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17 febbraio 2014 1 17 /02 /febbraio /2014 06:37

Tintin, un personaggio-icona della mia infanzia rivive nel film di Spielberg(Maurizio Crispi) Con grande piacere e gusto, mi p capitato di vedere - in ritardo rispetto all'uscita nelle sale cinematografiche Le avventure di Tintin - Il segreto dell'Unicorno (The Adventures of Tintin) che è un film del 2011 diretto da Steven Spielberg e prodotto, tra gli altri, da Peter Jackson (nonché regista della seconda unità). Il film è anche interessante sotto il profilo tecnico poiché venne girato interamente mediante la tecnica detta motion capture o mocap.

Il lungometraggio spielberghiano è basato su tre albi di Hergé, il disegnatore belga creatore delle strisce di Tintin, che sono Il granchio d'oro, Il segreto del Liocorno e Il tesoro di Rakham il Rosso.
Nel film, inoltre, è presente una scena tratta da Tintin nel paese dell'oro nero
Per i premi Oscar 2012 John Williams è stato candidato per la Migliore colonna sonora.

È sulle pagine del Petit Vingtième, supplemento del quotidiano cattolico Le Vingtième Siècle, che partì - nella forma di strisscie disegnate (quindi, a puntate) la grande avventura di Tintin, l'intrepido reporter belga con la faccia da bambino (e che rimase come il più noto - ed amato - personaggio di Hergé) e del suo autore.
Ben presto le storie di Tintin cominciarono ad avere vita editoriale propria e furono pubblciati in forma di albi di grande formato, con vignette policrome.

Più della metà di questi furono realizzati prima della fine della seconda guerra mondiale.
Vi furono ombre sulla carriera di Hergé e sulla sua levatura umana. Infatti, la sua presenza professionale nell'ambiente della destra cattolica estrema (esplicita area di riferimento del giornale per cui lavorava) e la successiva collaborazione col quotidiano Le Soir nel periodo in cui era sotto il controllo diretto degli invasori nazisti, costarono a Hergé, dopo la guerra, il periodo peggiore della sua vita.
Venne accusato di collaborazionismo, nonostante avesse solo pubblicato avventure a fumetti per bambini, e conseguentemente rischiò il carcere (se non la vita).
Ma in suo aiuto arrivò inaspettatamente Raymond Leblanc, un ben noto partigiano che voleva fondare il settimanale Tintin e testimoniò in suo favore.

Ad alcuni il film di Spielberg non è è piaciuto. Ad altri sì, e molto.
Probabilmente, questa radicale discrepanza di giudizi dipende dal fatto che, nell'infanzia di ciascuno ci sia stata o meno una relazione con Tintin, così come Spielberg - quasi certamente nella sua infanzia - ha intrattenuto una relazione con lui.
Se con Tintin vi è stata questa consuetudine, se Tintin è entrato in qualche misura nel nostro immaginario e vive in esso come personaggio vivo e palpitante che ci ha fatto (e che ci fa sognarre), il film di Spielberg non potrà non piacere, in fondo perchè parla di una passione infantile e quindi entra nel cuore del fruitore, a condizione che questi abbia a sua volta amato il personaggio Tintin.
In più, probabilmente, quelli a cui non piace il film (e il personaggio) sono quelli che non sanno far vibrare le corde del bambino che è dentro ciascuno di noi.



