I romanzi di Guillaume Musso si presentano sempre come un miscuglio inestricabile di realtà e finzione, parte di essi sono costruiti usando materiali miscellanei come ad esempio false notizie di giornale attraverso le quali vengono presentati i suoi personaggi, come se fossero veri e vivessero nella realtà, salvo poi a scoprire che si tratta di artefatti letterari e viceversa.
Da questo punto di vista i suoi romanzi (io delle sue numerose opere già presenti in lingua italiana ne ho già lette quattro con questo), si presentano come dei veri e propri rompicapo oppure come un cubo di Rubik: soltanto alla fine il lettore assiduo potrà il vero bandolo della matassa, quello che consentirà di trovare una spiegazione logica all'artefatto che il lettore e i personaggi si sono trovati a sperimentare.
Allora tutto, per magia, si ricompone con una rivelazione finale: ad alcuni queste elaborate costruzioni potranno anche non piacere. Posso comprenderlo, perché quello che a me appare evidente è che, nell'autore, vi sia un deciso amore per la costruzione, più che per il contenuto.
Per questo stesso motivo, di rado vi è un unico personaggio principale, solitamente ve n'è più di uno e la narrazione si sposta continuamente dall'uno all'altro, talvolta per mostrare al lettore la stessa azione già narrata vista attraverso punti punti di osservazione differenti.
Ne "La ragazza di Carta" (nella traduzione di Laura Serra), edita nel 2013 da Sperling&Kupfer, addirittura, ci confrontiamo con uno scrittore di successo in crisi creativa a causa di problemi esistenziali che, improvvisamente si trova a doversi confrontare - prima con incredulità, poi con un coinvolgimento emozionale via via crescente - con uno dei suoi personaggi che sembra essere letteralmente scivolato fuori dalla pagina scritta, la "ragazza di carta" del titolo, appunto.
A me è piaciuto. C'è da dire che i romanzi di Musso sembrano far parte tutti di un'unica grande tessitura narrativa, che dà al lettore che vi si accosta la stessa impressione di un'enorme arazzo, affollato di personaggi e di storie. Quando si legge uno dei romanzi, ci si ritrova a guardare soltanto una parte dell'arazzo, ma tutto il resto rimane sulla sfondo e supporta con il suo ordito, la parte che stiamo esaminando. Poi, quando si passa ad un romanzo differente dello stesso Musso, l'impressione è che si rimane sempre dentro quell'arazzo, anche se in una sua porzione diversa.
(Quarta di copertina) In piena crisi di ispirazione, solo e senza un soldo, lo scrittore Tom Boyde non riesce a terminare il suo ultimo romanzo. Proprio quando tutto sembra perduto, nella sua vita entra Billie. Misteriosa e bellissima, compare all'improvviso in una notte di pioggia, con una storia incredibile da raccontare. Gli dice infatti di essere la protagonista del suo romanzo, caduta nel mondo reale da una frase che lui ha lasciato in sospeso. Se ora Tom non riprenderà a scrivere, lei morirà. Sembra assurdo, eppure... Eppure, Tom le crede. Perché è già follemente innamorato. Insieme Billie e Tom affronteranno un'avventura straordinaria, in cui nulla è ciò che sembra. E scopriranno che la vita, a volte, può essere un gioco pericoloso...
L'autore. Guillaume Musso, romanziere francese. Figlio di una bibliotecaria da cui ha ereditato l’amore per i libri, scrive di notte, nei fine settimana oppure in treno, mentre si reca a Parigi dalla compagna.
Il suo romanzo d’esordio L’uomo che credeva di non avere più tempo (Sonzogno, 2005) è un bestseller internazionale, e altrettanto successo ha avuto La donna che non poteva essere qui (Sonzogno, 2006).
Ha pubblicato diversi altri romanzi, dei quali si citano: Chi ama torna sempre indietro (Sonzogno, 2007), Quando si ama non scende mai la notte (Rizzoli, 2008), La ragazza di carta (Sperling & Kupfer, 2011), Il richiamo dell'angelo (Sperling & Kupfer, 2012), Sette anni senza di te (Sperling & Kupfer, 2013), Aspettando domani (Sperling & Kupfer, 2014), Central Park (Bompiani, 2015), La ragazza di Brooklyn (La nave di Teseo, 2016), Un appartamento a Parigi (La nave di Teseo, 2017), L'istante presente (La nave di Teseo, 2019).
A quanto pare, all'esordio della pandemia, una scrittrice, Rivka Galchen, (già pubblicata in traduzione italiana con due opere da Piemme e da Einaudi) si è rivolta al New York Times Magazine, con l'intenzione di consigliare ai lettori il Decameron di Boccaccio, per fornire loro uno strumento narrativo che fosse utile a superare le ristrettezze e le ansietà del primo lockdown. L'idea ha entusiasmato la redazione del New York Times Magazine, i cui redattori si sono chiesti: perché non creare un Decameron del XXI secolo con racconti originali, scritti durante la quarantena?
Ed è stato così che si è creato un movimento di richieste ad autori di tutto il mondo perché producessero, ciascuno, un racconto assolutamente inedito. Ed è così che è nata questa antologia contenente 29 racconti, provenienti un po' da tutti gli angoli del pianeta in una sorta di ecumene narrativa. Anche l'Italia vi è rappresentata con un racconto del nostro Paolo Giordano: si tratta di Decameron Project. Ventinove nuovi racconti della pandemia selezionati dagli editor del New York Times Magazine, pubblicato nel 2021 da NNE Editore.
É un'opera che non sfiora, ovviamente, la complessità e l'imponenza di quella di Boccaccio, ma che contiene voci e testimonianze corali relativamente all'impegno mentale ed emozionale indotto dalla pandemia e dalle sue sfide. Non c’è dubbio che i racconti più belli siano quelli in cui non si parla esplicitamente della pandemia, ma dove la si indovina soltanto nella filigrana nella trama narrativa.
Ognuno leggendo questa antologia troverà i suoi racconti preferiti, ma avrà anche modo - come succede con tutte le opere collettive - di conoscere autori di cui mai prima aveva sentito parlare, benché magari fossero già tradotti nella propria lingua.
La mia lettura si è sviluppata nell'arco di tre mesi (dal giugno al settembre 2022), quindi con un ritmo di circa due-tre racconti a settimana.
Comunque lo si voglia giudicare, questo libro rimarrà come un documento vivo e palpitante sui tempi della pandemia. E di ciò si parla ampiamente in un capitolo finale che fa da epilogo al testo.
(Risguardo di copertina) Questo libro è per il tempo, che non si è fermato nel 2020: è stato raccontato, si è fatto memoria e sogno, e ha ripreso a scorrere.
Quando la pandemia di Covid-19 è scoppiata, sembrava impossibile da raccontare. Come tradurre, in parole che non fossero pura cronaca, l'angoscia e il senso di impotenza, la paura e il dolore del mondo intero? Eppure, era già accaduto in passato: lo aveva fatto Giovanni Boccaccio nel Decameron, una raccolta di novelle scritte durante l'epidemia di peste che nel Trecento aveva colpito tutta l'Europa. Quasi settecento anni dopo, nel marzo 2020 gli editor del New York Times Magazine hanno raccolto quell'eredità e lanciato il Decameron Project, e grandi autori come Margaret Atwood, Edwidge Danticat, Charles Yu, Paolo Giordano, Liz Moore e Yiyun Li hanno deciso di mandare le loro parole oltre i confini delle proprie case, oltre lo specchio del proprio mondo. Le loro storie non parlano della pandemia, ma ne sono intrise; non spiegano, ma evocano con accenti, stili, lingue diverse le convivenze forzate e le solitudini, le piccole allegrie e le grandi nostalgie, le città improvvisamente spente e le strade che diventano miraggi di libertà. Sono testimonianze di un tempo straordinario, lo sguardo di un'umanità unita dagli stessi pensieri e sentimenti, in grado di costruire una memoria comune e una comune visione del domani.
