E' accaduto al 24° Salone Internazionale Libro di Torino, da poco concluso (12-16 maggio 2011), al Lingotto Fiere.
Un sedicente Autore si aggirava per gli stand, presentandosi come uno scrittore emergente e chiedendo (e ottenendo) pareri sulla sua opera prima di narrativa, presentata appunta alla Fiera del Libro (ma in realtà un libro mai scritto e non esistente, dunque).
Gli interpellati - molti dei quali affermati critici (come Sgarbi, ad esempio), personaggi dello spettacolo (Serena Dandini, per citare una delle persone contattate) e scrittori (Giacarlo De Cataldo e altri), pur di non dover riconoscere di non aver mai sentito parlare del libro in questione e di non averlo mai avuto tra le mani, hanno improvvisato pareri come se, invece, lo conoscessero di prima mano, pareri il più delle volte favorevoli, altri invece tiepidi ed esitanti.
Cosa del resto non particolarmente fuori dal normale e non tale da dare nell'ochio, i diversi momenti di questo multiforme approccio da parte del sedicente scrittore, sono stati registrati integralmente con l'ausilio di una handycam e, alla conclusione della Fiera, spezzoni dei filmati sono stati diffusi nei media, nei notiziari e nei programmi di approfondimento, con l'accompagnamento della notizia che il libro di cui era richiesto il parere era un non-libro mai stampato, dunque.
Una sorta di cattiva ed imbarazzante candid camera che, nelle intenzioni di quelli che hanno architettato questa piccola beffa, era finalizzata a denunciare provocatoriamente i meccanismi del consenso e del successo di testi letterari, di narrativa, critica e saggistica, fondati sul sentito dire, su simpatie e antipatie personali, stroncature violente o esaltazioni, piuttosto che su di una lettura di prima mano dell'opera stessa, tale da evidenziarne pregi e difetti.
Questa beffa, di cui mi è capitato di vedere alcuni stralci filmati in un notiziario televisivo RAI, mi ha fatto pensare ad un esperimento sociologico condotto negli Stati Uniti negli anni Sessanta, sui meccanismi che generano diagnosi psichiatriche "pesanti" e attivano meccanismi di emarginazione. Alcune "cavie" (volontari e, in genere, studenti), reclutate per l'esperimento e appositamente istruite, si presentavano alle istituzioni psichiatriche prescelte, dichiarandosi in stato confusionale e fingendo disturbi dell'orientamento e della memoria. Avvenuto il ricovero per la necessaria osservazione alla formulazione di una diagnosi e allo scioglimento della prognosi, se ne stavano semplicemente in disparte, senza parlare troppo e limitandosi a prendere appunti su di un taccuino. Spesso bastavano questi elementi schiettamente comportamentali, ma di per sè non espressione di una psicopatologia specifica, ad indurre i medici a formulare delle diagnosi di "schizofrenia". La diagnosi diveniva estremamente vincolante e i volontari, benchè richiedessero di essere dimessi, a quel punto - sulla base di quella diagnosi - venivano trattenuti nel nosocomio: per loro dimissione, fu ogni volta necessario l'intervento degli sperimentatori che resero esplicito ai medici il protocollo del loro esperimento e l'identità dei volontari.
La diagnosi psichiatrica, grave e vincolante, venne formulata dai medici sulla base del pregiudizio e di "griglie" osservative rigide e pre-definite: vi è, secondo me, un'analogia con la piccola beffa messa punto in occasione della Fiera del Libro che ha mostrato appunto come un parere favorevole, "vincolante" rispetto al generarsi di un consenso più esteso, può essere espresso senza alcuna conoscenza del "fatto" cui ci si riferisce, ma in maniera puramente virtuale.