Tintin, un personaggio-icona della mia infanzia rivive nel film di SpielbergCosa è (é stato) per me Tintin? Tintin rievoca i tempi della mia infanzia, quando la mamma mi comprava gli Albi di grande formato con le avventure strepitose del piccolo giornalista e del suo fido cagnolino, per non parlare del Capitano Haddock e dei due investigatori semi-gemelli Dupont e Dupond, sempre battibeccanti e pasticcioni.
Ma, a parte l'elemento caricaturale con cui sono tratteggiati i singoli personaggi, le avventure narrate in quegli albi erano intriganti, perché abbinavano il piacere "visuale" della striscia a fumetti, con quello della lettura ed anche perché i testi, sia in forma di dialoghi sia in forma di spiegazioni aggiuntive erano importanti (quegli albi rappresentarono un trampolino di lancio per la lettura dei romanzi di avventure veri e prorpri).
Erano albi che suscitavano con immediatezza il gusto per la lettura, per quella unica e speciale combinazione di avventura, mistero, intrigo che sapevano offrire, tant'è che a distanza di tempo, per fare pratica, mi sono divertito a rileggerne alcuni, in Inglese).
Storie peraltro "pulite", prive di rappresentanti cattive e raccapriccianti di violenza: ed educative anche, perchè il bene finisce con il trionfare sempre e i cattivi (ma anche questi bonari) non la fanno franca.


Questi albi avevano l'innegabile fascino delle storie avventurose che facevano viaggiare il lettore nei "sette mari" e nei cinque continenti, ad un ritmo incalzante. 
E poi, a renderli appassionanti, c'erano i colori straordinari e la ricca definizione dei dettagli.

Quegli albi, di grande formato, con tutte le pagine a colori un pastellati li adoravo, semplicemente. C'era pane per i miei denti: trovavo sia da leggere, sia da guardare.
Purtroppo quegli album della mia infanzia li persi, non si so come.
Forse li regalai, o forse li distrussi (probabile), quando decretai che, essendo divenuto "grande" alcune cose che erano orpelli della mia infanzia avrei dovuto ritualmente distruggerle.

Più avanti, nel corso della mia vita, riuscii a recuperarli quasi tutti (alcuni come ho detto in versione inglese), cercando di ritrovare con essi l'antica magia.

La visione del film di Spielberg mi ha riportato indietro nel tempo a tutte le emozioni che gli album di Hergé mi donarono, quando ero più piccolo.

Il film è un tipico prodotto di Spielberg che è come un bambino cresciuto che si ritorva a rievocare tutto ciò che, nella sua infanzia, è entrato nel suo immaginario con strumenti da adulto: e, ovviamente, le avventure di Tintin rievocano l'archetipo "Indiana Jones" (alcune delle musiche sono rievocative in tal senso).
Sì, perchè indubbiamente, molto più di quanto si possa pensare, Tintin è diventato un personaggio dell'immaginario collettivo e icona della moderna storia di avventure.

 

 

Il trailer

 

 


 
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8 febbraio 2014 6 08 /02 /febbraio /2014 07:29

The Wolf of Wall Street. Ascesa e caduta di un Broker di Wall Street(Maurizio Crispi) The Wolf of Wall Street è un film del 2013, uscito nelle sale nel 2014, diretto e prodotto da Martin Scorsese, con protagonista Leonardo Di Caprio, nell'occasione anche produttore, nei panni di Jordan Belfort, uno dei broker di maggior successo nella storia di Wall Street, nella decade degli anni Novanta. 
La pellicola segna la quinta collaborazione tra Martin Scorsese e Leonardo DiCaprio.
Il film è l'adattamento dell'omonima autobiografia del vero Jordan Belfort, pubblicata con il titolo omonimo "Il Lupo di Wall Street" (Rizzoli, 2008).

(Sinossi della autobiografia di Belfort) Negli anni '90 Jordan Belfort ha guadagnato più soldi di quanti riuscisse a spenderne nelle sue leggendarie notti piene di coca, eccessi e squillo di lusso; più di quanti avesse mai osato sognarne ai tempi in cui vendeva carne e pesce nel Queens. Perché a Wall Street, cuore tachicardico della finanza mondiale, niente è impossibile, se sei giovane e affamato abbastanza.
E nessuno ha più fame di Belfort, arruolato come semplice telefonista dalla società di brokeraggio LF Rothschild e subito contagiato dalla selvaggia ambizione dei giovani broker che "puzzano di successo lontano un miglio". 