"Questo libro è per il tempo, che non si è fermato nel 2020: è stato raccontato, si è fatto memoria e sogno, e ha ripreso a scorrere".
Hanno detto:
«In queste ventinove scene c'è tutto ciò che proviamo. Ci sono lo sconcerto, l'incredulità, la solitudine, il timore che chi ci circonda e persino i nostri cari si facciano veicolo del contagio, lo sguardo da nostalgici voyeur alle nostre vite "di prima" e alle vie degli altri che ci paiono, persino ora, più desiderabili e perfette grazie al filtro Gingham di Instagram. Ma c'è pure qualcos'altro, che solo l'arte ci regala. Il distacco dalla cronaca minuta, unico orizzonte rimasto alle nostre giornate, e il vero esercizio di guardarsi dentro» - Lara Crinò, Robinson
«I racconti, presi nel loro insieme, trasmettono una strana sensazione rassicurante, che si potrebbe sintetizzare così: qualunque cosa io stia passando in questa pandemia, mi trovo nella stessa situazione di tutti gli altri abitanti della Terra. Forse perché si fonda su una sorta di salto empatico la narrativa può ottenere questo effetto in un modo che è precluso al giornalismo» - Kevin Power, Irish Independent
Racconti di: Margaret Atwood, Mona Awad, Matthew Baker, Mia Couto, Edwidge Danticat, Esi Edugyan, Julián Fuks, Paolo Giordano, Uzodinma Iweala, Etgar Keret, Rachel Kushner, Laila Lalami, Victor LaValle, Yiyun Li, Dinaw Mengestu, David Mitchell, Liz Moore, Dina Nayeri, Téa Obreht, Andrew O'Hagan, Tommy Orange, Karen Russell, Kamila Shamsie, Leïla Slimani, Rivers Solomon, Colm Tóibín, John Wray, Charles Yu, Alejandro Zambra Traduzioni di: Ada Arduino, Chiara Baffa, Katia Bagnoli, Stefano Bortolussi, Guido Calza, Giuseppina Cavallo, Gaja Cenciarelli, Fabio Cremonesi, Serena Daniele, Velia February, Giovanna Granato, Gioia Guerzoni, Maria Nicola, Laura Noulian, Silvia Rota Sperti, Alessandra Scomponi, Sara Sullam.
Pelle di foca (titolo originale: Sealskin, nella traduzione di S. Castoldi) di Su Bristow e pubblicato Edizioni e/o, nel 2019, è un romanzo fondato su un'antica e radicata leggenda scozzese e ne possiede intatta l'ossatura (si veda in calce al post).
Secondo la versione più comune di tale leggenda, le selkie una volta all'anno, in occasione della luna piena, questi esseri fantastici possono dismettere la loro pelle di foca per danzare nude nella luce della luna. Ed è in questa condizione che possono essere catturate da un uomo, poiché private della pelle di foca non possono mettersi in salvo in mare.
Se una selkie in forma umana si attarda rispetto alle altre può essere sedotta da un umano e a quel punto rimarrà con lui e gli darà dei figli, rimanendo tuttavia con la segreta nostalgia per il mare perduto sepolta in fondo al suo cuore.
Le selkie in forma umana acquisiscono rapidamente tutte le competenze per vivere tra gli umani, ma nello stesso tempo conservano delle qualità che attengono alla loro vera natura, come ad esempio una speciale capacità empatica o quella anche di produrre delle guarigioni con il tocco della propria mano.
Se dovessero ritrovare la pelle perduta e tornare in mare, però sarebbe a loro preclusa di tornare a terra, dismettendo di nuovo la propria pelle.
Questa è, in sostanza, la storia che la brava scrittrice sviluppa nel proprio romanzo. Donald, pescatore di un piccolo villaggio della Scozia, irretisce una selkie e la porta con sé, dopo aver nascosto la sua pelle di foca.
Mairhi (assumerà questo nome) viene accolta dalla comunità che rimane ignara della sua natura, impara tutte le consuetudini umane, apprende il linguaggio, acquisisce delle competenze, genera due figli.
C'è tutta la storia di una piccola comunità chiusa e della rete di relazioni che si intersecano, mentre un individuo "altro" viene progressivamente accolto, con il superamento di sospetti e di pregiudizi.
Sarà una vita felice quella di Mairhi e di Donald, anche se lui e la madre saranno sempre oberati dal senso di colpa per non aver dato a Mairhi alcuna possibilità di scelta tra il rimanere umana e il tornare ad essere foca. E tutto questo sino ad un inaspettato finale che è in fondo una forma di emendamento rispetto alla colpa originaria.
E' stata decisamente una bella lettura e mi sento di consigliarla.
Una lettura lenta che ho assaporato nel corso dei mesi.
Questo romanzo è il centesimo libro letto per intero nel corso del 2022
(Risguardo di copertina) Questa commovente storia d’amore è ispirata a una tradizionale leggenda scozzese. Donald, un giovane pescatore, si ritrova una notte di colpo sconvolto quando si imbatte in un gruppo di donne dall’aspetto esotico che danzano sulla spiaggia illuminate dalla luce della luna. Si tratta delle selkies, delle foche che una volta l’anno abbandonano la loro pelle animale e diventano umane per poche ore. Sopraffatto dalla loro bellezza e dall’incantesimo, Donald ne rapisce una di nome Mairhi: sarà una decisione che determinerà il suo futuro. Dopo essere tornato a casa nel suo piccolo villaggio scozzese, dovrà assumersi la responsabilità di ciò che ha fatto. Naturalmente l’accoglienza da parte del villaggio di pescatori non sarà semplice e i due innamorati dovranno affrontare molti ostacoli e insidie, mentre lei, pur innamorata di Donald, continuerà a sentire fortissimo il richiamo del mare. Un romanzo che cattura dall’inizio alla fine, una favola senza tempo che ci parla della responsabilità dell’amore e della forza interiore necessaria per redimersi dagli errori.
Hanno detto
«Il talento dell'autrice sta nella delicatezza di fare della leggenda un canto universale» - Tuttolibri
«Questo romanzo mostra che il cambiamento e la crescita sono possibili, anche ai margini della società» - Internazionale
«Il romanzo dell’autrice – basato su un amatissimo rito scozzese – va oltre la semplice narrazione fantastica, supera i potenti messaggi della favolistica: l’accettazione del diverso, la forza dei legami familiari, della comunità, della redenzione» - La Lettura
L'autrice. Su Bristow ha vinto l’Exeter Novel Prize per Pelle di foca nel 2013, poi pubblicato in Italia da E/O nel 2019. È un’esperta di medicina erboristica e autrice anche di libri di saggistica e racconti.
(da wikipedia) In Celtic and Norse mythology, selkies (also spelled silkies, sylkies, selchies) or selkie folk (Scots: selkie fowk) meaning 'seal folk'[a] are mythological beings capable of therianthropy, changing from seal to human form by shedding their skin. They are found in folktales and mythology originating from the Northern Isles of Scotland.
The folktales frequently revolve around female selkies being coerced into relationships with humans by someone stealing and hiding their sealskin, thus exhibiting the tale motif of the swan maiden type.
There are counterparts in Faroese and Icelandic folklore that speak of seal-women and seal-skin.
The Scots language word selkie is diminutive for selch which strictly speaking means 'grey seal' (Halichoerus grypus). Alternate spellings for the diminutive include: selky, seilkie, sejlki, silkie, silkey, saelkie, sylkie.
A typical folk-tale is that of a man who steals a female selkie's skin, finds her naked on the sea shore, and compels her to become his wife. But the wife will spend her time in captivity longing for the sea, her true home, and will often be seen gazing longingly at the ocean. She may bear several children by her human husband, but once she discovers her skin, she will immediately return to the sea and abandon the children she loved. Sometimes, one of her children discovers or knows the whereabouts of the skin. Sometimes it is revealed she already had a first husband of her own kind. Although in some children's story versions, the selkie revisits her family on land once a year, in the typical folktale she is never seen again by them. In one version, the selkie wife was never seen again (at least in human form) by the family, but the children would witness a large seal approach them and "greet" them plaintively.
