma anche il Dio della creatività.

Le nostre azioni, le decisioni che pigliamo, le nostre scelte sono sovente multideterminate, con l'incidenza di fattori interni ed esterni, che spesso concorrono in un mix unico ed irripetibile, ma spesso per i punti di svolta più fondamentali e repentini, occorrono dei piccoli trigger.

E Salvatore con il suo racconto ce ne dà un esempio.

 

Luglio 2013. Telefonata Di Daniela P. mi passa un’amica: Anna.
Da questo momento molte cose cambieranno nella mia vita.
Daniela è una pittrice e ci siamo ritrovati su Facebook qualche tempo addietro. Solita trafila: post, commenti, foto pubblicate, richiesta di amicizia, conversazione stringata sulla chat ed immancabile scambio di contatti telefonici.
Telefono io e telefona lei, ci sentiamo e risentiamo ed ognuno di noi racconta qualcosa all’altro. Essendo io un artigiano dell’arte (anzi solo un uomo che fa qualcosa e che spera piaccia agli altri), confrontarmi con una pittrice conosciuta mi lusinga.
Il telefono presto non basta ed occorrerebbe passare oltre.
Non succede se non nel luglio del 2014, ma questo è un evento trascurabile.
Il passare del tempo e la distanza, io in Sicilia e lei in Lombardia, non aiutano.
Le telefonate vanno avanti ed anche le confidenze ma comprendiamo di essere molto distanti e come persone e come “artisti”.
Continuano le conversazioni, a dire il vero sempre meno frequenti, fin quando l’abitudine di Daniela di passarmi al telefono amiche mai sentite prima, mi portò a conoscere Anna.
Anna è l’antitesi di Daniela. Anna è pratica, affabile e solare e soprattutto è come la vedi. Daniela è un’esteta, si allontana dalla vita di tutti i giorni, ama se stessa ed il suo tacco 12. Le mie conversazioni continuano con Anna, ci si conosce e ci si apprezza come persone.
Lei moglie e madre di due belle ragazze, io artigiano dell’arte. Più conosco Anna più mi allontano da Daniela.
Restano le conversazioni telefoniche ma cambiano le cose.
Anna è una donna che lavora ed anche una casalinga, una moglie ed un’atleta. Corre, cammina, si arrampica.
Daniela vuol farsi sempre “vedere” ad Anna basta esserci.
Da qui comincia veramente tutto.

Ma qual'è l'inizio di cui parla Salvatore?
Ai fini del senso generale del suo scritto è irrilevante, per soddisfare i più curiosi, riporterò di seguito una piccola citazione (sue testuali parole), legate al momento attuale e a qualcosa che è appunto scaturito da quel cambiamento.

...da qualche giorno sono pervaso da uno stato di nervosismo pre maratona. Credo sia normale ma sto somatizzando l'evento.
Ho dei dolori, ma forse sono solo dei fastidi, in tutto l'addome.

Salvatore Sulsenti

Quando è cominciato davvero tutto. Un racconto-riflessione di Salvatore Sulsenti
Quando è cominciato davvero tutto. Un racconto-riflessione di Salvatore Sulsenti
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7 settembre 2015 1 07 /09 /settembre /2015 06:23
Leona Johansson e la nuova frontiera verde del Porno

(Maurizio Crispi) Scartabellando nei motori di ricerca di Internet ed incrociando tra loro parole, per ottenere risultat iinediti, ci si può imbattere a volte in sorprese inattese, come è stata la scoperta della norvegese Leona Johansson e della sua tribù di seguaci e devoti (tribù che, in pochi mesi, ha raggiunto il numero di oltre 1000 adepti), con i loro slanci sessuali che vengono etichettati a volte come una forma di "Tantric Tree Hugging"
Si tratta dei cultori del cosiddetto "porno-ambientalismo", i cui cultori praticano una sessualità libera, facendosi riprendere in contesti naturali e con il fine di ottenere come risultato energetico finale un maggior benessere dell'ambiente, lanciandosi in attività di sesso in open spaces naturalistici che, debitamente registrati e immessi nella rete, assumono le caratteristiche di una "danza della pioggia tantrica".
I due ideatori dell'iniziativa, Leona Johansson e il suo partner Tom Hol Ellingsen, facendo base a Berlino, hanno creato, a questo scopo, un proprio sito web - wwwfuckforforest.com - che va al di là della classificazione come semplice sito porno, in cui portano avanti queste tematiche ambientalistiche, con un connubbio stretto tra rappresentazione pornografia e mission ambientalista.

