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31 gennaio 2024 3 31 /01 /gennaio /2024 07:10
Rumaan Alam, Il Mondo dietro di te, La Nave di Teseo, 2021

Ho letto Il mondo dietro di te (Leave the World Behind, nella traduzione di Tiziana Lo Porto) scritto da Rumaan Alam e pubblicato in traduzione da La Nave di Teseo (Oceani), nel 2021 dopo aver visto il film omonimo che è comparso su Netflix a dicembre circa
Devo dire subito che il film è stato un po’ deludente, soprattutto perché i diversi personaggi che interagivano in un assetto così minimalista erano poco scavati e assai poco convincenti: e, in mancanza di ciò, al netto di tutto, rimaneva la staticità dell’impianto narrativo, a cui si aggiungevano dei fatti eclatanti “da fine del mondo”, come un grosso mercantile che s’incagliava sulla spiaggia, essendo del tutto fuori controllo il sistema di pilotaggio autonomo o aerei che cadevano, elementi introdotti gratuitamente.: eventi accompagnati da asseverazioni che annullano l'atmosfera di sospensione e inquieta attesa in cui essi vivono sin quasi dall'inizio della loro vacanza.
Nel romanzo non c’è tutto questo e non ci sono fatti eclatanti: lo stile narrativo è più da tragicommedia di persone che interagiscono in uno spazio-tempo delimitato e circoscritto.
Quello che segue è un po' il racconto degli eventi principali che si dipanano nel romanzo.
Non c'è un'anticipazione molesta (che faccia da spoiler) in ciò che scrivo qui, in quanto che ci sia qualcosa che non va si intende subito, tra le righe: ma la natura vera degli eventi rimane sospesa per tutta la durata del romanzo, a differenza di quanto non faccia il film.
Ciò che conta veramente è il modo in cui l'autore sviluppa la trama e dà vita ai diversi personaggi che interagiscono all'interno d’una situazione paradossale (limite, si potrebbe dire, anche se il limite che si configura é puramente metafisico).
In ogni caso, coloro che ritengono di potere essere danneggiati nella loro possibilità di scoperta autonoma del testo, non vadano oltre questo punto.
C’è un nucleo familiare che si reca in vacanza per una settimana in una lussuosa villa con piscina nel New Hampshire, composta dai genitori Clay e Amanda e dai due figli Archie e la più piccola Rose: in seconda battuta, compaiono improvvisamente - e del tutto inattesi - i proprietari della villa stessa, durante la prima o la seconda notte della loro permanenza in circostanze quantomeno strane: bussano alla porta e si presentano; solo dopo vari malintesi si dichiarano per quello che sono e chiedono ospitalità, perché là fuori sta succedendo qualcosa.
Già le prime avvisaglie di questo qualcosa il nucleo familiare le ha percepite, perché da quando sono giunti a destinazione non hanno più la connessione Internet, e gli Smart Phone non funzionano, così come la televisione che non riceve nessun segnale se non dei brevi messaggi che dicono qualcosa a proposito appunto della cessazione delle trasmissioni, ma nessuna vera notizia, effimeri e poco comprensibili che compaiono in sovrimpressione su di uno schermo ostinatamente azzurro; e, quindi, già prima dell’arrivo dei padroni di casa i quattro, pur nella parentesi della vacanza che iniziava a sfumare, a dir poco, in un brutto sogno, avevano preso a discutere e a interrogarsi su ciò che debbano fare, se debbano andare fuori per cercare notizie oppure per vedere di incontrare altri con cui scambiare idee ed impressioni. Fondamentalmente non succede granché, nemmeno dopo l’arrivo dei ladroni di casa
Clay, dunque, decide di fare una perlustrazione fuori, alla ricerca di notizie e si perde anche senza il supporto di Google Maps. Non incontra nessuno, all'infuori d'una donna che, apparentemente disperata, farfuglia parole e frasi in spagnolo perché di origini latine: Clay non capisce lo spagnolo e, quindi, il messaggio che la donna avrebbe da comunicare cade nel vuoto.
Chiede aiuto, questo Clay lo comprende, ma se ne va subito dopo senza prenderla a bordo e torna a casa, quando già tutti si stanno preoccupando del protrarsi della sua assenza.
Di nuovo escono a distanza di qualche ora, sollecitati dal fatto che Archie si è ammalato d’una febbre misteriosa e ha perso - senza alcuna avvisaglia - un buon numero di denti.
Lui e G.H., il padrone di casa, vanno a casa di Danny, un vicino che, a suo tempo li aveva aiutati nella costruzione della casa.
Danny, non del tutto insensibile alle loro richieste di aiuto, tiene tuttavia le distanze e fa delle considerazioni sul fatto che là fuori qualcosa è già successo, lasciando intendere che lui è già preparato a vivere blindato a casa sua con il pieno di provviste e li sollecita ad andare fuori a fare altrettanto: "Cercate di trovare quanto più potete, non sapete cosa vi aspetta...".
Quindi, è in corso una catastrofe ma non è dato capire di che tipo di catastrofe si tratti, perché la corrente elettrica continua ad essere erogata, mentre non ci sono più le connessioni Internet e, di conseguenza, tutto ciò che funziona grazie al web è andato allo sfascio e c’è tutto un mondo che sta per cadere in pezzi.
A differenza di quanto accade nei romanzi post-apocalittici, noi lettori qui non vediamo direttamente in sequenze narrative gli effetti della “catastrofe”, se non nel pallido riflesso che ne colgono gli abitanti della villa (ospiti e padroni di casa) e nelle illazioni su ciò che è accaduto che essi fanno in conversazioni che si protraggono sino a notte fonda.
L’autore ci lascia in sospeso anche con con le ultime meditazioni di Rose che, apparentemente, s’é persa (e la madre, disperata, la sta cercando, ma senza trovarla), ma é in realtà andata in esplorazione nei paraggi, penetrando in una casa simile alla loro, abbandonata dai proprietari e con una grande scorta di provviste e altre risorse.
L’ultimo capitolo sembra preannunciare un adattamento alla catastrofe, quale che sia.
In fondo - dice l’autore - che cosa sarà mai il giorno della tanto paventata catastrofe? Niente più che un giorno come tanti altri della nostra vita - risponde attraverso uno dei suoi personaggi - e, quindi, da un certo punto di vista, c’è la banalizzazione della catastrofe: qualunque cosa essa sia dovremmo adattarci e far fronte al cambiamento, sopravvivendo se ci riusciamo.
Anche nel romanzo, peraltro, ci sono anche eventi misteriosi e ominosi, inspiegabili, come ad esempio le adunanze dei cervi di cui i nostri protagonisti sono i perturbati testimoni con centinaia di cervi che si fermano nei dintorni della casa e li guardano fissamente, senza muoversi e poi, improvvisamente, vedono atterrare una trentina di fenicotteri rosa nella piscina abbinata alla casa e lì soffermarsi
Quindi sono cambiate anche le leggi naturali (forse per colpa di ciò che abbiamo fatto al pianeta) - questo è il messaggio implicito - anche se noi lettori (non ricevendo alcun input dallo scrittore onnisciente) non sapremo mai niente - nessuna spiegazione razionale su ciò che sta effettivamente accadendo - e potremo soltanto immaginare.
É questo il bello del film (meno) e del libro (in misura ben ben più grande)
In più, nel romanzo - come ho già detto - vi è uno scavo dei personaggi che è molto più approfondito di quanto non accade nel film in cui tutti i personaggi sono trattati in modo sbrigativo e superficiale e appaiono tutti poco convincenti. 

La macchina narrativa si sviluppa con stilemi quasi teatrali, nel senso che, in ogni singolo capitolo, cambia frequentemente il punto di vista, con l’autore che pone il focus della sua attenzione su di un personaggio piuttosto che un altro, cambiando frequentemente punto di vista e introspezioni e reminiscenze.
Questa continua movimentazione narrativa il problema rimbalza da uno all’altro, in una circolarità di pensiero che si muove tra identificazioni e opposizioni, mi ha fatto apprezzare il romanzo, risollevandomi il morale dopo la visione di un film che tutto sommato mi era risultato deludente e che si ravvivava soltanto per l’inserto di eventi catastrofici che invece nel romanzo non sono assolutamente contenuti.


(Soglie del testo e risguardo di copertina) Un romanzo magnetico su due famiglie che non potrebbero essere più diverse, costrette ad affrontare insieme un mondo in cui non esistono più certezze.


«Rumaan Alam ci regala un thriller avvincente su una catastrofe annunciata. Svelando, in un gioco di specchi, le nostre paure attuali» - Francesco Pacifico, Robinson


Amanda e Clay hanno scelto un angolo remoto di Long Island per trascorrere qualche giorno di vacanza con i due figli adolescenti. Una pausa dalla vita frenetica di New York, una settimana tutta per loro in un'elegante casa di villeggiatura. I giorni passano felici, ma l'incantesimo si spezza quando un'anziana coppia bussa alla porta in piena notte: George e Ruth, molto spaventati, sostengono di essere i proprietari della villa. Un improvviso blackout a New York li ha costretti a tornare nella casa che avevano messo in affitto. In quest'area isolata, dove i cellulari non prendono, senza tv e internet, è impossibile controllare la loro versione. Amanda e Clay possono fidarsi dei due estranei? Quella casa è davvero un luogo sicuro per la loro famiglia? Mentre intorno ai protagonisti la natura sembra ribellarsi, un male misterioso li perseguita e mina la fiducia che hanno l'uno verso l'altro: ora sono prede che devono lottare per mettersi in salvo. Un romanzo su due famiglie che non potrebbero essere più diverse, costrette ad affrontare insieme un mondo in cui non esistono più certezze.

Rumaan Alam


L’autore. Rumaan Alam, nato negli Stati Uniti nel 1977 da genitore emigrati dal Bangla Desh, é scrittore di diversi romanzi. I suoi scritti sono apparsi su “The New York Times”, “The New Republic”, “New York Magazine”, “The Wall Street Journal”, “Bookforum”, “The New Yorker”.
Il mondo dietro di te (La Nave di Teseo, 2021) è stato finalista al National Book Award ed è stato selezionato come libro dell’anno dalle più importanti testate americane, tra cui “Time”, “The Washington Post”, “The Boston Globe”.

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12 gennaio 2024 5 12 /01 /gennaio /2024 07:33
Piero Cipriano, La Società dei Devianti, Eleuthera

Con La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d'ogni sorta (Altre storie di uno psichiatra riluttante), pubblicato da Eleuthera nel 2016,
ho completato la lettura del terzo volume della trilogia dello “psichiatra riluttante” di Piero Cipriano, preceduto da "La Fabbrica della salute mentale: diario di uno psichiatra riluttante" e da "Il manicomio chimico: cronache di uno psichiatra riluttante" (sempre editi da Elèuthera)

Quale sia il progetto che emerge da questi tre volumi così ricchi di contenuti, eppure percorsi da un unico - coerente - filo conduttore, ce lo chiarisce in una breve, ma efficace, sintesi di intendimenti lo stesso Cipriano nell'incipit dell'ultimo capitolo di questo terzo volume della "Trilogia": una dichiarazione di intenti che ha tanto il sapore - mutatis mutandis - di quella poetica ed intimista - eppure di intensa critica sociale dei suoi tempi - di H. D. Thoreau, quando in una delle più celebrate pagine di Walden, ovvero Vita nei boschi, cerca di spiegare a se stesso e ai suoi futuri lettori il motivo della sua scelta di ritirarsi a vivere in maniera semplice in un luogo appartato nella selva, in una capanna da lui stesso costruita. Thoreau rimane pur sempre un fulgido esempio di un pensiero anarco-libertario e credo che Cipriano si possa in qualche collegare a quel tipo di pensiero che io mi sento di condividere profondamente e, del resto, per lui la transizione dalla definizione di sé come psichiatra riluttante a quella di "psichiatra anarchico" è stata naturale e spontanea.