What is a selkie? Of all the creatures of Scottish folklore, none attracts more attention than the selkie. Selkie stories have been retold in novels, films and in self-help books...
Ho sognato che partecipavo ad un piccolo banchetto in onore della Regina Elisabetta
Di questo consesso io ero l’animatore indiscusso
Ero il narratore di cunti
Ero il comico scoppiettante
Ero il trasformista, alla maniera di Ridolini
Ero l’escapista come il mitico Houdini
Ero il Giullare,
il Jolly sardonico
ed anche il Jack-in-the-box
Ero istrionico e scoppiettante
Infrangevo spesso l’etichetta,
suscitando sovente imbarazzo nei compunti servitori,
ma sovente ilarità nei commensali
che attorniavano il tavolo per accorrere ad ogni piccola esigenza di ciascuno dei commensali
Per esempio, facevo spesso cadere i calici dell’acqua e del vino, rovesciandone il contenuto sulla fine tovaglia
Ero seduto a capotavola, anche in ciò in contrasto con l’etichetta
La Regina, invece, era stata fatta accomodare, al centro di uno dei lati lunghi,
attorniata da pomposi personaggi, forse i suoi dignitari
Raccontavo storie e cercavo di catturare l’attenzione della Regina
A volte ci riuscivo, altre no
Barcollavo, ma non mollavo
Non demordevo
Tiravo fuori sempre nuovo argomenti con caleidoscopica foga
Gesticolavo con altrettanta foga
Cos' facendo, rovesciavo i calici dell’acqua e del vino
Infine, riuscivo a catturare la totale attenzione di Sua Maestà,
quando soddisfacevo una mia curiosità a lungo covata,
ponendole la domanda se avesse mai letto “La sovrana lettrice” di Alan Bennett,
un romanzo breve in cui entra in scena lei stessa
nei panni d’una curiosa e ironica lettrice
La regina fa un sobrio cenno della testa, come a dire Sì,
ma il suo sguardo è sorridente e compiaciuto
Io allora comincio a raccontare la trama di quel piccolo romanzo, ma faccio confusione
Non la ricordo più tanto bene
Mi sfuggono molti dettagli
Mi impappino e tartaglio
Devo infrusare e addobbare
Ma ciò nondimeno la Regina è più che soddisfatta e contenta
ch'io abbia ricordato al consesso quest’opera
Mi guarda adesso con interesse e attenzione, ed anche con simpatia,
mi par di capire
C’è qualcosa che brilla nel fondo dei suoi occhi
Non temo questa Regina
Non é una folle isterica come la Rossa Regina di Cuori di Alice
Con questa Regina si può parlare e dialogare
Penso che potrei diventare il suo narrator di cunti preferito
E poi non ricordo altro
Mi sono svegliato
ed ero nel mio letto
giù nel Kansas,
proprio lì a Kansas City!
————————————
La Regina diventò di porpora per la rabbia e, dopo di averla fissata selvaggiamente come una bestia feroce, gridò: – Tagliatele la testa, subito!…
– Siete matta! – rispose Alice a voce alta e con fermezza; e la Regina tacque.
Il Re mise la mano sul braccio della Regina, e disse timidamente: – Rifletti, cara mia, è una
bambina
Alan Bennett, La sovrana lettrice (nella traduzione di Monica Pavani), Adelphi, 2007
(Nota di copertina) A una cena ufficiale, circostanza che generalmente non si presta a un disinvolto scambio di idee, la regina d'Inghilterra chiede al presidente francese se ha mai letto Jean Genet. Ora, se il personaggio pubblico noto per avere emesso, nella sua carriera, il minor numero di parole arrischia una domanda del genere, qualcosa deve essere successo. Qualcosa in effetti è successo, qualcosa di semplice, ma dalle conseguenze incalcolabili: per un puro accidente, la sovrana ha scoperto la lettura di quegli oggetti strani che sono i libri, non può più farne a meno e cerca di trasmettere il virus a chiunque incontri sul suo cammino. Con quali effetti sul suo entourage, sui suoi sudditi, sui servizi di security e soprattutto sui suoi lettori lo scoprirà solo chi arriverà all'ultima pagina, anzi all'ultima riga.
La lettura di L'isola delle anime scritto da Johanna Holmström autrice finlandese di madre lingua svedese (nella traduzione di Valeria Gorla) e pubblicato da Neri Pozza, (2019) è stata lenta e laboriosa, a piccoli passi, un capitolo per volta,, ma meritevole di esser fatta. E direi anche istruttiva. Ho finito di leggerlo qualche tempo fa, ma me ne sono ricordato perché ho fatto dei parallelismi con un romanzo che sto leggendo proprio in questi giorni che è "Il Ballo delle pazze" della francese Victoria Mas (Edizioni e/o), che è ambientato nella Salpetrière, il grande manicomio parigino che fu lo scenario delle straordinarie teorie e performance ipnotiche del grande Jean-Martin Charcot. In entrambi i romanzi (con personaggi fiction ma fondati su fatti veri, maggiormente quelli de "L'isola delle anime") si parla del grande internamento manicomiale e dei suoi effetti. L'internamento manicomiale, per alcuni versi, sin dai primordi ha riguardato prevalentemente le donne, quelle che non si allineavano, quelle che mostravano interessi specifici ritenuti non adeguati alla condizione femminile, quelle che mostravano di voler percorrere vie diverse da quelle tracciate dagli uomini, ma anche le donne che si prostituivano e che davano, per così dire, spettacolo, per non parlare di quelle che si rendevano colpevoli di crimini, alcuni dei quali scaturivano anch'essi da una condizione femminile, vessata e condannata a non poter allungare mai lo sguardo oltre l'orizzonte visibile. Qui . l'autrice ripercorre - a partire da documenti originali e da epistolari che sono entrati nella struttura di un saggio di una Jutta Ahalbeck-Rehn sulla storia dell'ospedale per malate di mente di Själö dal 1889 al 1944, nato in una sperduta isoletta della Finlandia, attraverso decenni, dalla fine dell'Ottocento (la narrazione parte nel 1891) sino alla chiusura della struttura.
Scrive l'autrice rivolgendosi alla Jutta, autrice di quel saggio: "Senza il tuo studio sulle donne di Själö questo libro non esisterebbe. Il tuo accurato lavoro d'archivio, il tuo incessante scavo e l'instancabile ricerca unite ad un atteggiamento di empatia nei confronti di ciò che hai trovato sono un esempio di quando la ricerca supera il confine della scienza pura e distaccata e si trasforma in conoscenza di ciò che significa essere persone. Grazie per il tuo magico testo. Grazie per aver trovato queste donne e averle affidate alle mie cure" (ib., p. 363, Ringraziamenti dell'autrice).
I personaggi tutti femminili (all'infuori del medico che negli anni ha in carico l'intero presidio e che decide della vita e della durata dell'internamento) che l'autrice tratteggia con delicatezza e verosimiglianza sono sia le degenti/pazienti/recluse sia il personale di sorveglianza e di "cura" tutto femminile. Siamo di fronte nell'un caso e nell'altro ad un unico dolente internamento, ad unica reclusione a vita.
La storia scorre al di fuori, le stagioni si succedono, ma sull'isola che è appunto "l'isola delle anime" del titolo nulla cambia, tutto si ripete immutabile secondo uno schema fisso e del mondo all'esterno, dei grandi accadimenti storici che vi si susseguono giungono soltanto deboli barbagli.
E' facile entrarvi ed essere internate (il più delle volte per decisione di altri), ma uscirne è una cosa complicatissima, praticamente irrealizzabile, salvo che non si verifichino alcune fortunate circostanze tali da sancire per alcune il ritorno nel mondo.