Geniale e spericolato, Belfort impara in un lampo l'ambigua arte di spostare mucchi di soldi e felicità, e giunge, nel giro di pochi anni, a fondare la sua società, la potentissima Stratton Oakmont, la "Disneyland dei broker", dove il denaro si moltiplica senza controllo. 
Ma non bastano otto Ferrari, la villa più grande degli Hamptons, una moglie trofeo, l'elicottero personale pilotato in stato di ebbrezza, per farti padrone del mondo o, se è per questo, della tua vita. 
Dipendente da ventidue sostanze diverse, dalle orge, e dal vizio implacabile della grandezza, Belfort si prepara a una caduta più spettacolare persino della sua formidabile ascesa. 
Cattivo, sincero, irriverente, "II lupo di Wall Street" è la travolgente storia vera del più grandioso e spudorato sogno americano degli ultimi decenni, simbolo di un sistema che esalta e corrompe.

The Wolf of Wall Street. Ascesa e caduta di un Broker di Wall StreetIl film, in sintonia con quanto Belfort racconta di se stesso, rappresenta la parabola di una vita fondata sul cinismo e basata sulla continua celebrazione dell'eccesso (una montagna di soldi da spendere, lusso sfrenato, donne, droghe e alcool, tutto senza misura).
Il film, con il suo ritmo accelerato ed anfetaminico, è una celebrazione dell'Io e della volontà individuale come strumento fondamentale per arrivare dove si vuole e per ottenere ciò che si vuole, senza nessun freno morale.
E' anche una celebrazione del principio utilitaristico secondo cui il "fine giustifica i mezzi" e dell'essere "lupo" in mezzo ad un gregge di pecore: le pecorelle indifese sono gli investitori che vengono abbindolati per investire magari in titoli ed azioni spazzatura che si convertono per il broker in soldi "veri".
E' la rappresentazione di una vita all'eccesso, in cui tutto deve essere sempre più eccesso: soldi, droga, donna...

Jordan Belfort, broker ambizioso ed aggressivo, sfrontato e cinico, è l'opposto dell'immagine buonista del broker che ci viene fornita nel film di Muccino (in La ricerca della felicità")  in cui si racconta la storia di un uomo ambizioso e di colore (interpretato da Will Smith) che fa di tutto per diventare un broker (infrangendo la regola che quello dei broker debba essere un mondo rigorosamente WASP), ma senza mai perdere la sua gentilezza e la sua umanità - ma anche una fondamentale eticità nelle ragioni delle sue scelte. Ambedue i film rappresentano, tuttavia, le due facce di una stessa medaglia, quella che - con il suo lato negativo e con quello positivo, con luci ed ombre - parla del mito americano del successo e della possibilità data a ciascuno di realizzare il proprio sogno o di raggiungere gli obiettivi che si è posto.
In questa interpretazione, Leonardo Caprio conferma la sua eccellenza di attore, capace di essere sino al midollo personaggio carismatico, trascinatore ed imbroglione.
Il film, per altri versi, avrebbe potuto essere intitolato "ascesa e caduta di un broker" che, dopo la caduta, sarà sempre pronto a risollevarsi e a rimettersi in circuito utilizzando gli strumenti truffaldini che ha imparato a padroneggiare così bene.
The Wolf of Wall Street. Ascesa e caduta di un Broker di Wall StreetLa pellicola di Scorsese andrebbe di sicuro vista, dando una rispolverata al celebre film di Oliver Stone, Wall Street, che racconta il mondo dei broker-yuppy degli anni Ottanta (e Jordan Belfort entra in scena come broker proprio quando si verifca il crollo in borsa a Wall Street del 1987, quando molte delle fortune - costruite sul nulla da quegli yuppy rampanti e spregiudicati - andarono in fumo in un batter d'occhio).
Il film di Scorsese ci fornisce così un nuovo tassello da inserire in una "storia" dei broker di Wall Street, ancora forse mai scritta, a parte il racconto biografico di Belfort che, da questo punto di vista, rappresenta una preziosa testimonianza.
Potrà Jordan Belfrot riabilitarsi da una vita di eccessi? Se, nella vita reale, è riuscito a scrivere una sua autobiografia (che è, in un certo senso, anche una confessione), si potrebbe ipotizzare di sì, che - in altri termini - egli - confessando e rielaborando -  si sia lasciato alle spalle i festini a base di droga e di donne, l'ebbrezza del lusso e del denaro guadagnato a palate e l'euforia di poter spendere in maniera illimitata senza mai farsi i conti in tasca.
Ma dalla scena finale (e molto ironica) si potrebbe anche dire che "il lupo perde il pelo, ma non il vizio", un vizio che continua ad essere esercitato come un vezzo patetico, ma senza più sfoderare zanne ed artigli per trasformare il vezzo in un'attività produttiva e altamente lucrosa.
Le addiction multiple, da farmaci, alcool e senza farmaci, ma da comportamenti (come è stata quella di Belfort), anche in fase di "astensione" anche prolungata, non sono mai risolte del tutto: in qualche misura hanno trasformato in una maniera profonda il cervello di colui che le ha praticate troppo a lungo.