Ma ecco le parole di Cipriano:

"Prima vorrei chiarire perché ho deciso di scrivere questi tre libri: Perché ad un certo punto della mia carriera, ho deciso che non avevo più voglia di fare carriera nel mondo, per lo più fuorilegge (fuorilegge in senso lato, per significare selvaggio, primitivo, ferino, immorale, anetico) della psichiatria, e avevo voglia, al contrario di intraprendere (nel mio piccolo specifico, sull'esempio dei grandi maestri dell'anticarriera psichiatrica, Franz Fanon e Franco Basaglia, per capirci) una carriera ritroso, l'anticarriera del medico mentale che si distrugge come soggetto di sapere e potere ai danni del malato e si ricostruisce come suo alleato" (ib., p. 217)


In questo terzo volume della trilogia, in circa trenta capitoli, Piero Cipriano, basagliano convinto, porta avanti le sue riflessioni che seguono vari filoni con un’attenzione questa volta più accentuata verso diverse forme di devianza e di intolleranza nei confronti dei diversi.
Cipriano si definisce, oltre che seguace delle idee di Franco Basaglia, uno psichiatra “riluttante” nei confronti dell’applicazione di misure contenitive e restrittive nel trattamento di ogni forma di disagio psichico, e quindi si proclama contrario a tutte le pratiche psichiatriche “restraint” (siano esse fisicamente o chimicamente contenitive). In ciò, sicuramente è uno psichiatra non allineato, uno che assieme a pochi altri (eredi di Basaglia, come lui) cerca di praticare una psichiatria che curi e che consenta in maniera autentica di liberare dalle sofferenze, di risolvere le conflittualità e di promuovere percorsi di liberazione.
Porta avanti il suo pensiero con coerenza, in maniera non omologata, incurante del fatto che molti colleghi operanti nell’ambito della psichiatria possano considerarlo un eccentrico (o anche un rompiscatole).
Eppure - e Cipriano ce lo mostra con efficacia - dire di no a certe pratiche omologate, a sistemi curativi pseudoscientifici non è soltanto espressione di coerenza con le proprie idee, ma può portare a dei risultati e può aprire delle crepe in un apparato “curativo” omologato e omologante (non solo nei confronti dei “pazienti” ma degli stessi operatori che vi lavorano), con un’azione di dissenso (alla maniera del melvilliano Bartleby lo scrivano) verso l’imperante “manicomializzazione diffusa” nel territorio che, accanto ai circa trecento mini-manicomi a degenza breve sparsi nel territorio nazionale, vede il proliferare sempre più importante ed imponente di strutture per degenze medio-lunghe, come le CTA oppure di Case di Cura convenzionate che accolgono pazienti psichiatrici per periodi di svariati mesi, funzionanti in base al principio della “porta girevole”.
È un piacere profondo leggere le considerazioni e le riflessioni di Cipriano, poiché egli riesce a realizzare sempre una brillante sintesi tra letture e approfondimenti fatti, film visti e la propria viva e inconfondibile esperienza clinica nella quale s’intravede in filigrana una profonda umanità.
Nelle sue pagine si coglie un vivido percorso di volontà di crescita professionale che si arricchisce di giorno in giorno, dove letture e riflessioni scritte servono a decostruire e a ricostruire di continuo delle buone prassi e a trovare continuamente lo stimolo interiore per porsi delle domande (ed é più importante, sempre, porsi delle domande, nutrire dei dubbi, anziché procedere avendo delle certezze assolute ed irremovibili).
Esperienza quotidiana, letture, studio, confronto e reminiscenza sono tutti elementi che confluiscono nelle scritture diaristiche, nelle riflessioni e nelle narrazioni a volte fiction di Cipriano che, essendo fuori dagli schemi, si definisce (e può essere senz’altro definito) uno “psichiatra anarchico”.
Non manca - come nei due precedenti volumi della “trilogia” - un ricco apparato bibliografico, un vero e proprio pozzo delle meraviglie, che consente ai lettori più esigenti di approfondire dei propri percorsi di lettura o di lasciare che si attivino proficue risonanze intellettuali nel caso quelle letture le abbia già esplorate precedentemente, ma cogliendo l’opportunità di rivisitare alcune tematiche viste in una nuova, originale, sintesi.
Cipriano non è soltanto un neo-basagliano, uno psichiatra riluttante, uno psichiatra anarchico (o anarcoide), ma è anche un esploratore impenitente che cerca di venire fuori dalle sue personali contraddizioni, trovando una propria strada che, per successive approssimazioni, lo porta a vivere sempre più coerentemente la propria professione.
Non vedo l’ora di leggere gli altri suoi libri che scaturiscono appunto da questa continua ed indefessa ricerca che nella sua più recente evoluzione è approdato ad un interessamento nei confronti della neo-psichedelia e del potere curativo di certe pratiche rituali messe in atto nelle culture tradizionali e che, dunque, in questa sua più recente evoluzione di pensiero e di interessi culturali si allinea con i grandi psiconauti del nostro tempo (di cui il nostro Giorgio Samorini è un rappresentante importante nonchè portavoce di altri studiosi del settore).

Ma, prima di concludere, diamo voce a Piero Cipriano che, in un paragrafo sintetico e denso, ci spiega chi e cosa è uno psichiatra riluttante.

"Chi è, oggi, uno psichiatra riluttante?
Uno che non accondiscende ai dogmi della psichiatria e alle sue pratiche, quasi sempre repressive. Uno psichiatra critico, radicale. Non ho trovato di meglio per definirmi. Non sono il primo e spero di non essere l'ultimo. Anzi, lo so di essere in buona compagnia. Eppure per molti anni, nei luoghi dove ho esercitato il mio mestiere mi sono sentito completamente solo. Come un cane sciolto. O meglio, come un cane in chiesa. Come se fossi rimasto l'ultimo uomo sulla terra. Su pianeta abitato da zombie. E cosa può fare un uomo rimasto solo, su un pianeta disumanizzato, o su un'isola, o in un faro, o in un reparto psichiatrico blindato, se non scrivere, raccontarsi, provare a rimanere se stesso, o, perfino, rimanere vivo, per non lasciarsi andare alla disperazione, e cercare alleati, altri come lui: i riluttanti appunto." (ib.,
p11)

Trovo che queste parole di Piero Cipriano siano bellissime e particolarmente adatte per concludere questa breve recensione: molto meglio che una puntuale disamina capitolo per capitolo delle diverse tematiche trattate con competenza e con forte attitudine critica.


(Risguardo di copertina) "Ho vissuto metà del mio tempo nei luoghi dove si deposita la follia più indesiderata e tutta la possibile devianza dalla norma.
"E ho visto, da questo luogo privilegiato, in che modo gli uomini si trasformano, sia i curanti che i devianti
".
Si chiude con queste crude storie che raccontano il mal di vivere della nostra epoca la trilogia della riluttanza iniziata con "La fabbrica della cura mentale" e proseguita con "Il manicomio chimico".
A partire dalla sua frequentazione quotidiana con la sofferenza psichica, Cipriano si misura con quella stanchezza esistenziale, sbrigativamente definita depressione, che la nostra società antropofaga prima alimenta e poi cerca di etichettare con quel furore diagnostico e categoriale che le è proprio. A ogni deviante la sua etichetta, medica o psichiatrica, ma anche sociologica o giudiziaria, che così diventa una sorta di tatuaggio identitario, un destino imposto da cui tutto il resto deriva: gli obblighi, i percorsi, le scuole, le cure, i farmaci, le prigioni, ciò che ognuno potrà o non potrà fare (ed essere) nella sua vita.

Piero Cipriano (DAL WEB)

L'autore. Piero Cipriano (1968), medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d'Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. Autore di numerosi saggi sull'argomento, con Elèuthera ha pubblicato «la trilogia della riluttanza», che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale (2022 n.e.), anche Il manicomio chimico (2023 n.e.) e La società dei devianti (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).

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25 dicembre 2023 1 25 /12 /dicembre /2023 19:44

Non avrei mai potuto lasciare andare Holly Gibney. Doveva essere una comparsa in Mr Mercedes' e ha finito per conquistare la scena e il mio cuore. Holly è tutto suo.

Stephen King

Stephen King, Holly, Sperling&Kupfer, 2023

Qualche giorno fa ho finito di leggere l'ultimo romanzo tradotto e pubblicato in Italia di Stephen KingHolly (nella traduzione di Luca Briasco), pubblicato come sempre da Sperling&Kupfer, nel 2023
Holly si inserisce nel filone, inaugurato da Mr Mercedes (con Bill Hodges, poliziotto in pensione che rioorna sulla scena del delitto da investigatore privato, protagonista indiscusso) e continuato poi con altri due romanzi "Chi perde paga" (quando già l'agenzia investigativa creata da Bill Hodges procede a tutto regime) e "Fine turno" che vede la morte del detective in pensione Bill Hodges e l'emergere in modo sempre più definito di Holly Gibney che, con la scomparsa di Bill, diventa l'anima portante dell'agenzia investigativa da loro fondata  con il nome di "Finders Keepers".
Nel successivo "Outsider" emergono prepotentemente l'abilità investigativa di Holly e soprattutto il suo acume e la sua tenacia, nel confronto con alcuni casi di omicidio particolarmente brutali ed efferati, dietro i quali si nasconde un'entità soprannaturale,
In questo romanzo che si svolge nel pieno dell'epidemia di Covid ed interamente dedicato a lei, Holly (nel momento in cui è costretta a confrontarsi con il lutto per la scomparsa della madre, proprio a causa del Covid) è chiamata ad occuparsi di un caso che visto la scomparsa di una giovane donna e sua committente è Penny Dahl, la madre, affranta e desiderosa di vederci chiaro e di avere delle risposte (dov'è andata a finire? E' viva? E' morta? Perchè?).
Holly prende ad indagare con la tenacia e il metodo che la contraddistinguono (mentre i suoi collaboratori sono tutti out, chi per Covid e chi per altre vicissitudini personali) per rendersi conto che a questo caso di scomparsa ne sono connessi altri avvenuti nell'arco di circa dieci anni nella stessa zona (casi registrati come semplici "scomparse" di cui nessuno sembra essersi eccessivamente preoccupato).
In parallelo all'indagine di Holly noi lettori possiamo gettare uno sguardo dietro le quinte temporali della narrazione e seguire così gli eventi che portano alla scomparsa di questi individui: a poco a poco, veniamo condotti dentro la verità (nel senso che noi lettori apprendiamo prima di Holly chi sono i responsabili delle scomparse e veniamo condotti con abile mano a comprendere i loro perché e le loro motivazioni, in modo dosato e graduale: anche qui l'autore cerca di non spoilerare se stesso).
Ovviamente, a questo punto non si può dire di più, per non dover essere accusati a nostra volta di essere degli spoiler.
Si arriverà alla fine ad una epicrisi, cioè ad una risoluzione che significherà soltanto la possibilità di dire ai familiari degli scomparsi cosa sia accaduto veramente.
"Holly" è un romanzo vagamente disturbante (o, forse, decisamente perturbante) per via del tema trattato.
Ma la cosa più inquietante di tutte, questa volta, è che - mentre nelle indagini precedenti (anche quelle condotte assieme al suo mentore Bill Hodges) Holly era alle prese con entità in qualche modo soprannaturali, che la conducono "ai confini della realtà" e forse anche oltre - qui, invece, i rapitori (e gli assassini) sono delle persone "normali" di cui non si potrebbe dire mai e poi mai che siano tali.
Insomma, vi è in queste pagine una efficace rappresentazione del Male e della "banalità" dei suoi esecutori.
In questo, la narrazione di Stephen King è estremamente efficace.

"Non avrei mai potuto lasciare andare Holly Gibney. Doveva essere una comparsa in Mr Mercedes' e ha finito per conquistare la scena e il mio cuore. Holly è tutto suo." - Stephen King

Come spiega, lo stesso autore, un antefatto di questa vicenda lo si trova in un romanzo breve, contenuto nell'antologia pubblicata nel 2019 con il titolo "Se scorre il sangue, si vende" (che ha dato il titolo all'intera raccolta) che oltre a questo contiene altri tre romanzi brevi tra i quali "Il telefono del sig. Harrigan" (splendido! e che ha ispirato il film omonimo).