(Risguardi di copertina) Finlandia, 1891. Una notte, ai primi di ottobre, una barchetta scivola sull’acqua nera del fiume Aura. A bordo, Kristina, una giovane contadina, rema controcorrente per riportare a casa i suoi due bambini raggomitolati sul fondo dell’imbarcazione. Le mani dolenti e le labbra imperlate di sudore, rientra a casa stanchissima e si addormenta in fretta. Solo il giorno dopo arriva, terribile e impietosa, la consapevolezza del crimine commesso: durante il tragitto ha calato nell’acqua densa e scura i suoi due piccoli, come fossero zavorra di cui liberarsi. La giovane donna viene mandata su un’isoletta al limite estremo dell’arcipelago, dove si erge un edificio, un blocco in stile liberty con lo steccato che corre tutt’attorno e gli spessi muri di pietra che trasudano freddo. È Själö, un manicomio per donne ritenute incurabili. Un luogo di reclusione da cui in poche se ne vanno, dopo esservi entrate. Dopo quarant’anni l’edificio è ancora lì ad accogliere altre donne «incurabili»: Martha, Karin, Gretel e Olga. Sfilano davanti agli occhi di Sigrid, l’infermiera, la «nuova». I capelli cadono intorno ai piedi in lunghi festoni e poi vengono spazzati via, si apre la cartella clinica della paziente, ma non c’è alcuna cura, solo la custodia. Un giorno arriva Elli, una giovane donna che, con la sua imprevedibilità, porta scompiglio tra le mura di Själö. Nella casa di correzione dove era stata rinchiusa in seguito alla condanna per furti ripetuti, vagabondaggio, offesa al pudore, violenza, rapina, minacce e possesso di arma da taglio, aveva aggredito le altre detenute senza preavviso. Mordeva, hanno detto, e graffiava. L’infermiera Sigrid diventa il legame tra Kristina ed Elli, tra il vecchio e il nuovo. Ma, fuori dalle mura di Själö la guerra infuria in Europa e presto toccherà le coste dell’isola di Åbo.
Magnifico romanzo che muove da un luogo realmente esistito, L’isola delle anime è una commovente storia sul prezzo che le donne devono pagare per la loro libertà. Un inno alla solidarietà, all’amore e alla speranza.
Potente ed evocativo, un romanzo sulla follia, la colpa e la redenzione.
Hanno detto (quarta di copertina)
«Ecco come si scrive un vero romanzo. L'equilibrio tra luce e ombre rende L'isola delle anime un romanzo perfetto in tutti i suoi aspetti» - Svenska Dagbladet
«Questo è sicuramente uno dei romanzi da leggere quest'anno» - Vasabladet
L'autrice. Johanna Holmström, è nata nel 1981 e cresciuta a Sibbo sulla costa meridionale della Finlandia di lingua svedese. Dal suo debutto a 22 anni, ha vinto il premio letterario Svenska Dagbladet e il premio letterario svedese YLE. Nel 2019 esce L'isola delle anime (Neri Pozza).
Sull'ospedale dell'isola di Sjalo è stato realizzato nel 2020 anche un documentario che, immersivo e onirico, esplora la storia e il presente dell’isola baltica Själö “l’isola delle anime”.
Nel 1619, il re Gustavo Adolfo, che trasformò la Svezia in un impero, ordinò la costruzione di un ospedale per i lebbrosi sull’isola. Negli anni successivi, gli anziani, i disabili e i malati incurabili finirono in questo ospedale che, sempre di più, divenne un posto per le donne con problemi mentali – quelle “senza lo spirito di Dio”, come citano i documenti dell’epoca. Nel 1755, l’ospedale fu definitivamente trasformato in un manicomio fino al 1962. Oggi l’ospedale ospita il Centro di ricerca ambientale dell’Università di Turku. In un’estetica sommessa e molto nordica, il regista lascia parlare il vuoto.
Il film lo si trova su Netflix
Nel 2019, la casa editrice e/o ha pubblicato in traduzione Il ballo delle pazze di Victoria Mas, che in Francia - sempre in quell'anno era stato un vero "caso" letterario.
(Risguardo di copertina) Fine Ottocento. Nel famoso ospedale psichiatrico della Salpêtrière, diretto dall'illustre dottor Charcot (uno dei maestri di Freud), prende piede uno strano esperimento: un ballo in maschera dove la Parigi-bene può "incontrare" e vedere le pazienti del manicomio al suono dei valzer e delle polka. Parigi, 1885. A fine Ottocento l'ospedale della Salpêtrière è né più né meno che un manicomio femminile. Certo, le internate non sono più tenute in catene come nel Seicento, vengono chiamate "isteriche" e curate con l'ipnosi dall'illustre dottor Charcot, ma sono comunque strettamente sorvegliate, tagliate fuori da ogni contatto con l'esterno e sottoposte a esperimenti azzardati e impietosi. Alla Salpêtrière si entra e non si esce. In realtà buona parte delle cosiddette alienate sono donne scomode, rifiutate, che le loro famiglie abbandonano in ospedale per sbarazzarsene. Alla Salpêtrière si incontrano: Louise, adolescente figlia del popolo, finita lì in seguito a terribili vicissitudini che hanno sconvolto la sua giovane vita; Eugénie, signorina di buona famiglia allontanata dai suoi perché troppo bizzarra e anticonformista; Geneviève, la capoinfermiera rigida e severa, convinta della superiorità della scienza su tutto. E poi c'è Thérèse, la decana delle internate, molto più saggia che pazza, una specie di madre per le più giovani. Benché molto diverse, tutte hanno chiara una cosa: la loro sorte è stata decisa dagli uomini, dallo strapotere che gli uomini hanno sulle donne. A sconvolgere e trasformare la loro vita sarà il "ballo delle pazze", ossia il ballo mascherato che si tiene ogni anno alla Salpêtrière e a cui viene invitata la crème di Parigi. In quell'occasione, mascherarsi farà cadere le maschere...
Hanno detto
«Con questo ballo in cui le "pazze" sembrano le uniche in grado di sentire davvero Victoria Mas consegna al lettore un romanzo intenso e fiero, che obbliga a spostare i limiti tra normalità e follia e insieme a riconsiderare quanto caro, nel corso della storia, è stato il prezzo pagato dalle donne per essere legittimate a esistere» - Andrea Marcolongo, Tuttolibri
«La casa editrice E/O pubblica quello che è stato il caso letterario del 2019 in Francia, Il ballo delle pazze di Victoria Mas, giovane autrice dalla bellezza molto francese al suo esordio nel romanzo, dopo aver lavorato nella scrittura per il cinema» - Eleonora Barbieri, il Giornale
«Ciascuna delle protagoniste per sopravvivere, nel manicomio, si aggrappa alle proprie convinzioni, anche se sono verità dolorose e difficili da condividere. Ma nella serata surreale del ballo in maschera, quando follia e razionalità sembrano non avere più confini, tutto può diventare finalmente possibile» - Patrizia Violi, Corriere della Sera
Nemesi (Einaudi, Collana Supercoralli, 2011, nella traduzione di Norman Gobetti) è l'ultimo romanzo scritto e pubblicato da Philip Roth, dopo un percorso travagliato che vide (scrivo a braccio) ben 12 stesure, dopo un approfondito lavoro di documentazione. Dopo questo romanzo che ebbe un'accoglienza di critica e di pubblico piuttosto travagliata (come del resto molte delle opere di Roth), l'autore dichiarò che riteneva conclusa la sua esperienza di scrittore.
Mentre la II Guerra Mondiale volge al termine una epidemia di Polio imperversa nella città di Newark, con il suo carico devastante di bambini e adulti infettati, di morti e di esiti drammatici.
Bucky Cantor, insegnante di educazione fisica e istruttore al campo estivo di Newark è al centro della vicenda.
Si occupa dei ragazzini che gli sono affidati, gestendo con carisma il loro tempo, li istruisce nelle pratiche sportive.
L'epidemia comincia a colpire duro gli allievi del campo sportivo che gli è affidato e lui si sente sconfortato, non comprendendo come una simile tragedia possa abbattersi su ragazzini inermi ed innocenti, ed inveisce contro un dio che permette una simile cosa. Nello stesso tempo comincia a perdere fiducia e a provare paura per se stesso (non dimentichiamo che lo steso Presidente degli USA F. D. Roosevelt venne colpito dalla polio e ne guarì, pur con degli esiti, testimonianza vivente che la Polio non risparmiava nessuno).