 

 

 


 
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29 gennaio 2014 3 29 /01 /gennaio /2014 10:56
The Last Waltz - locandina del film

(Maurizio Crispi) The Last Waltz - L'ultimo valzer (1978) è un film di Martin Scorsese che racconta l'ultimo grandioso concerto del gruppo rock di origini canadesi "The Band" (con l'intercalare di una serie interviste con i diversi componenti della band) dopo 18 anni di carriera (successivamente, nel 1993 The Band si riunì per un breve arco di tempo e produsse tre nuovi album).
Vidi la prima volta il film al tempo della sua uscita nelle sale cinematografiche e ne rimasi profondamente colpito, emozionato.
E fui realmente dispiaciuto quando il film finì e con esso la band di cui, attraverso le interviste, era stata tracciata la storia..
Perchè?
The Band con il suo " Music from Big Pink" (di cui nel 2000 fu prodotta una versione rimasterizzata con l'aggiunta di alcune tracce inedite) fu una delle mie prime scoperte musicali autonome, dopo gli inzi di ascolto musicale alla guida di mio padre che era un cultore della musica classica e dell'opera lirica, ma che non mancava di offrirmi stimoli nuovi, regalandomi dischi innovativi che pensava potessero interessarmi (come Joan BaezJohn MayallThe Beatles) come anche, a lui, devo la prima scoperta di Fabrizio De André (con il suo regalo dell'LP "Tutti morimmo a stento")
Bob Dylan fu la mia prima scelta autonoma e subito cominciai ad ascoltare la sua musica, decifrarne i testi, amare i contenuti che trasmetteva, leggere su di lui e approfondire le tematiche che potevano essere seguite come i fili di una ragnatela che s'intersecano e ciascuno dei quali conduceva a nuove vie da percorrere.
Il mio mentore (virtuale) in quest'esplorazione fu Riccardo Bertoncelli, a partire dal suo testo avveniristico (per quei tempi) sulla musica Rock e Pop di quegli anni, Pop story. Suite per consumismo, pazzia e contraddizioni di Arcana, edito per la prima volta nel 1973 (un classico nel genere
 perché nello stile della critica e della storiografia rock "ispirata" e forse oggi, purtroppo, introvabile).
The Band è inestricabilmente collegata a Bob Dylan, visto che spesso collaborarono assieme (ricordate i "Basement's Tapes"?), ma anche perchè a lui fece da spalla nelle prime tournée.