(dal risguardo di copertina) Holly Gibney è tornata. Uno dei personaggi più amati dai lettori e dal suo stesso autore sarà protagonista di un nuovo agghiacciante caso: una tranquilla città del Midwest. Una scia di sparizioni misteriose. Una detective che non teme di raccogliere le sfide impossibili.
Quando Penny Dahl chiama l'agenzia Finders Keepers nella speranza che possano aiutarla a ritrovare la sua figlia scomparsa, Holly Gibney è restia ad accettare il caso. Il suo socio, Pete, ha il Covid. Sua madre, con cui ha sempre avuto una relazione complicata, è appena morta. E Holly dovrebbe essere in ferie. Ma c'è qualcosa nella voce della signora Dahl che le impedisce di dirle di no. A pochi isolati di distanza dal punto in cui è scomparsa Bonnie Dahl, vivono Rodney ed Emily Harris. Sono il ritratto della rispettabilità borghese: ottuagenari, sposati da una vita, professori universitari emeriti. Ma nello scantinato della loro casetta ordinata e piena di libri nascondono un orrendo segreto, che potrebbe avere a che fare con la scomparsa di Bonnie. È quasi impossibile smascherare il loro piano criminale: i due vecchietti sono scaltri, sono pazienti. E sono spietati. Holly dovrà fare appello a tutto il suo talento per superare in velocità e astuzia i due professori e le loro menti perversamente contorte.

 

Hanno detto:
«King in Holly ci chiede ancora una volta cosa sia quella forza nera che ognuno di noi ha sentito, almeno una volta, dentro di sé - o molto più probabilmente che sentiamo di continuo - da cui alcuni si lasciano sopraffare, e che altri invece riescono a riconvertire in resistenza, difesa, attacco all'oscuro.» - Antonella Lattanzi, la Lettura
«Siamo di fronte ad un thriller in piena regola, pertanto, che in un serrato alternarsi di piani temporali diversi svela dettagli sempre più raccapriccianti e cruenti a mano a mano che la complessa indagine portata avanti da Holly si snoda tra drammi personali, emergenza Covid, indizi e intuizioni.» - Isabelle Mollard per Maremosso

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12 dicembre 2023 2 12 /12 /dicembre /2023 07:17

Queste riflessioni sono state originariamente pubblicate su FB (Meta) l'11 dicembre 2021, a corredo della foto che potete vedere subito sotto.
Riporto quelle brevi riflessioni con qualche adattamento e soltanto poche modifiche rispetto al testo originario

Maurizio Crispi

Le mie letture mattutine dell'11 dicembre 2021

Le mie letture mattutine dell'11 dicembre 2021

Molti libri in contemporanea, di ciascuno poche pagine alla volta, senza fretta. Un boccone alla volta. Le parole vanno masticate e assaporate come chicchi d'uva o altre pietanze prelibate
Faccio la prima colazione e mangio libri
Poi, durante il giorno (ed anche nella notte) leggo altri libri, sempre con lo stesso criterio che è quello di giocare su tanti tavoli contemporaneamente
In ogni stanza di casa mia c’è un angolo preposto alla lettura (direbbero gli Inglesi: un cosy corner) e collocato vicino ci sta un mucchietto (o mucchione, a seconda dei casi, altri direbbero una catasta) di libri lettura
Il principio è che i libri in lettura non mi seguono da una stanza all’altra
Ma sono piuttosto loro che mi attendono in ogni stanza preposta alla lettura
Ci sono anche dei libri che tengo in auto, per le attese
E dei libri "da zaino"
Ciò è anche possibile, poiché ho un panorama di letture e gusti piuttosto variegato, in cui saggi di vario genere o raccolte di racconti fanno da intermezzo
A volte i libri, più che letti da cima a fondo, vanno guardati e sfogliati, in modo tale da acquisire dimestichezza con il loro contenuto, con una lettura a volo d’uccello di prefazioni e postfazioni varie e dell’indice anche
Sono un lettore ingordo?
O forse mi piacciono la varietà e la differenziazione?
Non so
Mi chiedo come io sia arrivato a questo punto
Adesso che ho 74 anni continuo ad essere assillato dal pensiero che non ho più abbastanza tempo per leggere tutti i libri che vorrei leggere, anche se so che non ci riuscirò mai del tutto

D'altra parte, è Umberto Eco - scrittore, erudito e grande bibliofilo - a dire che non è necessario leggere per intero, da cima a fondo, ognuno dei libri che si possiedono.

È sciocco pensare che si debbano leggere tutti i libri che si comprano, come è sciocco criticare chi compra più libri di quanti ne potrà mai leggere. Sarebbe come dire che bisogna usare tutte le posate o i bicchieri o i cacciavite o le punte del trapano che si sono comprate, prima di comprarne di nuove. Nella vita ci sono cose di cui occorre avere sempre una scorta abbondante, anche se ne useremo solo una minima parte. Se, per esempio, consideriamo i libri come medicine, si capisce che in casa è bene averne molti invece che pochi: quando ci si vuole sentire meglio, allora si va verso "l’armadietto delle medicine" e si sceglie un libro. Non uno a caso, ma il libro giusto per quel momento.

Ecco perché occorre averne sempre una nutrita scelta! Chi compra un solo libro, legge solo quello e poi se ne sbarazza, semplicemente applica ai libri la mentalità consumista, ovvero li considera un prodotto di consumo, una merce. Chi ama i libri sa che il libro è tutto fuorché una merce.»

Umberto Eco (1932-2016)

Umberto Eco (1932-2016) nella sua biblioteca privata

Umberto Eco (1932-2016) nella sua biblioteca privata

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1 dicembre 2023 5 01 /12 /dicembre /2023 06:20
Piero Cipriano, La fabbrica della salute mentale, Eleuthera

Ho scoperto solo adesso - molto di recente - Piero Cipriano, forse perché - avendo ripreso dopo anni di pensionamento a lavorare in ambito psichiatrico - in una CTA per essere precisi - sto sentendo il bisogno di aggiornamento intellettuale e di contributi critici allo stato attuale della Psichiatria e che diano nello stesso tempo dei colpi all'impero dello Psicofarmaco e di Big Pharma.
Sino ad ieri, in sostanza, non sapevo nulla di Piero Cipriano e, quindi, come sono arrivato ai suoi libri? 
Semplice! 
Ho sentito parlare di lui in una trasmissione su RAI 3 (che è quella gestita al mattino da Nicola La Gioia ed altri che si alternano nel commentare quotidianamente una selezione di articoli culturali comparsi nella stampa e sul web) nel corso della quale il collega Cipriano veniva anche brevemente intervistato (in occasione della recente uscita del suo più recente volume "Ayahuasca e cura del mondo", Politi Seganfreddo Edizioni, 2023) e ho trovato che ciò che egli aveva da dire fosse estremamente stimolante, ed anche critico.

Ho anche percepito che Cipriano si poneva come una voce fuori dal coro.
Di conseguenza, sono passato immediatamente dal dire al fare e ho ordinato alcuni dei suoi volumi disponibili: e subito mi sono immerso nella lettura de "La fabbrica della salute mentale" (Eleuthera, 2012 con una nuova edizione nel 2019). 
Il caso ha voluto (senza che io ne avessi alcuna consapevolezza nel momento in cui l’ho scelto come prima lettura) che si trattasse anche del primo volume della trilogia dello "psichiatra riluttante" che poi è lo stesso Cipriano che si confessa ed espone le sue idee di psichiatra libertario e che dice no (almeno cerca di farlo) all’uso estensivo delle “fasce” nei “moderni” reparti di psichiatria, per non parlare di altri aspetti coercitivi (come l'uso delle sbarre alle finestre o delle porte chiuse a chiave, come è nella maggior parte dei circa 300 SPDC in Italia, salvo poche e lodevoli eccezioni, come ad esempio quella rappresentata dall'SPDC di Ravenna dove gli operatori hanno deciso nel 2021 di passare ad una pratica di cura e assistenziale e di cura no restraint, ma ne esistono altri in tutta Italia, forse una quindicina in tutto).
Finito questo volume  (anzi  sarebbe meglio dire, avendolo "divorato", mi correggo), sono passato alla lettura di quello che è la seconda pietra miliare della trilogia, sempre pubblicato da Eleuthera, ovvero Il Manicomio Chimico
In questo primo approccio,  ho apprezzato la lucidità e la nettezza di scrittura di Cipriano, il suo modo di dire le cose utilizzando registri narrativi diversi tra la puntata diaristica, il saggio breve, le modalità proprie del pamphlet critico e accusatorio (ma sempre documentato): questo apprezzamento scaturisce,  ovviamente, da una condivisione intellettuale di alcune delle tematiche esposte.
Apprezzo la scrittura di Cipriano per il semplice motivo che mi ci rispecchio molto e torno a rivedere le molte battaglie culturali combattute contro i pregiudizi e gli stereotipi, quando vennero fondati i primi servizi per il trattamento delle tossicodipendenze sul finire degli anni Settanta e nessuno sapeva ancora nulla di questa problematica, in assenza persino di una letteratura decente che potesse servire da guida. Ricordo le molte battaglie intraprese anche soltanto per potersi intendere con altri colleghi operanti nello stesso settore e che avevano concezioni delle tossicodipendenze e della loro cura radicalmente diverse. Battaglie che sovente dovevano necessariamente partire da una definizione linguistica degli ambiti di cui dovevamo occuparci e della capacità di sfrondare dal discorso tutte le aggiunzioni e ridondanze connotative legate a termini di comune uso come "droga" e "drogato".
Scrivere serve, se attraverso la scrittura si divulga un pensiero "altro", se si viene letti e se, attraverso ciò, si creano sacche di pensiero alternativo rispetto a prassi consolidate, erronee o fondate su presupposti pseudoscientifici, le quali poi possono diventare caposaldi per un possibile cambiamento di paradigma più estensivo.
E ricordo appunto che, ai tempi della mia pratica pionieristica nel campo delle tossicodipendenze giovanili, scrivevo e scrivevo, quando possibile pubblicavo, coinvolgendo anche altri in questi progetti di scrittura, cercando di dire le cose come stavano, di correggere il tiro, creare degli assessment innovativi e le premesse di buone prassi.
Cipriano è un basagliano convinto, di seconda generazione, decisamente critico nei confronti della cosiddetta "restraint" psichiatria (cioè della psichiatria che pratica la contenzione, a tutti i livelli: porte chiuse e finestre sbarrate, contenimento chimico, uso delle fasce) che, di fatto, dietro un esile paravento di scientificità e di modernizzazione tradisce la spirito della riforma del 1978 che abolì i manicomi vecchia maniera, ma è anche un fervente seguace delle idee e delle pratiche di Tobie Nathan, un altro grande pensatore e clinico (nell'ambito clinico -psichiatrico applicato al presunto "diverso", che pure io apprezzo e che ho letto, traendone molti spunti di riflessione e di ispirazione.
Indubbiamente, sia Basaglia sia Nathan si possono considerare due maestri del pensiero (nel senso più lato), ma anche attivamente propositori di "buone" pratiche eticamente fondate, soccorrevoli, empatiche e attente al benessere effettivo di chi chiede di essere curato, in forme e secondo modalità che siano inclusive e fondate sulla comprensione, in primo luogo e sul desiderio di risolvere i conflitti là dove essi si sono generati.
La lettura di alcuni capitoli de La Fabbrica della Salute mentale mi ha indotto a riprendere alcune delle pagine di Basaglia che hanno fatto parte del mio bagaglio formativo e culturale (anche se certamente non incluso nel programma di studi della scuola di specializzazione che frequentai a suo tempo).
Basaglia - se ci si pensa bene - risulta tuttora troppo scardinante rispetto ad un approccio che vuole essere di controllo e sedazione, "clinostatico" come dice Cipriano (con l'ammalato sdraiato sul letto, quindi - fondamentalmente in posizione down o - per tornare a Basaglia - in un'atmosfera in cui si pratica la medicina del "corpo morto") ma di base scarsamente evolutivo in termini di effettivo miglioramento della salute psichica delle persone sofferenti, poiché manca quasi del tutto un approccio "umanistico" e il supporto di strutture territoriali agili ed efficienti che consentano di sviluppare programmi articolati di psichiatria di comunità con una possibilità di presa in carico H24 di un paziente, ma direttamente a contatto del territorio in cui vive, là dove sono sorti i problemi e là dove essi possono essere risolti, soprattutto per quanto concerne conflitti e contraddizioni.
Leggere le considerazioni di Cipriano a distanza di quasi cinquant'anni dal fatidico 1978, anno dell’entrata della legge che sancì l’abolizione dei manicomi e l’avvio di una “nuova” psichiatria, spinge a riflettere sul fatto che, al di là dell'apparente rinnovamento (la chiusura dei manicomi e a partire dal 2013 anche dei Manicomi Giudiziari), si sia creato un mondo di assistenza psichiatrica, fondato su di una "manicomalità diffusa" e del crescere di quello che Cipriano con un ardito neologismo definisce "terricomio" (in cui al posto di pochi giganteschi manicomi abbiamo adesso una quantità impressionante di mini-manicomi sparsi nel territorio a degenza breve come sono appunto gli SPDC oppure a degenza medio-lunga come sono alcune case di cura convenzionate che sono in condizione di tenere i pazienti per lunghi periodi di tempo oppure le cosiddette CTA, ovvero le Comunità Terapeutiche Assistite per pazienti psichiatrici.
Cipriano si definisce uno psichiatra riluttante, prendendo a prestito la parola dal titolo di un libro da lui letto (anche io lo conosco) che è "Il fondamentalista riluttante": un romanzo in cui fa da protagonista un fondamentalista (che tale è stato addestrato ad essere) ma che tuttavia attenendosi alla propria coscienza e a valori etici più universali, non vuole esserlo: ed è per questo motivo un "riluttante", uno psichiatra che lotta quotidianamente per evitare i compromessi e per improntare la propria pratica quotidiana a principi etici irrinunciabili.