Cantor, con un percorso tormentato, decide di accettare un ingaggio come istruttore al campo estivo delle Pocono Mountains dove già lavora la sua fidanzata Marcia (e decide di compiere un simile passo dopo un colloquio corroborante con il padre di lei, medico e rappresentante della razionalismo scientifico).
La seconda parte del breve romanzo si svolge in questo idillico scenario, dove Cantor, pur assillato dal senso di colpa per aver abbandonato i "suoi" ragazzi" trova subito un suo brillante inserimento e un suo seguito.
La vita nelle Pocono Mountains sembra idilliaca, senonché anche qui - a lacerare la quiete pastorale di un mondo apparentemente incontaminato - arriva la Polio, con violenza e drammaticità.
Cantor si convince di essere il responsabile di ciò, di essere stato lui l'inconsapevole untore, nel momento in cui - dopo il comparire dei primi casi nel campo estivo - lui stesso si ammala e inizia il suo percorso di recupero lento ed incompleto con esiti di paralisi che ne faranno un uomo del tutto diverso da quello che era stato e da quello che avrebbe potuto essere.
Cantor vivrà il resto della sua vita, immerso nel senso di colpa, in una vita a scartamento ridotto, rinunciando a qualunque scelta esistenziale gioiosa e alla speranza.
Ho trovato questo romanzo splendido, anche per la rappresentazione metafisica del tormento interiore di Cantor che finisce con l'apparire come un moderno Giobbe, vessato da un dio ingiusto e terrifico.
I fatti sono reali, anche se se sono dislocati in un anno in cui non vi fu alcuna epidemia di Polio, ma prendendo come riferimento l'anno in cui si svolge la vicenda, negli USA ve ne furono due (una antecedente ed una cronologicamente successiva) con effetti devastanti in termini di morti e di esiti in paralisi.
E' un libro che fa riflettere, indubbiamente. E credo che vada letto, specie in tempi post-pandemici.
Il romanzo è l'ultimo del terzo volume delle opere complete di Philip Roth, pubblicato nei Meridiani Mondadori, ed è corredato di un'ampia nota esplicativa (un vero e proprio saggio esegetico) che spiega molte cose del testo e lo fa comprendere anche nella sua profondità.
(Dal risguardo di copertina) Quasi fosse una discesa nel proprio sottosuolo, Philip Roth racconta la giovinezza a Newark: il vigore dei vent’anni e l’immediata disillusione arrivata con la guerra e la malattia. Lo fa come sempre senza compiangere né se stesso né gli altri, anzi facendo emergere con forza tutte le contraddizioni dell’epoca e i suoi violenti tumulti.
Al centro di "Nemesi" c'è un animatore di campo giochi vigoroso e solerte, Bucky Cantor, lanciatore di giavellotto e sollevatore di pesi ventitreenne che si dedica anima e corpo ai suoi ragazzi e vive con frustrazione l'esclusione dal teatro bellico a fianco dei suoi contemporanei a causa di un difetto della vista. Ponendo l'accento sui dilemmi che dilaniano Cantor e sulla realtà quotidiana cui l'animatore deve far fronte quando nell'estate del 1944 la polio comincia a falcidiare anche il suo campo giochi, Roth ci guida fra le più piccole sfaccettature di ogni emozione che una simile pestilenza può far scaturire: paura, panico, rabbia, confusione, sofferenza e dolore. Spostandosi fra le strade torride e maleodoranti di una Newark sotto assedio e l'immacolato campo estivo per ragazzi di Indian Hill, sulle vette delle Pocono Mountains - la cui "fresca aria montana era monda d'ogni sostanza inquinante" -, "Nemesi" mette in scena un uomo di polso e sani principi che, armato delle migliori intenzioni, combatte la sua guerra privata contro l'epidemia. Roth è di una tenera esattezza nel delineare ogni passaggio della discesa di Cantor verso la catastrofe, e non è meno esatto nel descrivere la condizione infantile.
L'autore. Philip Roth (Newark 1933 - Manhattan 2018) è stato uno scrittore statunitense. Figlio di ebrei piccolo-borghesi rigorosamente osservanti, ha fatto oggetto della sua narrativa la condizione ebraica, proiettata nel contesto urbano dell’America dell’opulenza. I suoi personaggi appaiono vanamente tesi a liberarsi delle memorie etniche e familiari per immergersi nell’oblio dell’attualità americana: di qui la violenta carica comica, ironica o grottesca, che investe anche le loro angosce.
Dopo un primo, felice romanzo breve, Addio, Columbus (1959), e i meno incisivi Lasciarsi andare (1962) e Quando Lucy era buona (1967), Roth ha ottenuto la celebrità con Lamento di Portnoy (1969).
Dopo Il grande romanzo americano (1973, riedito in Italia da Einaudi nel 2014), attacco al mito del baseball, in Professore di desiderio (1978) e Lo scrittore fantasma (1979) Roth è tornato al tema dell’erotismo.
Con Pastorale americana (1997, con cui vince il Premio Pulitzer), Ho sposato un comunista (1998) e Il complotto contro l’America (2004), romanzi che hanno suscitato accesi dibattiti, Roth passa dall’allegoria alla cronaca letteraria della storia nazionale. L’animale morente (2001) – in cui torna Kepesh, protagonista di Professore di desiderio –, La macchia umana (2000, trasposto in film da Benton nel 2003) e Everyman (2007) sono riflessioni più intimiste che, attraverso l’osservazione del corpo e del suo implacabile deterioramento, svolgono la metafora dell’ineluttibilità del destino e dello scorrere rapido del tempo.
Tra i suoi ultimi libri: Il fantasma esce di scena (2007), Indignazione (2008), L'umiliazione (2009), La controvita (2010), Nemesi (2011), La mia vita di uomo (1974; nuova traduzione Einaudi 2011).
Lo stesso Einaudi (il suo editore di riferimento italiano) ha pubblicato anche I fatti. Autobiografia di un romanziere (2013).
Philip Roth è stato tra i favoriti per l'assegnazione del Nobel per la Letteratura.
Debito di morte, scritto da Stephen Leather (The Bombmaker, nella traduzione di A. Collitto), pubblicato da Piemme è una lettura decisamente coinvolgente con una trama che non dà respiro. E' il secondo romanzo di Stephen Leather che mi ritrovo a leggere. Il primo è stato "Il sotterraneo", l'opera che ha decretato il suo successo improvviso e travolgente, soprattutto nel mercato degli e-book e di Amazon Kindle. Ci sono arrivato dopo aver visto un film "The Chinaman", tratto dal suo secondo, omonimo romanzo. Alcuni dicono che Leather sia bravissimo nel raccontare trame di terrorismo al cardiopalmo, caratterizzate da un abilissimo montaggio, pari soltanto a Frederick Forsyth e a Robert Harris. E, in effetti, così mi è parso leggendo questo "Debito di morte", il cui titolo è in lingua originale - ben più calzante - "The Bombmaker". La trama è semplice e complessa al tempo stesso. Andrea Hayes, felicemente sposata e mamma di una bambina Katie, si ritrova in una situazione disperata. La figlioletta viene rapita, ma i rapitori - anziché chiedere un riscatto in denaro - le chiedono di collaborare con loro nella costruzione di un potente ordigno esplosivo nel cuore della City londinese. Ma perchè accade ciò? Questo l'autore ce lo rivela sin dalle prime pagine, dopo qualche ora dal rapimento: Andrea ha alle sue spalle un passato tragico e scomodo che ha cercato di dimenticare, assumendo un nuovo nome e creandosi una famiglia; ed era stata nella sua precedente vita un'abile fabbricante di bombe. Si attiva una corsa contro il tempo. In maniera del tutto fortuita, all'interno di un meccanismo che avrebbe dovuto essere perfetto ed inviolabile (quello del rapimento di Katie e del terribile dilemma cui viene sottoposta Andie), delle forze contrarie a quello che sembra un percorso segnato ed ineluttabile. Il romanzo è suddiviso in lunghi capitoli, ciascuno dei quali corrisponde ad un giorno per un totale di sette giorni. e, nell'arco temporale di ciascuna giornata, il lettore viene condotto in continui cambi di scenario, all'interno di un montaggio quasi cinematografico. Scritto molto bene, la traduzione di Alfredo Colitto è - come sempre - accurata. L'unico neo sono le numerose sigle e acronimi che per noi italiani sono, di primo acchito, difficilmente comprensibili, a meno di non fare ogni volta un'apposita ricerca su Google. Non avrebbero guastato delle piccole note redazionali in calce alla pagina. Un'altra notazione può riguardare la tipologia di trama e lo stile narrativo: Questo romanzo lo si può collocare tra quelle prove narrative che sono estremamente contigue alla cinematografia odierna, soprattutto nel territorio vasto e variegato del genere definibile come action thriller. Quindi si tratta, a tutti gli effetti, di sceneggiature che, anziché prendere la via della rappresentazione per immagini, rimangono confinate nel territorio della pagina scritta. Opere come questa si possono considerare "vera" letteratura? Non saprei. Ma sento di poter dire con certezza, anche per mia esperienza diretta, che queste letture sono un'efficacissima forma di intrattenimento. E noi sappiamo che la letteratura, nelle sue molteplici espressioni, deve anche saper essere "intrattenimento".