Nelle foto e nei video che nel loro sito web sono contenuti (e offerti alla fruizione del pubblico senza insidiose richieste commerciali) trapelano in modo abbastanza chiara gli elementi della loro filosofia e il loro approccio eco-ambientalista: come vi è stato - e vi è - un movimento di "eco-terroristi" che si propongono di salvaguardare l'ambiente con azioni di stampo terroristico, così loro si pongono - con la stessa filosofia - come "porno-ambientalisti".

Si tratta di riprese prive dei consueti stilemi della pornografia, anche di quella più recente, cioè del tipo "performativo" e da "entertainment", con il consueto repertorio di artifici retorici e di esacerbazione dell'atto essuale e dei suoi dettagli o variazioni.
Ci sono riprese nel bel mezzo di scenari naturali di bellezza incontaminata, ma anche di altri che si suppone siano degradati a causa dell'inquinamento o di guerre devastanti che hanno decretato la fine delle foreste, tronchi abbattuti, decorticati, cadenti e traballanti.

Ci sono - equidistanti - scenari di vita (naturale) rigogliosa e scenari di morte cupi e opprimenti.

Ci sono anche altre riprese in cui l'atto sessuale avviene su di un palco, nelcontesto di un concerto rock, quasi che lacopula avesse un ruolo principe nella liturgia musicale e servisse a sprigionare una sublime energia, facendosi da tramite e da catalizzatore delle energie individuali attivate dalla musica.

In tutti i contesti esaminati, sembrerebbe quasi che da quei corpi copulanti, essenziali e primitivi, senza eccesso di muscolazioni da palestra trasudanti ormoni e di altre concessioni agli estetismi contemporaei, quali - ad esempio - importanti abbronzature UV, seni siliconati. Forse ancor di più proprio i corpi dei performer appaiono mingherlini e denutriti, con delle capigliature acconciate con i dreadlock, sembrerebbe che dalle loro figure si sprigioni un'energia primordiale che s'irradia tutt'attorno sino a creare quasi un'aura misticheggiante: i copulanti si presentano - in definitiva - come dei moderni porno-sciamani, per i quali il culmine dell'orgasmo coincide con l'estasi trasformativa.

Leona Johansson, il suo partner Tommy Hol Ellingsen e i loro seguaci ed emuli appaiono come la sacerdotessa e i diaconi di un rito pagano che garantisce - con quel surplus di energia che da essi si sprigiona - il mantenimento della natura e che serve - nello stesso tempo - ad esorcizzare la sua perdita, ma forse anche ad attivare il suo ripristino.

Quello della rappresentazione pornografica è proprio un lungo viaggio: dalle prime immagini carpite attraverso il buco della serratura si è passati al porno-chic degli anni '80 e '90, per andare poi alle rappresentazioni performative con uno sconvolgimento della netta divisione tra chi osserva e chi agisce e con la tendenza ad muoversi verso la messa in scena dell'estremo con virtuosimi, eccessi e acrobazie, tendenti a sorprendere lo spettatore, ammicando a lui nello stesso tempo con lo sguardo in camera (vedi a titolo di esemplicazione le considerazioni di Clarissa Smith in suo breve saggio), sino alla porno-guerrilla e al porno-ambientalismo di cui si parla in questo post.
E sicuramente il viaggio rappresentativo attraverso l'Eros (che - come punto di inizio nell'era moderna - potrebbe avere forse il celebre dipinto di Gustave Courbet, detto L'Origine du Monde) non é ancora finito.
Ciò che colpisce di questa recente evoluzione è la quasi-sacralità della rappresentzione erotica che, in parte, si connette al movimento naturista tedesco degnli anni Venti del Novecento (poi soppresso dal Nazismo), ma anche alle tematiche tantriche (e alla connessa sacralità del Lingam e dello Yoni), ma anche a talune eresie medievali sorte nell'ambito del cattolicesimo, come quella dei Catari o dei suoi postumi tardivi - come la fu la Comunità Adamita dei "Fratelli del lIbero Spirito" che - si dice - siano state alla base dell'intera rappresentazione nel Trittico "Il Giardino delle Delizie" di Hieronymus Bosch, come suggerisce Wilhelm Fraenger, nel suo approfondito ed insuperabile studio "Il Regno Millenario di Hieronymus Bosch" (Guanda, 1980).

Grazie e Leona Johansson e a Tommy Hol Ellingsen, la rappresentazione pornografica tende a diventare una vera e propria religione della mente e una liturgia per la salvaguardia dell'ambiente.
 

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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