 

(quarta di copertina) Nonostante siano passati oltre quarant'anni dall'approvazione della legge che avrebbe dovuto sancire il superamento definitivo della barbarie manicomiale, Piero Cipriano – psichiatra riluttante, come si definisce – ci racconta in presa diretta cos'è oggi un Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura. Grazie al suo sguardo impietoso, quei luoghi che avrebbero dovuto garantire una gestione umana ed efficace delle crisi psichiatriche ci appaiono invece come le nuove roccaforti di una rinata «cultura manicomiale» in cui il potere del sano sul malato è ancora gestito in modo arbitrario e burocratico. 
Con alcune notevoli differenze rispetto al passato: se il manicomio tradizionale ricordava un campo di concentramento, l'attuale SPDC ricorda piuttosto una fabbrica, dove il primario è il direttore, lo psichiatra il tecnico specializzato addetto alla catena di montaggio umana e il malato la macchina biologica rotta da aggiustare. 
E quando il farmaco non basta, ecco che tornano le fasce: proprio come nei vecchi manicomi.

 

L’autore. Piero Cipriano (1968), medico psichiatra e psicoterapeuta, di formazione cognitivista ed etnopsichiatrica, ha lavorato in vari Dipartimenti di Salute Mentale d'Italia, dal Friuli alla Campania, e da qualche anno lavora in un SPDC di Roma. 
Autore di numerosi saggi sull'argomento, con Elèuthera ha pubblicato «la trilogia della riluttanza», che comprende, insieme a La fabbrica della cura mentale (2022 nuova edizione), anche Il manicomio chimico (2023, n.e.) e La società dei devianti. Depressi, schizoidi, suicidi, hikikomori, nichilisti, rom, migranti, cristi in croce e anormali d’ogni sorta (altre storie di psichiatria riluttante) (2016), oltre a un volume dedicato allo psichiatra che più lo ha influenzato: Basaglia e le metamorfosi della psichiatria (2018).

 

Piero Cipriano. Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante, Eleuthera

Piero Cipriano con Il manicomio chimico. Cronache di uno psichiatra riluttante (uscito per la prima volta nel 2015 e riedito nel 2023 per i tipi di Eleuthera) prosegue le riflessioni iniziate in “La fabbrica della salute mentale”. 
Si muove anche qui tra memorie personali, riflessioni legate alla sua pratica lavorativa ed anche piccoli voli fantastici in cui elementi della realtà si mescolano con suggestioni letterarie discendenti da alcuni dei suoi autori preferiti.
Cipriano - come già detto - è un basagliano convinto e ciò è un grande pregio in un momento in cui, mentre ci avviciniamo al cinquantenario della Legge che ha abolito i manicomi e, dopo il 2013, anche i manicomi giudiziari, Basaglia e le sue critiche destruenti contro qualsiasi forma di psichiatria costrittiva, sembrano essere dimenticati, anzi radicalmente rimossi dalla coscienza collettiva.
Cipriano, nel suo assetto di seguace delle idee di Basaglia ed essendo contrario a qualsiasi pratica restrittiva sia essa contenzione fisica (uso delle fasce, sbarre alle finestre e porte chiuse)  o farmacologica ad libitum, si definisce anche uno psichiatra “riluttante” nel senso di essere portatore di una voce critica nei confronti delle pratiche imperanti (quelle del farmaco e dei molti modi per esercitare forme di costrizione), all'infuori di poche isole virtuose. 
Più avanti, Piero Cipriano si definirà anche uno psichiatra “anarchico” in quanto sostenitore del principio che uno psichiatra deve essere in condizione di essere in pace con la propria coscienza, dando sempre maggior risalto a decisioni e a modus operandi che siano “etici” anche al costo di scardinare pratiche consuetudinarie.
Le riflessioni di Cipriano sulle prassi psichiatriche attuali sono imbevute di un profondo senso etico.
Per tutti questi motivi, Cipriano è spesso entrato in rotta di collisione con il il sistema dominante e da parte di alcuni si è meritato la nomea di essere uno “psichiatra eccentrico”.
Ho già letto “La fabbrica della salute mentale” e non posso non ammirare la ricchezza di contenuti che traspare da questo secondo volume e la coerenza profonda delle riflessioni che vi vengono sviluppate.
Questo volume, ben più corposo del precedente, meriterebbe una disamina dettagliata dei suoi contenuti e magari lo farò in altra sede. Tra i diversi argomenti dettagliati vi è una disamina-sunto dell'interessantissimo studio di Robert Whitaker, Indagine su di un'epidemia (Fioriti Editore, 2013) che in maniera molto documentata e rigorosa sfata miti della moderna psichiatria farmacologica e mostra la nuda verità di un incremento inarrestabile delle patologie psichiatriche, suggerendo l'ipotesi (con il sostegno di studi effettuati) che sia  proprio l'utilizzo degli psicofarmaci a incrementare l'incidenza e la cronicizzazione delle patologie psichiatriche. 

 

Robert Whitaker, Indagine su di un epidemia, Fioriti, 2013


 

(sintesi del volume di Whitaker) Lo straordinario aumento delle disabilità psichiatriche nell’epoca del boom degli psicofarmaci.
Se quello che ci è stato raccontato finora è vero, cioè che la psichiatria ha effettivamente fatto grandi progressi nell’identificare le cause biologiche dei disturbi mentali e nello sviluppare trattamenti efficaci per queste patologie allora possiamo con concludere che il rimodellamento delle nostre convinzioni sociali promosso dalla psichiatria è stato positivo.
Ma se scopriremo che la storia è diversa – che le cause biologiche dei disturbi mentali sono ancora lontane dall’essere scoperte e che gli psicofarmaci stanno, di fatto, alimentando questa epidemia di gravi disabilità psichiatriche – cosa potremo dire di aver fatto? Avremo documentato una storia che dimostra quanto la nostra società sia stata ingannata e, forse, tradita.


Quella del secondo volume della trilogia dello psichiatra riluttante è una lettura che consiglio caldamente a chiunque desiderasse farsi un’idea critica dello stato dell’arte del sistema dell’assistenza psichiatrica in Italia, oggi


(Risguardo di copertina) Oggi il manicomio non è più costituito da fasce, muri, sbarre, ma è diventato astratto, invisibile. Si è trasferito direttamente nella testa, nelle vie neurotrasmettitoriali che regolano i pensieri. Il vero manicomio, oggi, sono gli psicofarmaci. Stiamo oltretutto assistendo a una vera e propria mutazione antropologica: agli psichiatri, e alle case farmaceutiche, non bastano più i malati da curare, ma servono anche i sani. Lutto, tristezza, rabbia, timidezza, disattenzione, non sono stati d'animo fisiologici, ma patologie da curare con il farmaco adatto. Dal suo punto di osservazione privilegiato, Cipriano, il nostro psichiatra riluttante, sottopone a una critica severa i principali dogmi della psichiatria «moderna», a cominciare dalla diagnosi, ovvero l'urgenza burocratica di considerare «malattia » qualunque disagio psichico, cui segue l'immancabile prescrizione di un farmaco. E quando i farmaci non sono sufficienti, ritorna l'uso nascosto delle fasce e dell'elettrochoc. È questo il nuovo manicomio, meno appariscente, più discreto, in cui diagnosi e psicofarmaco dominano la scena.

Seguendo il link sotto potete accedere alla recensione del terzo volume della trilogia dello psichiatra riluttante

La società dei devianti. Continuano - in un terzo volume - le riflessioni e narrazioni di Piero Cipriano, psichiatra riluttante

 

Quello linkato sopra è un articolo di Zanfini Roberto, Crescenti Maria Cristina, Correddu Giuseppina, Gottarelli Lorenzo, Linari Federica, Ricci Manuela, Bandini Barbara (SPDC di Ravenna, AUSL della Romagna)

L’articolo descrive come il SPDC di Ravenna sia divenuto, dal 2016 un reparto no-restraint. Viene descritto come il no restraint non sia una posizione ideologica ma un metodo di lavoro che, se applicato, può portare al superamento della contenzione meccanica. Alla base del no restraint vi sono: a) fattori architettonici del reparto b) organizzazione interna e gestione delle interfacce; c) attività clinica e assistenziale; d) formazione.
Vengono portati dati a supporto del fatto che il no restraint, oltre che etico, riduce il numero delle giornate perse per infortunio del personale, il numero degli episodi di aggressività nei confronti del personale, la spesa sanitaria complessiva per ricovero. Infine vi sono suggestioni che possono anche essere ridotte le giornate in TSO. Servono comunque ulteriori studi a supporto di questi dati preliminari.

Questo il mio pensiero, scaturito da una mia riflessione sul campo, dopo il mio rientro lavorativo, presso una struttura che si occupa di pazienti psichiatrici.

Su oltre trecento SPDC sono solo una trentina quelli in cui non si pratica contenzione (bandita oggi per legge, ma praticata per "necessità"). Rimangono delle case di cure per disturbi mentali che accolgono pazienti per periodi protratti di tempo o, in alternativa, in alcune regioni si è attivata una rete di CTA a gestione privata e convenzionate con le Regioni, in cui i pazienti psichiatrici possono stare per periodi protratti (in Sicilia sino a sette anni (con un conteggio di tipo cumulativo che riguarda anche periodi diversi, intervallati con altri tipi di intervento). In molte regioni pochissimo si è investito per sviluppare degli interventi intermedi, diffusi nel territorio con strutture di accoglienza (Day Hospital, strutture di accoglienza, Centri diurni) con una modalità operativa H24 in modo che le famiglie e gli stessi individui possano ricorrere in tutte le diverse circostanze.
Vi è un gap enorme, incolmabile tra gli SPDC e le strutture di ricovero e residenziali a lungo termine, un vuoto che non potrà mai essere colmato se le diverse regioni continuano a restringere i budget della Sanità e, nello specifico, quelli assegnati alla Salute Mentale.
Cipriano nelle sue analisi ha ragione: nell'assenza delle regioni, nella mancata pianificazione di interventi capillari ed organici nel territorio, è ben difficile costruire buone prassi e cercare di ridurre quanto più sia possibile l'impregnazione farmacologica dei pazienti psichiatrici.
E questa è purtroppo la nostra realtà regionale (in Sicilia).
E' chiaro che quanto più si diffondono le CTA a gestione privata (che a tutti gli effetti rappresentano un business lucrativo) convenzionate con la Regione, tanto meno la Regione investirà nello sviluppo di interventi organici nel territorio.
Spinto dall'entusiasmo derivante dalla scoperta degli scritti di Cipriano, l'ho contattato attraverso i social e gli ho scritto una breve lettera per raccontargli la mia esperienza e desideroso di un confronto.

Buongiorno, Piero!
Sono un collega psichiatra, ormai un po’ anzianotto
Dopo anni di quiescenza (sono andato in pensione nel 2008) ho ripreso a lavorare in una struttura convenzionata, una CTA
Sto toccando con mano le incongruenze del sistema dell’assistenza psichiatrica qui in Sicilia
Mancano quasi del tutto le strutture intermedie, i CSM aperti H24 sarebbero un’utopia (e se proposti a chi governa e decide sarebbero considerati una blasfemia)
Manca il personale per far funzionare adeguatamente le strutture esistenti
Per esempio, in uno CSM decentrato un solo psichiatra, in un SPDC nella provincia di Palermo solo due, tanto per fare esempi di cose di cui sono a conoscenza.