#actionnovel #thriller #narrativastraniera
(Risguardo di copertina) Dieci anni fa, Andrea Hayes era la migliore nel suo campo. Era giovane, era bella, era spietata. Costruiva bombe per conto dell'IRA: ordigni micidiali che seminavano morte e distruzione. Poi tutto è cambiato, i rimorsi e la paura hanno avuto il sopravvento. Andrea si è trasferita da Dublino a Londra, si è sposata, ha una figlia, è felice... Ma proprio quando tutto sembra dimenticato, il passato torna a bussare alla sua porta. Katie, la figlia adorata, viene rapita; e per riaverla Andrea dovrà sottostare al ricatto crudele di uomini che dimostrano di sapere davvero troppe cose di lei.
L’autore. Stephen Leather è uno scrittore britannico di romanzi thriller, le cui opere sono pubblicate dalla Hodder & Stoughton. Ha lavorato per programmi televisivi come London's Burning, The Knock, e la serie Murder in Mind della BBC.
Leather è uno degli autori più venduti su Amazon Kindle, ed è stato il secondo autore britannico più venduto a livello mondiale su Kindle nel 2011.
Quell'anno ha venduto 500.000 eBook, ed è stato nominato come una delle 100 persone più influenti nel mondo editoriale britannico dalla rivista The Bookseller.
I romanzi di Leather spesso trattano temi di criminalità, prigionia, il servizio militare e il terrorismo. In genere sono ambientati a Londra e nell'Estremo Oriente. All'inizio della sua carriera come scrittore, Leather scriveva thriller indipendenti, ma in seguito ha iniziato a sviluppare i suoi personaggi e le trame attraverso la serie, con generi leggermente diversi. Il personaggio principale di una serie, Dan “Spider” Shepherd è apparso in dieci dei thriller di Leather. Un'altra serie, "Jack Nightingale", parla di un ex negoziatore che diventa un investigatore privato.
Nel breve romanzo di Grazia Verasani, Come la pioggia sul cellophane (Universale Economica Feltrinelli già edito da Marsilio, 2021) i lettori si troveranno di fronte alla sesta indagine di Giorgia Cantini, investigatrice privata e titolare d’una piccola e scalcagnata agenzia ereditata dal padre ex-maresciallo dei CC.
Per chi non dovesse conoscere questo personaggio letterario la trama di questo romanzo è un’ottima porta d’ingresso alle avventure investigative di Giorgia Cantini che è sempre tormentato, a partire dalla tragica scomparsa per suicidio della sorella Ada, evento che in qualche modo l’ha segnata per sempre.
Dotata di una mente acuta, Giorgia Cantini non è certo un individuo squadrato e tetragono, poiché si trova frequentemente a vivere amori sfortunati, mentre sbevazza e fuma sigarette a più non posso, ma ha anche la fortuna di avere attorno a sé amici affezionati e fidati che, in alcuni casi, possono esserle di conforto nei momenti di maggiore e più intenso tormento esistenziale.
Questa volta, nel pieno di una crisi affettivaq (è stata appena lasciata dal suo amoroso) riceve un mandato da Furio Salvadei, cantante di successo, anche lui in crisi profonda, per attivare un'indagine su una stalker che, da qualche tempo, lo perseguita e non gli dà pace.
Con molta fatica, ma anche favorita da alcune circostanze fortuite, la Giorgia Cantini si troverà di fronte a qualcosa di più complesso ed inaspettato che sfocia in un delitto di cui si dovrà venire a capo: in fondo, si tratta di una vicenda investigativa segnata da una specie di serendipità.
Sì, alla fine siamo di fronte ad un plot di stampo hitchcockiano (s'intravede in filigrana qualcosa di "La donna che visse due volte"), sullo sfondo affascinante di una Bologna piovosa malinconica e autunnale.
Posso dire di avere letto quasi tutte le opere di Grazia Verasani, che solitamente non mi hanno deluso.
Ed anche questo mi è piaciuto!
(Soglie del testo) Sotto le piogge persistenti dell'autunno alle porte, con la mente un po' annebbiata dai drink delle sue sere solitarie e dalla nostalgia di Bruni, Giorgia si perderà in un'indagine che è un continuo gioco di specchi e sovrapposizioni, e in una vita filtrata da schermi, computer, telefoni, tv, dove i sentimenti diventano mere proiezioni.
«La schiena di Adele Fossan, fasciata in una giacca nera stretta in vita, grondava di dignità offesa, come se restare dritta fosse una forma di riscatto imperiale; e anche se, coi suoi stivaletti dal tacco alto, pareva camminare sulle uova, sapeva perfettamente dov’era diretta.»
L'autore. Giorgia Cantini, investigatrice privata a capo di una piccola agenzia di periferia nella Chinatown di Bologna, è appena stata lasciata da Luca Bruni, dirigente della questura e capo della Omicidi, e sfoga la propria tristezza ubriacandosi nei bar e nei locali della città. È in questa fase non facile della sua vita che incappa in Furio Salvadei, un affascinante cantautore alla soglia dei cinquant'anni che sembra avere tutte le fortune – fama, ricchezza, talento –, ma che al momento è un musicista in piena crisi artistica ed esistenziale. Furio infatti abusa di alcol, è deluso dal mondo discografico, ed è sotto stress a causa di una donna, Adele, una fan insistente che gli dà il tormento seguendolo ovunque e pressandolo con telefonate e messaggi. Furio incarica Giorgia di pedinare la sua persecutrice e di provare a riportarla alla ragione prima che si trasformi in una stalker violenta. Il problema è che Adele dimostrerà di essere un vero e proprio enigma. Sotto le piogge persistenti dell'autunno alle porte, con la mente un po' annebbiata dai drink delle sue sere solitarie e dalla nostalgia di Bruni, Giorgia si perderà in un'indagine che è un continuo gioco di specchi e sovrapposizioni, e in una vita filtrata da schermi, computer, telefoni, tv, dove i sentimenti diventano mere proiezioni. Quella realtà fittizia che, come un involucro di cellofan, protegge dagli urti è la stessa che separa i personaggi di Grazia Verasani dal contatto nudo con le cose: sembrano tutti alla ricerca di una vertigine che li faccia sentire più vivi, ma che, inevitabilmente, non li dispensa dal rischio di precipitare.
Questa in sintesi la vicenda tratteggiata in nell'ultimo romanzo di Tana French (Il segugio, titolo originale: The Searcher, nella traduzione di Alfredo Colitto), pubblicato da Einaudi (Stile Libero Big), nel 2022
Cal Hooper, che è stato poliziotto a Chicago per venticinque anni, dopo il tracollo familiare, ha abbandonato gli Stati Uniti per ritirarsi a vivere una vita tranquilla in una remota località dell'Irlanda dove ha acquistato un piccolo cottage abbandonato da tempo e un vasto terreno attorno.