The Band, il cui leader indiscusso fu Robbie Robertson (il quale, poi, continuò ad incidere album da solo, con un nuovo ed inedito interesse per le musiche dei Nativi americani), operò, incidendo molti album (non moltissimi) e calcando le scene musicali per oltre 18 anni.
Ma per il gruppo arrivò il momento degli addii e, quindi, posero fine alla loro attività quasi ventennale con un grande concerto di commiato che venne denominato "The Last Waltz" e a cui invitarono in veste di ospiti tanti dei musicisti rappresentativi della loro epoca musicale: sicché in quel concerto si schierò un parterre di artisti davvero grandioso, in un certo senso l'epitome di una parte della musica rock degli anni Sessanta e Settanta.
Il concerto ebbe luogo nel Winterland Concert Ballroom di San Francisco, il 25 novembre 1976 e fu evento memorabile, tanto che qualcuno disse: "Cominciò come un concerto e divenne una celebrazione"; e questa divenne la sua epitome, la frase incisiva con cui tramandarlo.
Il film di Scorsese peraltro, come documentario rock, rimase come una pietra miliare nella cinematografia di genere sia per la qualità del suono, sia per l'innovatività delle soluzioni di ripresa adottate.

Al tempo dell'uscita del film, io - ancora agli albori della mia vita lavorativa - stavo appena cominciando a fare le mie scelte e, quindi, vedere il concerto di commiato di musicisti che avevo seguito appassionatamente per quasi dieci anni (the Band e molti degli artisti coinvolti nel concerto, mentre altri erano per me nuovi), mosse in me delle emozioni, relativamente a qualcosa che non avevo ancora sperimentato e che, forse, avrei solo sperimentato in seguito.
Ma nel film vidi anche una metafora del commiato in genere e del passaggio da una fase della vita ad un'altra (e questo era qualcosa che allora era per me più accessibile in termini di esperienza: avevo già costruito dei possibili modelli dentro di me).
In effetti, per poter procedere nei miei studi di Medicina e arrivare alla loro conclusione, avevo dovuto rinunciare a possibili alternative e, comunque, avevo dovuto tralasciare delle "non scelte", quali potevano essere quella di rimanere in uno stato adolescenziale protratto, "non scelte" verso le quali - in un momento di difficoltà - mi ero sentito profondamente attratto.
Quindi la malinconia degli addii (che è anche il dispiacere susseguente ad una rinuncia, qualsivoglia essa sia, o quella sottile saudade per ciò che non si è ancora raggiunto da cui ci sente estromessi), in una certa misura, l'avevo già sperimentata dentro di me.
L'addio e il commiato sono carichi di nostalgia, ma nello stesso tempo possono diventare una grande festa e una celebrazione di ciò che siamo stati ed è quello che appunto The Band fece in occasione del suo ultimo commiato.
Uscii dall'aver visto il film commosso, quasi in lacrime, profondamente toccato nell'intimo, dispiaciuto che il film fosse finito e, con esso, The Band.
Poi continuai ad ascoltare per decine di volte l'album omonimo del concerto e OST del film di Scorsese e dalla visione di quel film, partirono per me innumerevoli altri sentieri musicali da seguire (come quello tracciato da Van Morisson o la scoperta degli album di Emmylou Harris).
A distanza di più di 40 anni, nel rivederlo in DVD, le emozioni sono state identiche, gioia, commozione, nostalgia, sconforto al pensiero di ciò che è stato e di ciò che si è perso, ma anche soddisfazione per ciò che ho fatto nella mia vita.

E, poi, aggiungerei che The Band costruì un suo repertorio di canzoni e pezzi memorabili: basti pensare a "The Weight"...  per non parlare di tutte le altre.
Un'ultima notazione: a vederli retrospettivamente, a distanza di tanti anni, dopo aver macinato l'ascolto di una quantità incredibile di musica di tutti i tipi, devo dire che tutti i musicisti di The Band sono bravissimi, capaci di trasmettere nel modo in cui suonano entusiasmo ed emozioni.
Sanno essere travolgenti e sanno adattarsi a modalità musicali diverse, come hanno fatto per ciascuno degli ospiti presenti accanto a loro in quest'ultimo concerto, con i quali imbastiscono delle cover dal clasdsico repertorio di ciascuno (come nel caso del pezzo con Muddy Waters con il suo classico "Hoochy Koochy Man" o con Bob Dylan, lanciati con lui in una rimarchevole e toccante interpretazione di "For Ever Young").