Le CTA a gestione privata sono di fatto dei mini-manicomi territoriali per degenze medio-lunghe (con proroghe di sei mesi in sei mesi, sino ad un massimo di sette anni).
Dopo, il nulla.
Ho scoperto casualmente di te e dei tuoi libri che sto leggendo con molto interesse ed apprezzamento
Nel tuo modo di accostarti alle tematiche per sviscerarne in modo critico ritrovo tanto di me stesso giovane, anche per via del tuo stile non tanto di saggista ma di giornalista “gonzo” che ama mettere se stesso in gioco anziché ricorrere alla pratica del giornalismo in cui chi scrive si defila e mantiene una sua neutralità.
La lettura dei tuoi libri procede a gonfie vele e sono già al terzo volume della trilogia dello psichiatra riluttante, mentre in parallelo leggo a piccoli pezzi quello sull’ayauasca.

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17 novembre 2023 5 17 /11 /novembre /2023 05:49
Painkiller. L'impero americano e la grande epidemia americana di oppiacei (titolo originale: "Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic", nella traduzione di Chiara Libero), opera di inchiesta dello scrittore e giornalista Barry Meier

Painkiller. L'impero americano e la grande epidemia americana di oppiacei (titolo originale: "Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic", nella traduzione di Chiara Libero), opera di inchiesta dello scrittore e giornalista Barry Meier, pubblicato nel 2022 da Mondadori (collana Oscar nuovi bestsellers), è una lettura di estremo interesse, poiché amplia di molto lo sguardo che la recente miniserie Netflix ha consentito di gettare sulla epidemia da oppiodi che si è registrata negli Stati Uniti dalla fine degli anni novanta del secolo scorso al 2020, avendo al suo centro l'Oxycontin, l'oppiaceo (la cui molecola è ricavata dalla tebaina, uno degli alcaloidi dell'oppio) millantato come “a lento rilascio” e sicuro, messo a punto dalla Purdue Pharma, azienda di proprietà della famiglia Sackler da sempre imprenditori del farmaco.
E’ stata un'epidemia di impressionanti dimensioni dal momento che si calcola che i morti per cause dovute/correlate all'assunzione di Oxycontin, siano stati oltre 250.000.

Il libro mette in luce con molta più forza le basi operative da cui è partita la famiglia Sackler che ha fondato, di fatto, le tecniche dell'orientamento marketing aggressivo dei farmaci, con tutta una serie di accorgimenti strategici, tra cui anche il controllo delle pubblicazioni " o scientifiche" o presunte tali. Tecniche che, nello specifico degli oppiacei "terapeutici" erano già state collaudate con il farmaco MS Contin (Morphine Solphate, in cui come per Oxycontin, il "contin" sta per "continous", ossia "a rilascio prolungato".
Il lancio di MS Contin e di OxyContin, dopo, si inserisce peraltro in un clima in cui sin dalla fine degli Ottanta si comincia a ragionare diversamente sulla terapia del dolore e sulla necessità di trovare dei farmaci adatti al trattamento del dolore cronico anche al di fuori delle situazioni oncologiche terminali.
In questo terreno la Purdue Pharma, grazie anche alle società correlate (e controllate dalla famiglia Sackler) si inserisce perfettamente con il suo marketing aggressivo e con il sistema da un lato di sistematica disinformazione indirizzata ai medici di base, cioè ai GP e non solo agli specialisti di terapia del dolore, e dall'altro di un sistema di incentivi ai medici prescrittori, oltre che con una costante minimizzazione del fenomeno della diversione sul mercato illegale nei modi più diversi sino ad arrivare alle cosiddette "

".
Il libro-inchiesta di Meier racconta tutto questo in modo avvincente e con ricchezza di particolare e la sua narrazione si legge come un romanzo.
Vi è naturalmente un atto d'accusa nei confronti del Big Pharma e della capacità delle lobby farmaceutiche di manipolare l'opinione pubblica, i medici, i politici nel perseguimento ostentato dei propri interessi di profitto.

Il libro, ma anche le due diverse miniserie che sono state prodotte, ispirandosi a questi drammatici eventi, inducono a riflettere e a porsi degli interrogativi sulla forza iatrogenica dei farmaci quando i medici non prescrivono più secondo scienza e coscienza, ma perché forzosamente indotti da un marketing aggressivo e mistificatorio, oltre che ad essere incoraggiati ad un un utilizzo di certi farmaci "pericolosi" in quanto generatori di dipendenza, seguendo delle indicazioni "off label", senza le necessarie tutele e essendo privi di un'informazione sincera e disinteressata. 
 

Painkiller. L'impero americano e la grande epidemia americana di oppiacei (titolo originale: "Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic", nella traduzione di Chiara Libero), opera di inchiesta dello scrittore e giornalista Barry Meier

(soglie del testo) A metà fra il thriller medico e giudiziario e l'investigazione finanziaria, Pain Killer è soprattutto l'amaro, sconvolgente resoconto della tragedia che ha coinvolto un'intera nazione.
Tra il 1996 e il 2017 circa 200.000 americani sono morti di overdose da antidolorifici regolarmente prescritti, una vera e propria epidemia scatenata dal marketing aggressivo di Purdue Pharma attorno al suo OxyContin, il cui principio attivo è la morfina. Intere famiglie di ogni classe sociale sono state devastate e numerose aziende sono state danneggiate, mentre i proprietari della casa farmaceutica, i "filantropi" Raymond e Mortimer Sackler – i cui nomi sono incisi tra quelli dei benefattori dei musei di mezzo mondo – accumulavano notevoli fortune. Barry Meier racconta come Purdue abbia trasformato OxyContin in un affare miliardario: in passato gli oppioidi, potenti antidolorifici, sono stati usati come "ultima spiaggia" da chi non riusciva a placare il dolore con altri farmaci. Ma la comunicazione di Purdue ha illuso i consumatori che Oxy fosse più sicuro dei comuni analgesici. Il che era falso: anche se assunto sotto controllo medico, infatti, dà dipendenza; ma l'azienda ha volutamente nascosto i dati in suo possesso alle agenzie regolatorie, ai medici e ai pazienti. Pain Killer, qui presentato in un'edizione aggiornata, ci fa conoscere chi ha tratto enormi profitti dalla situazione e chi ne ha pagato il prezzo, chi ha tramato nelle sale dei consigli d'amministrazione e chi ha tentato di lanciare l'allarme: Art Van Zee, un medico condotto della Virginia, che ha avvisato le autorità della sempre più diffusa dipendenza da OxyContin; Lindsay Myers, una promettente studentessa liceale che è arrivata a rubare ai propri genitori per procurarsi il farmaco; l'agente della DEA Laura Nagel che ha denunciato Purdue. Dopo decenni di inchieste, Meier dà anche conto di come il Dipartimento di giustizia non sia riuscito a fermare la politica di Purdue e a proteggere i cittadini. A metà fra il thriller medico e giudiziario e l'investigazione finanziaria, Pain Killer è soprattutto l'amaro, sconvolgente resoconto della tragedia che ha coinvolto un'intera nazione.

L'autore. Barry Meier (New York 1949) dopo gli studi alla Syracuse University, ha iniziato a lavorare come giornalista d'inchiesta per il «Wall Street Journal», il «New York Newsday» e il «New York Times». Molte delle sue inchieste hanno portato a interrogazioni al Congresso. Nel 2017 il suo team ha vinto il Pulitzer for International Reporting.


Dal 2023 Painkiller è diventato una miniserie disponibile sulla piattaforma Netflix

Dal 2023 Painkiller è diventato una miniserie disponibile sulla piattaforma Netflix Alla scoperta di Painkiller: serie tv provocatoria, drammatica e basata su eventi reali

Alla scoperta di Painkiller: serie tv provocatoria, drammatica e basata su eventi reali
"Tutto il comportamento umano è costituito essenzialmente da due cose. Fuggire dal dolore, correre verso il piacere". Sono queste le parole pronunciate da Matthew Broderick mentre recita il ruolo di Richard Sackler - presidente di Purdue Pharma, società conosciuta per lo sviluppo di OxyContin - in Painkiller, serie tv provocatoria e drammatica ispirata all'omonimo libro di Barry Meier.
I 6 episodi della miniserie basata su eventi reali sono disponibili sulla piattaforma Netflix dal 10 agosto 2023, e racconteranno la crisi degli oppioidi che ha colpito gli USA negli ultimi vent'anni, uccidendo centinaia di migliaia di persone.
La limited-series originale della piattaforma di streaming è stata ideata da Eric Newman e dai creatori di Narcos, che hanno fondato le sue radici sul libro d'inchiesta del premio Pulitzer Barry Meier, e sull'articolo The Family That Built the Empire of Pain scritto da Patrick Radden Keefe pubblicato dal The New Yorker.
Una miniserie, e un libro, che seguono i responsabili, le vittime e dei cercatori di verità le cui vite sono state alterate per sempre dall'invenzione dell'OxyContin.
“Painkiller” non è il primo prodotto pensato per indagare la storia degli oppioidi sintetici e arriva soltanto due anni dopo di “Dopesick”, incentrata sul medesimo argomento e a sua volta basata su un attento lavoro di ricerca giornalistica. La serie di Fitzerman-Blue e Harpster è infatti tratta da una duplice fonte: l’articolo del New Yorker “The Family That Built an Empire of Pain” di Patrick Radden Keefe, e il libro “Pain Killer: An Empire of Deceit and the Origin of America’s Opioid Epidemic” di Barry Meier. Il ritorno sul medesimo argomento non deve assolutamente sorprendere, dato che secondo le stime del National Center for Health Statistics soltanto nel 2021 le morti per overdose negli States collegabili agli oppioidi erano più di 80 mila. Non tutte erano direttamente legate all’OxyContin, ma il suo iniziale utilizzo sfrenato seguito dalle restrizioni arrivate intorno al 2015 ha spinto molti consumatori a cercare soluzioni più economiche e reperibili, come eroina e fentanyl.

"Dopesick - Dichiarazione  di dipendenza" è una mini-serie che racconta la lotta contro la dipendenza da oppioidi negli Stati Uniti, per descrivere i presunti conflitti di interesse tra varie agenzie governative - principalmente la FDA e il DOJ - contro la Purdue Pharma e, infine, sulla causa legale[3] contro la stessa Purdue Pharma per le svariate illegalità occorse durante lo sviluppo, il test e commercializzazione del farmaco denominato Ossicodone. La narrazione ripercorre le vicende reali a partire dai primi anni '90, fino ai primi anni 2000 - attraverso diversi personaggi e storie, partendo dalle miniere della Virginia fino al processo operato dalla Procura Federale dello stato di Washington e del Connecticut.

https://youtu.be/Zr7Q9sIFalo

https://www.my-personaltrainer.it/salute/oxycontin-epidemia-da-oppiodi.html#:~:text=Nel%202022%2C%20Purdue%20Pharma%20fu,vent'anni%20negli%20Stati%20Uniti.

Articoli di approfondimento 

The family that built an empire of pain
https://www.newyorker.com/magazine/2017/10/30/the-family-that-built-an-empire-of-pain

https://www.theguardian.com/books/2021/apr/18/empire-of-pain-review-sacklers-opioids-purdue-oxycontin-patrick-radden-keefe

L'immagine di copertina illustra perfettamente il nucleo centrale attorno cui la Purdue Pharma ha costruito la mistificazione attorno all'Oxy Contin.

Al centro campeggia la pillola incriminata, mentre davanti si vede un mucchietto di polvere bianca che altro non è se non la stessa pillola sbriciolata.

Nell'informazione scientifica fornita ai medici si diceva, in modo non esatto, che la preparazione a rilascio continuo e controllato avrebbe minimizzato i rischi di dipendenza nell'uso terapeutico e soprattutto l'utilizzo improprio in caso di "diversione" delle stesse pillole. 

Ma i consumatori leciti (quelli che ottenevano il farmaco con prescrizione medica) e quelli illeciti si resero presto conto che era sufficiente inumidire la superficie della pillola per poterla sbriciolare e ridurla in una polvere fine.
Quando si compivano questi passaggi si perdeva la possibilità del rilascio controllato del principio attivo e l'efficacia del farmaco si manifestava interamente, in tutta la sua potenza.

Purdue Pharma si è sempre rifiutata - anche di fronte all'evidenza - di accettare questa semplice spiegazione, mettendo in discussione la propria preparazione farmaceutica e la sua presunta (o millantata) sicurezza.