Sta appena cominciando ad ambientarsi, mentre è intento di buona lena a restaurare il piccolo immobile, quando viene contattato da un ragazzino del posto, che di nome fa Trey e gli chiede di aiutarlo a capire cosa sia accaduto al fratello maggiore Brendan, scomparso da alcuni mesi.
Pur con molta reticenza all'inizio, Cal accetta questo mandato, anche se, ovviamente, dovrà operare in maniera informale e con molta cautela.
Ci sarà un avvicinamento progressivo alla verità, il tutto inframezzato da descrizioni bucoliche e da una fitta serie di scambi che Cal intrattiene con le persone del posto che deve ancora conoscere per farsi a sua volta conoscere e "riconoscere".
Il tutto assume quasi le caratteristiche di un piccolo studio antropologico sul modo in cui uno "straniero" (e non è sufficiente parlare la stessa lingua madre per non essere considerato lo "straniero") viene assimilato in una piccola comunità semi-rurale piuttosto lontana da una grande città e dai suoi flussi. Come Cal scoprirà a sue spese, questo luogo non è esattamente il luogo bucolico che egli aveva creduto, il luogo del ritorno alla natura e alla pace dal frastuono delle grandi metropoli. Ed un luogo in cui serpeggiano tensioni e violenze che, facilitate da alcune circostanze, possono emergere in forma impetuosa e distruttiva, sconvolgendo una superficiale patina di bonomia.
Per alcuni versi, l'ambientazione di questo romanzo mi ha fatto pensare a Cane di paglia, il magistrale film di Sam Peckinpah del 1971 (con Dustin Hoffmann nei panni del protagonista), anche se le narrazioni divergono: ma vi è il tema della violenza in una piccola realtà che le accomuna.
Questo percorso (e, con lui, di Trey) non sarà però semplice e lineare; e porterà anche a delle complicazioni. Ma alla fine Cal riuscirà a trovare un bandolo della matassa: e sarà una verità che qui non possiamo dire per evitare di fare da spoiler.
Ma la cosa importante è che Cal, attraverso questo percorso che sarà anche doloroso per lui, dovrà fare alla fine la scelta giusta, cosa che non ha mai fatto prima causando non pochi danni alle sue relazioni interpersonali e al tracollo della sua famiglia. Una scelta che, questa volta, privilegerà le relazioni e gli affetti, anziché la rigida adesione al codice del poliziotto, il cui intento principale è consegnare il/i colpevole/i alla giustizia.
Il segugio è sicuramente un romanzo di difficile catalogazione: è un poliziesco senza esserlo, è un thriller senza esserlo d anche un mistery senza esserlo. Sfugge alle tipizzazioni e alle catalogazioni e ciò che rimane al di là di esse è la narrazione allo stato puro con tutte le sue complesse intessiture.
Letto e condiviso ad alta voce. La lettura ad alta voce è un processo più lento, ma è sempre estremamente più piacevole, anche perché durante la lettura possono accendersi discussioni e conversazioni, oltre che scambi di opinioni sui comportamenti dei diversi personaggi.
(Quarta di copertina) Il fratello di Trey è scomparso, ma lui non si dà per vinto, e quando in città arriva Cal Hooper, un ex poliziotto di Chicago, il ragazzino vede in lui la speranza di trovare finalmente la verità.
Dopo venticinque anni di pattuglie sulle strade di Chicago, Cal Hooper ha trovato un cottage sotto una distesa di stelle selvagge. Adesso la cosa più rischiosa che fa è bere due pinte la sera al pub. Ma qualcuno tra la gente del posto lo tiene d'occhio e il suo idillio ha le ore contate. All'inizio, sentendo i rumori in giardino, ha pensato a un animale. Poi, una sera, dopo aver trovato le impronte delle scarpe da ginnastica, lo ha sorpreso. È poco più di un bambino, eppure ostinato e testardo come un adulto. In quello sputo di città persa nella campagna irlandese, è corsa voce che Cal era un poliziotto e adesso Trey è venuto in cerca di aiuto e non ne vuol sapere di lasciarlo in pace. Suo fratello è scomparso da mesi ma lui non ci crede che se ne sia semplicemente andato di casa. È successo qualcosa. Qualcosa che, Cal lo sa già, macchierà per sempre il suo paradiso.
Hanno detto
«Una storia piena di suspense su un sogno di libertà destinato a infrangersi… un capolavoro». - The Washington Post
«Leggetelo la prima volta per la trama, la seconda per la bellezza della scrittura». - The New York Times
«Un equilibrio tra comfort, malattia e isolamento.». - Observer
L'autrice. Tana French, cresciuta tra Irlanda, Italia e Malawi, vive a Dublino. Scrittrice ha pubblicato diversi romanzi tra cui: Nel bosco (2009), La somiglianza (2011) e I luoghi infedeli usciti per Mondadori. Per Einaudi ha pubblicato L'intruso (2018 e 2019), Il collegio (2019) e Il rifugio (2020).
Quella contenuta nell'esile ma denso libricino scritto dal francese Sylvain Coher, dal titolo Vincere a Roma. L'indimenticabile impresa di Abebe Bikila (Vaincre à Rome, nella traduzione di Marco Lapenna), 66thand2nd, 2020, è una narrazione emozionante e paradigmatica che tutti dovrebbero leggere non soltanto gli sportivi e gli appassionati e praticanti di maratona. Sabato 10 settembre 1960 si celebrò, alla chiusura dei Giochi Olimpici di Roma (XVII Olimpiade moderna), la Maratona (che, a parte sporadiche eccezioni riguardante alcuni sport minori) solitamente è la gara che, da sempre, chiude i giochi, poiché dei Giochi Olimpici moderni voluti da De Coubertin è icona e ne incarna l'essenza eroica.
In quella circostanza si assistette ad un'impresa d'eccezione quando uno sconosciuto atleta africano, l'etiope Abebe Bikila, infrangendo tutte le previsioni, vinse quella gara, per di più correndo a piedi scalzi. Nessuno avrebbe potuto immaginare una cosa simile, che un umile pastore etiope (nelle sue origini) aggiudicasse al suo paese l'ambito oro olimpico, in una corsa che assunse grazie a lui un valore altamente simbolico, collocando Bikila tra i "miti" della maratona moderna e non solo (basti pensare alla figura di Dorando Pietri e, andando ancora più indietro all'emerodromo Fidippide, che morì per annunciare una vittoria, e alla cui impresa venne "inventata" la Maratona moderna).
Il racconto dell'impresa di Abebe è in soggettiva e il lettore s'immerge nel paesaggio della corsa che è, insieme, esterno ed interiore.
Abebe dialoga di continuo con la "Piccola Voce" che è il suo interlocutore interno ma anche con tanti personaggi della sua vita che vanno e vengono, entrando in scena e poi allontanandosi dal suo scenario mentale, per poi rientrarci: la moglie lontana, il suo allenatore che è il suo "piccolo padre", l'imperatore d'Etiopia che lui rappresenta: sì, perché la sua corsa umile che poi diventerà vittoriosa, sarà anche una benevola e non astiosa rivalsa (e, d'altra parte, Abebe fa parte della Guardia Imperiale): vincere a Roma sarà dunque per lui un modo per rendere un servigio alla sua nazione, sconfitta ed umiliata dagli Italiani nel lontano 1936. Ma nei suoi pensieri e nelle sue emozioni c'è anche Dio, al quale spesso si rivolge:
"Abbiamo profili tagliati per fendere l'aria, perchè sospesi nell'aria passiamo due terzi del tempo di una corsa: nella corsa come in cielo aspiriamo alla sospensione. Sospesi in eterno tra il ponte e l'acqua, in quell'intervallo impossibile troveremo il momento di rivolgerci alla misericordia di Dio. E' così." (p.41)
E poi: "Corro per fare guerra alla guerra e Dio si manifesta sempre a quelli che corrono: sentiamo la Sua fronte contro la schiena e Sue mani bollenti sotto le ascelle. E quando c'è lui a trainarci con la Sua mano possente ci accorgiamo di correre molto più veloce: è la prova assoluta della Sua presenza. La forza mentale non è come un'illuminazione, la forza mentale è dappertutto fin nei più piccoli dettagli, afferma la Piccola Voce." (p. 44)
Perché Abebe volle correre a piedi scalzi? Alcuni vollero attribuire a questa sua decisione un valore dimostrativo, come se egli - rinunciando alle scarpette - avesse voluto esprimere il suo orgoglio per le proprie origini di pastore degli altipiani e di tutti gli Etiopi come lui che, di umili origini, camminano e corrono scalzi. In realtà, molto prosaicamente, Abebe ci dice (nei suoi pensieri) che, pochi momenti prima dello start, se le leva perchè ritiene che siano troppo nuove e teme di potersi fare male, pregiudicando la sua corsa. In questa decisione sarà aiutato dall'avere - per via delle sue vicissitudini di vita - una suola callosa sotto i piedi, formatasi negli anni della sua giovinezza.