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23 ottobre 2023 1 23 /10 /ottobre /2023 06:59

"La morte e il morire" di Elisabeth Kubler Ross è stato per me una lettura di fondamentale importanza. I tardi anni Settanta (dalla conclusione dei miei studi di Medicina) e i primi anni anni Ottanta (che hanno coinciso con il conseguimento della specializzazione in Psichiatria e il percorso di formazione psicoanalitica che poi per vicissitudini personali abbandonai) sono stati caratterizzati da una serie di letture extra-curriculari e che derivavano da una mia necessità interiore di elaborare il lutto della improvvisa e traumatica scomparsa di mio padre. Un mio filone di letture, portato avanti in modo febbrile e ossessivo, fu costituito da una serie di saggi sulla morte e sul morire e fu così che, appunto, mi imbattei nel testo della Kubler Ross.

Maurizio Crispi

Elizabeth Kubler Ross, On Death and Dying

Elisabeth Kubler-Ross, medico psichiatra di origine svizzera, viene considerata la fondatrice della psico-tanatologia, ed anche uno dei più noti esponenti dei cosiddetti "death studies" in cui l'oggetto dell'attenzione non è tanto la morte in sé, quanto piuttosto il morire, inteso come "processo", processo affrontato con laica lucidità al di fuori di qualsiasi cornice religiosa pre-costituita.

Il modello elaborato dalla Kubler-Ross è servito a creare una nuova attenzione sui processi del morire (all'interno di categorie psicologiche) dopo che con la perdita di influenza delle organizzazioni religiose e del supporto della fede, il morire era stato in qualche modo de-umanizzato e relagato nel chiuso degli ospedali.

Il modello a cinque fasi del morire, elaborato nel 1970, nel suo studio fondamentale e pioneristico On Death and Dying (La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976. 13ª ed.: 2005) rappresenta tuttora uno insostituibile strumento che permette di capire le dinamiche mentali più frequenti della persona a cui è stata diagnosticata una malattia terminale, ma ha una portata ben più ampia, poiché gli psicoterapeuti hanno constatato che esso è valido anche ogni volta che ci sia da elaborare un lutto (o una perdita), anche se esclusivamente - o prevalentemente - limitato al livello affettivo e/o ideologico.

E' da sottolineare che si tratta di un modello a fasi e non a stadi, per cui le fasi possono anche alternarsi, presentarsi più volte nel corso del tempo, con diversa intensità, e senza un preciso ordine, dato che le emozioni non seguono regole particolari, ma anzi così come si manifestano, così svaniscono, oppure si presentano magari miste e sovrapposte.

Ed ecco di seguito le cinque fasi, descritto dalla Kubler-Ross, con ampi riferimenti a casi di pazienti terminali che lei stessa ebbe modo di seguire nel loro percorso di avvicinamento alla morte.

Fase della negazione o del rifiuto: “Ma è sicuro, dottore, che le analisi sono fatte bene?”, “Non è possibile, si sbaglia!”, “Non ci posso credere” sono le parole più frequenti di fronte alla diagnosi di una patologia organica grave; questa fase è caratterizzata dal fatto che il paziente, usando come meccanismo di difesa il rigetto dell' esame di realtà, ritiene impossibile di avere proprio quella malattia. Molto probabilmente il processo di rifiuto psicotico della verità circa il proprio stato di salute può essere funzionale al malato per proteggerlo da un’eccessiva ansia di morte e per prendersi il tempo necessario per organizzarsi. Con il progredire della malattia tale difesa diventa sempre più debole, a meno che non s’irrigidisca raggiungendo livelli ancor più psicopatologici.
Fase della rabbia: dopo la negazione iniziano a manifestarsi emozioni forti quali rabbia e paura, che esplodono in tutte le direzioni, investendo i familiari, il personale ospedaliero, Dio. La frase più frequente è “perché proprio a me?”. È una fase molto delicata dell’iter psicologico e relazionale del paziente. Rappresenta un momento critico che può essere sia il momento di massima richiesta di aiuto, ma anche il momento del rifiuto, della chiusura e del ritiro in sé.
Fase della contrattazione o del patteggiamento: in questa fase la persona inizia a verificare cosa è in grado di fare, ed in quale progetti può investire la speranza, iniziando una specie di negoziato, che a seconda dei valori personali, può essere instaurato sia con le persone che costituiscono la sfera relazione del paziente, sia con le figure religiose. “se prendo le medicine, crede che potrò vivere fino a…”, “se guarisco, farò…”. In questa fase, la persona riprende il controllo della propria vita, e cerca di riparare il riparabile.

 

Elisabeth Kubler Ross, La morte e il morire, La Cittadella Editrice

Fase della depressione: rappresenta un momento nel quale il paziente inizia a prendere consapevolezza delle perdite che sta subendo o che sta per subire e di solito si manifesta quando la malattia progredisce ed il livello di sofferenza aumenta. Questa fase viene distinta in due tipi di depressione: una reattiva ed una preparatoria. La depressione reattiva è conseguente alla presa di coscienza di quanti aspetti della propria identità, della propria immagine corporea, del proprio potere decisionale e delle proprie relazioni sociali, sono andati persi. La depressione preparatoria ha un aspetto anticipatorio rispetto alle perdite che si stanno per subire. In questa fase della malattia la persona non può più negare la sua condizione di salute, e inizia a prendere coscienza che la ribellione non è possibile, per cui la negazione e la rabbia vengono sostituite da un forte senso di sconfitta. Quanto maggiore è la sensazione dell’imminenza della morte, tanto più probabile è che la persona viva fasi di depressione.
Fase dell’accettazione: quando il paziente ha avuto modo di elaborare quanto sta succedendo intorno a lui, arriva ad un’accettazione della propria condizione ed a una consapevolezza di quanto sta per accadere; durante questa fase possono sempre e comunque essere presenti livelli di rabbia e depressione, che però sono di intensità moderata. In questa fase il paziente tende ad essere silenzioso ed a raccogliersi, inoltre sono frequenti momenti di profonda comunicazione con i familiari e con le persone che gli sono accanto. È il momento dei saluti e della restituzione a chi è stato vicino al paziente.
È il momento del “testamento” e della sistemazione di quanto può essere sistemato, in cui si prende cura dei propri “oggetti” (sia in senso pratico, che in senso psicoanalitico).
La fase dell’accettazione non coincide necessariamente con lo stadio terminale della malattia o con la fase pre-morte, momenti in cui i pazienti possono comunque nuovamente sperimentare diniego, ribellione o depressione.

 

Elisabeth Kubler Ross con Madre Teresa di Calcutta

L'autrice. Elisabeth Kübler-Ross (Zurigo, 8 luglio 1926 – Scottsdale, 24 agosto 2004) è stata una psichiatra svizzera. Viene considerata la fondatrice della psicotanatologia e uno dei più noti esponenti dei death studies.

Dopo gli studi in Svizzera, nel 1958 si è trasferita negli USA dove ha lavorato per molti anni presso l'Ospedale Billings di Chicago. Dalle sue esperienze con i malati terminali ha tratto il libro La morte e il morire pubblicato nel 1969,[1] che ha fatto di lei una vera autorità sull'argomento. Celebre la sua definizione delle cinque fasi di reazione alla prognosi mortale: diniego (denial and isolation), rabbia (anger), negoziazione (bargaining), depressione (depression), accettazione (acceptance). Chiave del suo lavoro è la ricerca del modo corretto di affrontare la sofferenza psichica, oltre che quella fisica.

Usava anche praticare la tecnica dell'uscita fuori da corpo (OBE), che aveva appreso da Robert A. Monroe. Negli anni settanta ha tenuto numerosi seminari e conferenze.


Le sue opere

  • La morte e il morire, Assisi, Cittadella, 1976 (edizione originale 1969). 17ª ed.: 2015. ISBN 88-308-0247-6; ISBN 978-88-308-0247-6.
  • Domande e risposte sulla morte e il morire. Essere vicini a chi è prossimo a morire: alleviarne la sofferenza fisica e morale con rispetto della loro dignità umana, del bisogno di verità e di solidarietà, red./studio redazionale, 1981 (edizione originale 1974).
  • La morte e la vita dopo la morte. La nascita ad una nuova vita, Roma, Edizioni Mediterranee, 1991 (edizione originale 1983). ISBN 88-272-0009-6; ISBN 978-88-272-0009-4. Anteprima limitata. Nuova ed.: La morte e la vita dopo la morte. "Morire è come nascere", 2007. ISBN 88-272-1895-5; ISBN 978-88-272-1895-2. Anteprima limitata.
  • La morte è di vitale importanza. Riflessioni sul passaggio dalla vita alla vita dopo la morte, Gruppo Editoriale Armenia S.p.A., 1997 (edizione originale 1995).
  • Impara a vivere impara a morire. Riflessioni sul senso della vita e sull'importanza della morte, Gruppo Editoriale Armenia S.p.A., 2001 (edizione originale 1995).
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18 ottobre 2023 3 18 /10 /ottobre /2023 06:41
Margherita Nani, L'ospite

Tanto si è scritto sui campi di concentramento, su quelli di sterminio, sulla Shoah, ma sempre Auschwitz si pone all'apice della parabola mortifera del Nazismo e del suo progetto di sterminio.
Auschwitz, per motivi diversi, è divenuto l'emblema della Shoah.
Molte delle testimonianze dei sopravvissuti, a partire - per quel ci riguarda - da quella di Primo Levi, riguardano appunto Auschwitz che produsse al suo interno un ulteriore abominio, poiché vi si creò lo spazio per le turpi gesta di un medico delle SS, Joseph Mengele, sadico e torturatore in nome di una falsa concezione della scienza medica.

Questi operò ad Auschwitz, risultando essere particolarmente attivo ed instancabile nelle efferate selezioni in cui si decideva tra chi poteva vivere ancora per un po' e chi invece doveva essere subito messo a morte, ma - nello stesso tempo - utilizzò quelle selezioni sulle rampe per appropriarsi di coppie di gemelli di tutte le età sui quali compiva poi i suoi atroci esperimenti.

Venne per questo denominato l'Angelo della Morte o anche Dottor Morte: nelle sue attività pseudo-mediche cooptò dei deportati ebrei, rendendoli in qualche complici delle sue atrocità in una sorta di perverso patto per la vita.

Margherita Nani, nella sua opera L'Ospite. Le anatomie di Joseph Mengele (Editore Brioschi, 2019) ci racconta in forma romanzata appunto di Mengele durante il suo esilio brasiliano nella cittadina di Candido Godoi (nel cuore della selva brasiliana e che successivamente venne definita "la cittadina dei gemelli ariani di Joseph Mengele"), dove incontra un'adolescente, Pia, della quale si invaghisce.

Inizia così per lui un percorso di rivisitazione della sua storia personale: ma il suo abominio non può essere cancellato, poiché egli - Mengele - fu l'essenza stessa del Male ed interprete luciferino (e traditore, per questo) della deontologia professionale medica.

Quindi, nel romanzo della Nani, c'è la storia di un impossibile riscatto, in quanto il passato di atrocità e di crudeltà non potrà mai essere cancellato.

Mengele non venne mai catturato né tanto meno processato per i suoi crimini. Ciò è il motivo che ha portato molti narratori e cineasti ad ipotizzare quali siano state le sue possibili traiettorie di vita. Come racconta Oliver Guez, in un'altra narrazione biografica del 2018, La scomparsa di Joseph Mengele (Neri Pozza) Mengele non venne nemmeno sepolto. Le sue ossa vennero usate per scopi di studio come egli aveva fatto con le sue vittime.
 

Il libro di Margherita Nani merita sicuramente di essere letto.

 

(Dal risguardo di copertina) È il 1955 quando a Candido Godoi, nel cuore del Brasile, arriva un tedesco in cerca di una stanza in affitto. La famiglia Souza lo accoglie e Pia, la figlia adolescente, è fin da subito attratta dal fascino di quello straniero riservato e imperscrutabile, che a sua volta non potrà rimanere indifferente alla vitalità e all'innocente purezza della ragazza. Nessuno ha il minimo sospetto che l'ospite è in realtà il medico nazista Josef Mengele. In una serie di flashback e in un alternarsi di realtà storica e finzione letteraria, emerge il ritratto di un uomo la cui malvagità impedisce qualsiasi tentativo di comprensione. E Pia riuscirà a cogliere forse soltanto un frammento della complessa natura del dottor Mengele. In passato aveva tentato di farlo Irene, la moglie tanto innamorata quanto respinta dall'uomo in cui aveva inutilmente cercato tracce di un'anima. E poi Teresa, la ragazza ebrea destinata per anni ad affiancare la morte in persona nel campo di sterminio di Auschwitz. Cosa ha rivelato di sé Josef Mengele a ciascuna di loro? In questa biografia romanzata, l'ospite di Candido Godoi non troverà la giusta punizione, ma nemmeno quella pace tanto a lungo inseguita.

 

(gennaio 2020)

Oliver Guez, La scomparsa di Joseph Mengele, Neri Pozza

Oliver Guez, La scomparsa di Joseph Mengele (nella traduzione di M. Batto), Nei Pozza (Collana Bloom), 2018

 

Finalista al Premio Strega Europeo 2018.

Vincitore del prestigioso Prix Renaudot, La scomparsa di Josef Mengele si immerge fino in fondo nel cuore di tenebra del secolo trascorso, tra vecchi nazisti, agenti del Mossad, dittatori da operetta e attori di un mondo corrotto dal fanatismo.

(soglie del testo) «Olivier Guez si immerge nella realtà storica, la cristallizza nella vita individuale, nella carne e nel sangue di un uomo di cui niente può giustificare l’esistenza». - Le Monde

«Sono pagine secche come uno sparo, senza una parola in più del necessario, per narrare l'orrendo esilio di uno sterminatore». - Andrea Kerbaker, Tuttolibri - La Stampa

«Olivier Guez ci dà con il suo La scomparsa di Josef Mengele il tassello che mancava alla sterminata letteratura su questo infame individuo». - Corrado Augias, il venerdì di Repubblica

«Un’arida ed efficace tessitura letteraria che comincia subito dopo la pagina più buia della storia e pone il lettore di fronte a verità inquietanti». - Francesca Frediani, D la Repubblica

«Olivier Guez ci restituisce, con stile asciutto e senza bisogno di aggettivi, il contrappasso di un uomo braccato e vittima delle sue nevrosi». - Gigi Riva, L’Espresso

Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si affievolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si eclissa e alcuni uomini tornano a propagare il male.

(risguardo di copertina) Buenos Aires, giugno 1949. Nella gigantesca sala della dogana argentina una discreta fetta di Europa in esilio attende di passare il controllo. Sono emigranti, trasandati o vestiti con eleganza, appena sbarcati dai bastimenti dopo una traversata di tre settimane. Tra loro, un uomo che tiene ben strette due valigie e squadra con cura la lunga fila di espatriati. Al doganiere l’uomo mostra un documento di viaggio della Croce Rossa internazionale: Helmut Gregor, altezza 1,74, occhi castano verdi, nato il 6 agosto 1911 a Termeno, o Tramin in tedesco, comune altoatesino, cittadino di nazionalità italiana, cattolico, professione meccanico. Il doganiere ispeziona i bagagli, poi si acciglia di fronte al contenuto della valigia piú piccola: siringhe, quaderni di appunti e di schizzi anatomici, campioni di sangue, vetrini di cellule. Strano, per un meccanico. Chiama il medico di porto, che accorre prontamente. Il meccanico dice di essere un biologo dilettante e il medico, che ha voglia di andare a pranzo, fa cenno al doganiere che può lasciarlo passare. Cosí l’uomo raggiunge il suo santuario argentino, dove lo attendono anni lontanissimi dalla sua vita passata. L’uomo era, infatti, un ingegnere della razza. In una città proibita dall’acre odore di carni e capelli bruciati, circolava un tempo agghindato come un dandy: stivali, guanti, uniforme impeccabili, berretto leggermente inclinato. Con un cenno del frustino sanciva la sorte delle sue vittime, a sinistra la morte immediata, le camere a gas, a destra la morte lenta, i lavori forzati o il suo laboratorio, dove disponeva di uno zoo di bambini cavie per indagare i segreti della gemellarità, produrre superuomini e difendere la razza ariana. Scrupoloso alchimista dell’uomo nuovo, si aspettava, dopo la guerra, di avere una formidabile carriera e la riconoscenza del Reich vittorioso, poiché era… l’angelo della morte, il dottor Josef Mengele.
 

Robert Jay Lifton, I Medici nazisti, Rizzoli

Qualcuno ha detto che "Ippocrate morì ad Auschwitz". Vi è, al riguardo, un lungo saggio scritto da Robert Jay Lifton e fondato su un'enorme mole di dati ricavati da interviste rilasciate direttamente all'autore )e ottenute, in taluni casi, con molte difficoltà, in considerazione della reticenza a raccontare) da coloro che furono medici al tempo del nazismo e dei campi di concentramento: vi si mostrano diffusamente i modi in cui i medici nazisti (e non solo quelli dei campi di concentramento) tradirono il giuramento di Ippocrate. 

Si tratta di I medici nazisti. Storia degli scienziati che divennero i torturatori di Hitler, pubblicato da Rizzoli negli anni Ottanta del secolo scorso e ora riedito (2016)

(risguardo di copertina) "I medici nazisti erano delle belve quando fecero ciò che fecero? O erano degli esseri umani?": è questa la domanda a cui si propone di rispondere questo libro, un'inchiesta sconvolgente che ha aperto una prospettiva inedita sul Terzo Reich e le sue perverse atrocità. Basata su interviste a vittime e carnefici dei lager, la ricerca di Lifton penetra con rara incisività i meccanismi psicologici che hanno reso possibile nei medici nazisti la sostituzione del dovere di guarire con quello di uccidere. Dai ritratti di medici come "l'angelo della morte" Joseph Mengele alla descrizione dei macabri esperimenti compiuti nei campi di sterminio, l'autore ricostruisce con chiarezza il processo che ha portato uomini normali a compiere atti disumani e a legittimare il genocidio degli ebrei come mezzo di risanamento biologico e razziale. Con la sua analisi, Lifton ci ricorda la dura necessità di affiancare alla condanna del male compiuto nei lager l'indagine delle spaventose ragioni che l'hanno reso possibile. Perché solo affrontando la cupa verità che quella nazista fu una crudeltà specificamente umana potremo evitare che essa si ripeta in futuro.

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7 ottobre 2023 6 07 /10 /ottobre /2023 06:36
Suzanne Simard, L'albero madre. Alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta (Finding the Mother Tree, nella traduzione di S. Albesano), Mondadori (Le Strade Blu), 2022

L'albero madre. Alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta (Finding the Mother Tree, nella traduzione di S. Albesano) scritto da Suzanne Simard e pubblicato da Mondadori (Le Strade Blu), nel 2022 è un testo di fondamentale importanza per la comprensione dell'ambiente secondo un paradigma totalmente differente da quello dominante che è fondamentalmente ispirato al pensiero di Darwin, fondata sulla competizione tra specie e sulla sopravvivenza del più adatto e del più forte.
Tale paradigma ci ha indotto a ritenere che, nel mondo animale, vigesse "la legge del più forte" e del più adatto alla sopravvivenza e ci ha spinto a costruire un mondo di relazioni tra esseri viventi basato sulla competizione e sull'accaparramento delle risorse.
Questo pensiero ha del pari permeato il modo di rappresentare il mondo vegetale.
Suzanne Simard con le sue intuizioni e con le sue ricerche pluridecennali (per sostenere le quali ha dovuto duramente lottare contro le idee inamovibili dell'establishment accademico) ha rovesciato questo paradigma, mostrando che gli alberi e le piante (non solo simili, ma anche appartenenti a specie diverse) costruiscono una vasta rete sotterranea in cui i collegamenti avvengono attraverso le terminazioni radicali, ma anche con il supporto di un reticolo di ife fungine (le cosiddette micorrize) che connettono le radici di alberi consimili (o anche appartenenti a specie diverse), facilitando il travaso e la circolazione di principi nutritivi (e non solo: anche di informazioni attraverso sostanze chimiche che possono considerarsi l'equivalenti dei mediatori chimici nel nostro cervello).
Nel corso del tempo, il pensiero della Simard è andato ulteriormente avanti sino ad ipotizzare che gli alberi - visti nel loro insieme - si connettono dando vita ad una sorta di mente collettiva grazie alla quale alcuni alberi sono avvisati tempestivamente (attraverso messaggi chimici veicolati lungo la rete di collegamenti) di noxae che agiscono su di un altro albero-individuo connesso alla rete di radici intercomunicanti con l’intermediazione del reticolo costituito dalle ife fungine, sicché gli altri possano prepararsi producendo enzimi e altre sostanze utili a contrastare l'azione della noxa (in questa specifica circostanza si ha una comunicazione attraverso sostanze chimiche che viaggiano nelle radici inter-connesse).
Sì è sviluppata, pertanto, nel pensiero della Simard l'idea feconda che gli alberi si accudiscano tra di loro e che, in particolar modo, quelli di una stessa specie, possano stabilire tra loro dei rapporti privilegiati mentre con quelli di altre si possono stabilire forme di auto-aiuto sulla base delle diverse peculiarità di ciascuna specie, come - ad esempio - nella interazione tra abete di Douglas e betulla.
Ed è nato così anche il concetto di "Albero Madre" (da cui il titolo del libro) che tiene d'occhio i propri "piccoli", facendoli crescere protetti nel suo cono d'ombra e fornendo alle loro radici nutrienti fondamentali per la loro crescita, sino al punto in cui questi potranno trasformarsi in "madricine" (ovvero "piccole madri"), cominciando a propria volta a dare vita attraverso i primi semi a nuovi alberi.
Il pensiero della Simard s'è sviluppato controcorrente, superando la diffidenza e l'ostilità dei cattedratici arroccati sulla loro idea della competizione darwiniana e della necessità di applicare rigorosamente nei rimboschimenti la tecnica della monocultura.
Le battaglie della Simard sono state portate avanti con intraprendenza e perseverazione e proseguendo nella via di sperimentazioni di lunga durata.
Tutto questo la Simard ci racconta in questo straordinario saggio autobiografico che è, assieme, una pietra miliare in una nuova visone della botanica e nella storia delle idee.
Si legge in modo appassionato anche perché l'autrice non esita a mettere a nudo la sua vita personale e la sua forte determinazione nell'andare avanti.
Il volume è corredato da due inserti di splendide foto a coloro e in bianconero.
Un libro assolutamente da leggere, a mio parere.

Ovviamente leggendo questo testo, è facile fare il collegamento con la teoria esposta da Lovelock e al suo costrutto di Gaia, in cui il nostro pianeta va vissto come un unico e articolato organismo vivente.

Le teorie della Simard hanno profondamente influenzato alcune elaborazioni culturali, nella narrativa come anche nella cinematografia: uno degli esempi più ragguardevoli in questo secondo ambito è il film Avatar, con il suo seguito recente Avatar 2. La via dell'acqua.
 

 

(Soglie del testo) In queste pagine, commoventi e profondamente personali, l'autrice condivide il suo mondo, ricordandoci che la scienza non è un regno separato dalla vita ordinaria, ma profondamente connesso con la nostra umanità.
(risguardo di copertina) Docente alla British Columbia ed ecologista di fama mondiale, Suzanne Simard è una pioniera nel campo della comunicazione e dell'intelligenza delle piante. 
Quando nel 1997 «Nature» pubblicò un suo articolo nel quale dimostrava come gli alberi comunicassero tra loro attraverso un'immensa rete di funghi sottoterra, nessuno poteva immaginare che questa scoperta avrebbe riscritto uno dei paradigmi della teoria evoluzionistica, quello secondo cui è la competizione tra le piante a modellare le foreste. Simard suggeriva infatti che fossero la vicinanza e la collaborazione, la diversità e l'inclusione a garantire la vita, l'ecologia e il benessere dei grandi boschi. Un'intuizione che le indagini condotte nei vent'anni successivi hanno ampiamente confermato. Ora, in queste pagine, commoventi e profondamente personali, l'autrice condivide il suo mondo. Svela i segreti che accompagnano la vita degli alberi come creature sociali, mostrando da vicino come questi modellino il loro comportamento ai bisogni della comunità cui appartengono, come si prendono cura gli uni degli altri. Perché la foresta è un ecosistema dove tutto è connesso, dove le specie si adattano, si sviluppano, crescono, completano il loro ciclo vitale mettendo in comune risorse e informazioni, diffondendo energia, saggezza, protezione. Come un'orchestra impegnata nell'esecuzione di una sinfonia, o come una famiglia che cresce attraverso il dialogo, l'aiuto reciproco, la condivisione di saperi e ricordi. 