Il racconto si articola in brevi capitoli che vanno dal momento della partenza (il km zero) e che procedono di cinque chilometri in cinque chilometri, esattamente come fanno i podisti moderni quando vogliono ripercorrere le tappe della propria performance, più quegli ultimi due chilometri e le due centinaia di metri che, furono aggiunti alla distanza originaria in occasione dei Giochi Olimpici di Londra del 1908. In ciascun capitolo vi è il continuo contraltare tra la voce di un cronista lontano che, senza esserci, cerca di seguire l'evento in diretta e darne conto agli ascoltatori e quella silenziosa di Abebe che scorre come un fiume di libere associazioni oscillanti di continuo tra le esigenze di un capillare contatto con la realtà ed una condizione sognante. Tra le due voci, la voce quasi fastidiosa del radiocronista che nulla sembra comprendere e quella narrante (che è rappresentata dallo stesso Abebe, impegnato nella corsa) si percepisce una distanza abissale tra chi il gesto sportivo lo vede solo dall'esterno e da chi lo vive con ogni fibra del suo corpo, con la propria mente pensante e con le proprie emozioni.
L'arrivo di Abebe sotto l'arco di Costantino fu così repentino che gli stessi addetti ai lavori, giudici di gara, giornalisti, fotografi e video-operatori, cronisti non capirono subito che egli fosse arrivato in testa, anche perché- poco di tagliare la linea del traguardo - venne sommerso da un nugolo di fotografi, impazienti di immortalarlo.
Appena al di là del traguardo, Abebe stupì tutto il mondo poiché cominciò subito a fare - come un soldato disciplinato - gli esercizi di allungamento, accompagnati da saltelli vari, lasciando immaginare che avesse ancora dentro di sè una grande riserva di energia a cui poteva dar libro sfogo con tale esuberanza.
Il mondo si commosse ed esultò: non solo era stato battuto il precedente primato olimpico, ma anche - soprattutto - la Maratona da allora non sarebbe più stata la stessa, perché con Bikila come pioniere si sarebbero fatta strada in questa disciplina gli Africani e, in essa, avrebbero stabilito un predominio quasi assoluto.
"...ogni passo è singolo, perché si produce una volta soltanto. Nell'enumerazione di tutti i passi si forma la storia della corsa, il suo sviluppo e la sua conclusione. Corriamo sul margine di un cerchio - senza soluzione di continuità. L'immensità del mondo è una burla smisurata, mantenere l'ordine resta il nostro principale intento: Mille maratone fanno il giro completo del pianeta." (p.77)
Abebe Bikila rimarrà per sempre nella storia, nella storia dello sport, nella storia della corsa di lunga durata e nell'immaginario collettivo, come colui che vinse una maratona correndo a piedi scalzi. Non a caso in un film di qualche anno successivo (il famoso "Il Maratoneta" di Johb Schlesinger, ispirato al romanzo omonimo di William Goldman) nella mente del protagonista (Dustin Hoffmann nel film) ricorrono di continuo, mentre corre, le immagini iconiche di quell'impresa epocale.
(Risguardo di copertina) Roma, sabato 10 settembre 1960, penultimo giorno dei Giochi olimpici e ultimo del calendario etiope. Sulla linea di partenza i corridori si scaldano in attesa del colpo di pistola che sancirà l'inizio della maratona. Tra loro un atleta sconosciuto, serio in volto e taciturno. È scalzo. Il suo nome è Abebe Bikila, caporale della guardia reale del negus. È lì per vincere, e vincerà. Due ore, quindici minuti e sedici secondi di corsa sui sampietrini della via Sacra, l'asfalto rovente della Colombo, il basolato di via Appia, accarezzando a piedi nudi il selciato della Città Eterna come fosse la terra dei suoi altopiani. «Vincere a Roma sarà come vincere mille volte» aveva detto l'imperatore Hailé Selassié, una rivalsa a ventiquattro anni dalla presa di Addis Abeba a opera delle truppe di Mussolini. E così Abebe corre, misura il ritmo delle falcate, risparmia il fiato, ascolta i muscoli che vibrano e mordono il freno in attesa dello sprint finale. Ad accompagnarlo la sagoma sfocata del grande Emil Zátopek e un uomo in carne e ossa, pettorale 185, misterioso contendente con cui percorrerà appaiato più di venticinque chilometri per poi staccarlo nel finale e andare da solo verso il trionfo. Un oro olimpico che incorona non soltanto Abebe ma l'intero continente africano in un'epoca in cui gli imperi coloniali si stanno sfaldando e si alza forte il grido dell'indipendenza. Accordando la sua prosa al passo instancabile del maratoneta, Sylvain Coher s'insinua nella mente di Bikila sotto forma di Piccola Voce e racconta dall'interno una delle imprese più memorabili nella storia dello sport: l'epopea del corridore scalzo, la nascita di una leggenda.
Alcune notizie su Abebe (da wikipedia). Abebe Bikila partecipò altre due volte ai giochi olimpici, a Città del Messico (1964) dove vinse nuovamente l'Oro, migliorando il suo primato e a Tokyo (1968), dove tuttavia non si classificò però al traguardo. Oltre alle partecipazioni olimpiche conquistò l'oro di maratona in numerose competizioni internzionali di prestigio, anche in questo antesignano dei corridori kenioti che si affacciarono alla ribalta internazionale nei decenni successivi.
Nel 1969 Bikila, alla guida della sua auto nei pressi di Addis Abeba, ebbe un incidente, che lo lasciò paralizzato dalla vita in giù. Nonostante le cure e l'interesse internazionale, non riuscì più a camminare. Pur impossibilitato all'uso degli arti inferiori, non perse la forza di continuare a gareggiare: nel tiro con l'arco, nel tennis da tavolo e perfino in una gara di corsa di slitte (in Norvegia). Partecipò inoltre ai Giochi paralimpici di Heidelberg nel 1972 nel tiro con l'arco. Insomma, in questo percorso sfortunato, continuò ad applicare la filosofia del "un passo alla volta", facendo prova di resilienza e di determinazione.
Ma il suo destino era segnato: morì l'anno successivo, il 25 ottobre 1973, i 41 anni non acora compiuti, per un'emorragia cerebrale.
L'autore. Sylvain Coher (1971) vive tra Parigi e Nantes. Dopo gli studi in Lettere moderne, ha lavorato come istruttore di vela, sorvegliante in un convitto, libraio, editore, muratore. Dal 2002 si dedica interamente alla scrittura. Tra le sue opere Carénage (2011), Nord-nord-ouest (2015), che gli è valso numerosi premi, e Trois cantates policières (2015). Durante i giorni trascorsi come borsista residente a Villa Medici tra il 2005 e il 2006 sono nate le prime pagine di Vincere a Roma.
Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre
armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro
intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno
nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).
Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?
La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...
Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...
Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e
poi quattro e via discorrendo....
Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a
fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.
E quindi ora eccomi qua.
E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.