Suzanne Simard

Ma soprattutto la Simard racconta come questo intreccio apparentemente miracoloso ruoti attorno a entità potenti e meravigliose, gli Alberi Madre, esemplari più anziani che non solo provvedono al nutrimento degli alberi più giovani, ma come dei veri genitori forniscono loro le «ricette migliori» per mantenersi in salute, contribuendo così, generazione dopo generazione, alla salvaguardia dell'ecosistema. 
L'Albero Madre ci accompagna nel complesso ciclo della vita nella foresta, ricordandoci che la scienza non è un regno separato dalla vita ordinaria, ma profondamente connesso con la nostra umanità.


L’autrice. Suzanne Simard insegna ecologia forestale presso l’Università della British Columbia. Autrice di oltre duecento pubblicazioni scientifiche, dal 2015 è a capo del progetto «Albero Madre». I suoi interventi ai TED Talks sono stati seguiti da più di dieci milioni di persone in tutto il mondo.
La sua è stata una vita di scienziata votata alle ricerche sul campo, nelle quali la Simard ha travasato la sua passione per la natura e le foreste, maturata sin dalla più tenera età

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4 ottobre 2023 3 04 /10 /ottobre /2023 06:01

Anche ai migliori lettori può capitare di incorrere in quello che viene definito blocco del lettore. Si tratta di un momento di stallo, in cui nessun libro sembra destare interesse adatto al proprio mondo interiore: un momento in cui inoltre non si riesce mai a trovare il tempo di dedicarsi alla letteratura.

Come aggirare il blocco del lettore

Una rappresentazione del blocco dello scrittore del pittore russo Leonid Pasternak (1862 – 1945)

L'incubo di molti scrittori è il cosiddetto "writer's block", ovverossia il "blocco della scrittore" (o sindrome della pagina bianca), quando la penna di un autore unon riesce più a tracciare solchi sulla carta e a produrre pagine di senso compiuto. 
Molti scrittori hanno partorito dei romanzi il cui tema centrale è appunto il paventato "blocco dello scrittore", storie parzialmente autobiografiche in cui lo stesso scrittore analizza e descrive qualche crisi di questo tipo che ha sperimentato in passato.

Fa da contraltare al "blocco dello scrittore", il "blocco del lettore", quando un lettore - più o meno prolifico che sia - viene preso da una sorta di inedia letteraria e nessun libro risulta più appetibile al suo palato, anche se gli stimoli alla lettura sono molteplici e nella sua "dispensa" letteraria si sono già accumulati molti volumi che fanno parte della lista delle prossime letture, mentre all'orizzonte si addensano altri volumi che possano entrare nelle capaci riserve del lettore accanito (la "legna da ardere" accumulata in vista di un lungo inverno).

Ebbene, in questi momenti, nulla più riesce a scuotere il lettore vorace dal suo torpore; se ne sta lì, provando e riprovando, magari sentendosi anche in colpa perché non legge e non avanti con il suo programma di lettore o perché non da libero corso all'attività che predilige.

E in questo non ha riposo, non ha pace, si tormenta.

Forse ciò accade perché ci siamo sottoposti ad una pressione eccessiva, riempiendo ogni spazietto del nostro tempo libero con le letture, inventandoci addirittura altri intervalli di tempo da dedicare alla lettura (magari non dormendo la notte).

Ci siamo saturati.

Non si deve insistere, in questi casi.

Il blocco del lettore

Insistere porta all'effetto contrario, come nel caso dell'insonne che vuole dormire, vuole riaddormentarsi ad ogni caso; e, imprigionato com'è nell'ansia da prestazione (che in questo caso si traduce nel "produrre sonno"), non si rilassa a sufficienza perché il Sonno possa sorprenderlo.

Nei confronti della lettura non funziona il "volli, e volli sempre, e fortissimamente volli" di alfieriana memoria, poiché la lettura (a meno che non sia finalizzata all'apprendimento e allo studio) è un'attività che si svolge (o dovrebbe svolgersi) fondamentalmente all'insegna del piacere.

E allora?

Bisogna sapere attendere! Dar tempo alla nostra mente di far sedimentare le scorie letterarie o di metabolizzarle; lasciare che il cervello sovraeccitato e sovraccarico di parole, di frasi memorabili, di trame e di personaggi, si raffreddi e si riposi; facendo sì che, attraverso il riposo si rigeneri (e facendo sì che il sovraccarico di informazioni e le tante, troppe vite che la lettura costante ci trasmette, decantino).

Occorre riesumare quella pratica agricola del maggese, oggi semi-dimenticata per via dello sfruttamento intensivo dei terreni e dell'utilizzo dei fertilizzanti chimici, che era quella di tenere a rotazione un appezzamento di terreno a riposo, "a maggese" come si diceva, per un anno o per periodi di tempo più lunghi: un riposo attivo, in verità, poiché senza la semina di specifiche sementi "produttive" e con la comparsa di specie non domestiche, il terreno si rigenerava e, dopo un intervallo dato,  era fosse nuovamente pronte ad accogliere la semina dell'uomo e a fare sviluppare piante dalla crescita sana e vigorosa.

Snoopy Writer

E dunque: se da lettori (da lettori "golosi" e "ingordi" ci sarebbe da aggiungere) ci dovessimo confrontare con il temuto "blocco del lettore", mettiamoci tranquillamente "a maggese" per il tempo necessario oppure lasciamo sorprenderci da incontri inattesi e dalla scoperta di ciò che non è non è nella nostra lista mentale di letture alla quale tenderemmo ad attenerci scrupolosamente: in questi casi, l'incontro con una lettura che, in altri momenti avremmo snobbato è come l'erba selvatica (a cui ordinariamente si attribuisce poco valore) che cresce e si dispiega in un terreno tenuto a maggese e fungerà sicuramente da fertilizzante naturale e da attivatore.

In fondo è lo stesso tipo di pausa che si richiede quando si termina di leggere un libro che ci ha preso con un'intensità straordinaria e mai vista: in questi casi non ci riesce - a volte - di prendere in mano, subito, un altro libro, perché la nostra mente è ancora sovraccarica di quelle vicende e di quei personaggi.

Il mio amico Geronimo su Facebook ha recentemente sollevato questo tipo di problema nel gruppo "Parliamo di libri, parliamo di noi" e con il suo quesito mi ha dato lo spunto di scrivere queste riflessioni.

 

Snoopy e la lettura

Così scrive su Facebook nel gruppo "Parliamo di libri, parliamo di noi" il mio amico virtuale Geronimo Wolf:

(29 settembre 2023) Da circa due settimane ho una sorta di blocco del lettore.
E ciò per noi lettori è un dramma.
Ho iniziato almeno 5 libri ma dopo qualche pagina li ho mollati, neanche la Patagonia di Chatwin mi ha svegliato dal torpore.
Sono andato in libreria con l'intento di acquistare un libro con caratteri grandi, di semplice lettura e poche pagine, ma son uscito con 'Figlio di Dio' di McCarthy.
Tutto l'opposto [di ciò di cui avrei avuto bisogno].
Anche in questi momenti mi rifugio nei drammi psicologici, sarà un vizio.
A casa ho tirato fuori dalla libreria parte dei libri ancora da leggere che giacciono moribondi da tempo,
Ne ho letto gli incipit senza capire granché, mentre la frustrazione prendeva il sopravvento su questo povero me, lettore sul viale del tramonto.
Tra un ahimè e l'altro, l'occhio mi è caduto su un libro avente le caratteristiche sopra elencate, regalatomi da un'amica per il compleanno di due anni fa.
Un libro che pensavo non avrei mai letto, che invece mi sta regalando momenti piacevoli e che non necessita di molta concentrazione, se non per i nomi giapponesi dei vari personaggi protagonisti.
Ma non si può avere tutto dalla vita.
Vi è mai successo di attraversare un periodo di apatia verso la lettura?
Secondo voi va assecondato o si deve continuare a leggere, anche solo la lista della spesa, i programmi tv e le ricette di nonna Pina?
Grazie, buona serata a tutti.

PS: anche scrivere questo post mi sta costando fatica, quindi vi prego di regalarmi qualche soddisfazione coi vostri commenti.

 

Un campo a maggese

Stare a maggese
Il termine “maggese” – derivante dal mese di maggio – indica una pratica agricola che viene svolta fin dall’antichità in questo mese.

Consiste nel fare una serie di lavorazioni su un terreno povero, tenuto a riposo, con la finalità di prepararlo ad una successiva coltivazione e soprattutto renderlo pronto per la “rotazione delle colture”.

È un terreno ben arato, lavorato con l’erpice – un attrezzo costituito da lame, denti o dischi su telaio – ma lasciato non seminato, a “riposare” per una anno intero o più, senza appunto renderlo produttivo.
Passando dalla metafora rurale alla Psicologia, lo stare o il mettersi a maggese è una capacità fondamentale che è utile acquisire per il governo efficace di noi stessi e della nostra emotività, in occasione di specifici eventi e/o periodi della nostra vita.
La nostra mente, ma in questo caso soprattutto il nostro cuore inteso in senso affettivo/sentimentale, sono infatti paragonabili ad un campo agricolo: non possono subire lo “sfruttamento intensivo” delle risorse ed essere sempre in tensione “produttiva”.

Il rischio è che il “terreno” si inaridisca al punto tale da diventare di fatto improduttivo.

È necessario, oltre che opportuno, equilibrare saggiamente il momento della “coltivazione” con quello del “riposo attivo”, ossia quello di un tempo/spazio personale in cui ci si rigenera, ci si prende cura di sé, ci si ascolta in profondità e si allentano o annullano del tutto gli intensi ritmi della produzione vissuti nelle attività quotidiane e nelle relazioni con gli altri.

Silvio Morganti, nel suo originale libro Le voci del silenzio (Editori Riuniti, Roma, 1994), descrive lo stare a maggese nel modo seguente: “Molte volte ci può capitare di registrare consciamente una pacata riluttanza ad applicarci a qualcosa che avremmo il dovere di fare.

Ci rimproveriamo con severità, ma non riusciamo a costringere la nostra capacità esecutiva al dovere.

Sentiamo che abbiamo bisogno di restare un po’ in ozio.

Il rimanere a maggese è caratterizzato anche da un altro importante aspetto: non lo si può raggiungere nell’isolamento totale e nella deprivazione.

Bisogna acquisire la capacità di essere soli in presenza di qualcuno che ci stia discretamente vicino.

Questo garantisce che il processo psichico rimanga sotto controllo e che così non si trasformi in processo morboso, introspettivo e penosamente tetro”.
Il contadino, anche se non semina, vigila sempre sullo stato del suo campo.
Lo stare a maggese è “sospendere” per un periodo l’attività della nostra mente ma anche del nostro cuore rispetto ad un “oggetto specifico” – una relazione, un amore, il lavoro – per il tempo necessario che serve loro a rigenerarsi.
Possiamo assimilare lo stato di maggese a quello che i Romani chiamavano “Otium” – il ritiro nello spazio privato – in contrapposizione al “Negotium” che indicava invece l’insieme delle attività di scambio e di comunicazione svolte nel Foro o nella pubblica piazza.
L’“Otium” non va confuso con l’“Otiositas” che risponde all’accezione negativa dell’oziare secondo quanto S. Benedetto ha menzionato nella sua Regola.
“C’è un tempo per abbracciare ed un tempo per astenersi dagli abbracci”, troviamo scritto nella Bibbia.
Ecco il motivo fondamentale per cui la strategia de “Il chiodo scaccia chiodo” in amore è molto rischiosa.

Dopo aver vissuto una relazione od una storia importante, soprattutto quando è “finita male”, bisogna lasciare al “terreno dei sentimenti” un tempo per riposarsi e riprendersi, altrimenti lo “sfruttamento intensivo” può anche renderlo “sterile”, vale a dire incapace di generare rapporti soddisfacenti e frutti amorosi saporiti in un tempo successivo.
È necessario una buona dose di coraggio e di equilibrio interiore per astenersi ma il saper aspettare è ripagato dal fatto che il futuro incontro sarà ancora più emozionante e significativo.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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