 

Il film di Scorsese peraltro, come documentario rock, rimase come una pietra miliare nella cinematografia di genere sia per la qualità del suono, sia per l'innovatività delle soluzioni di ripresa adottate.

 

(Da Wikipedia - En) The Last Waltz was a concert by the rock group The Band, held on American Thanksgiving Day, November 25, 1976, at Winterland Ballroom in San Francisco.
The Last Waltz was advertised as The Band's "farewell concert appearance", and the concert saw The Band joined by more than a dozen special guests, including Paul Butterfield, Bob Dylan, Neil Young, Emmylou Harris, Ringo Starr, Ronnie Hawkins, Dr. John, Joni Mitchell, Van Morrison, Muddy Waters, Ronnie Wood, Neil Diamond, Bobby Charles, The Staple Singers, and Eric Clapton.
The musical director for the concert was The Band's original record producer, John Simon.

The event was filmed by director Martin Scorsese and made into a documentary of the same name, released in 1978. Jonathan Taplin, who was The Band's tour manager from 1969-1972 and later produced Scorsese's film Mean Streets, suggested that Scorsese would be the ideal director for the project and introduced Robbie Robertson and Scorsese.
Taplin was the Executive Producer of The Last Waltz.
The film features concert performances, scenes shot on a studio soundstage and interviews by Scorsese with members of The Band.
A triple-LP soundtrack recording, produced by Simon and Rob Fraboni, was issued in 1978.
The film was released on DVD in 2002 as was a four-CD box set of the concert and related studio recordings.

 

The Last Waltz is hailed as one of the greatest concert films ever made, although it has been criticized for its focus on Robertson.

Da The Last Waltz, il pezzo finale "I Shall be released" con tutti gli artisti sulla scena.

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26 gennaio 2014 7 26 /01 /gennaio /2014 06:20

Cry Freedom. Nel film di Attenbourough un omaggio alla figura di Biko e a quelli che cercarono di diffondere le sue idee dopo la sua uccisione(Maurizio Crispi) Cry Freedom (Grido di Libertà) è un film del 1987, diretto dal britannico Richard Attenborough (autore, si ricorderà, anche del film su Gandhi).
Il film racconta dell'incontro tra un giornalista liberal Donald Woods e l'attivista sudafricano antiapartheid Stephen Biko, sino alla morte (l'uccisione) di quest'ultimo e oltre.
Un ancora giovanissimo Denzel Washington interpreta il ruolo di Biko, fautore, attraverso il movimento denominato "Black Consciousness Movement" (BCM), della crescita culturale dei black del Sud Africa e di un'integrazione con i bianchi
Impigrionato per le sue idee e ritenuto scomodo dal dittatoriale regime dell'Apartheid, Biko morirà di percosse in carcere (nel settembre del 1978), come tanti altri prima e dopo di lui.
La sua morte - come quella delle decine di altri dissidenti - verrà attribuita a cause accidentali.
Dopo il 1978, invece, il regime decreterà una totale segretezza delle notizie relative ai prigionieri "politici" e non si saprà più nulla, ufficialmente, di altre morti.

Il resto del film narra la storia del giornalista Donald Woods che decide di uscire dal Sud Africa per poter raccontare, pubblicandola, la storia di quello che era divenuto per lui uno stimato amico, assieme alle foto impietose che documentano lo scempio che è stato fatto del suo corpo da aguzzini che nulla ebbero di meno delle SS nei campi di concentramento nazisti: una fuga complicata, anche per non mettere a repentaglio la propria famiglia, passando dal Lesoto (e qui richiedere asilo politico agli USA), per volare quindi sino al Botswana.
Come in Gandhi, Attenborough riesce a realizzare grandi e toccanti scene corali, come quella del massacro di più di 800 studenti delle scuole che manifestavano pacificamente, dopo la morte di Biko, uscendo in corteo dalla township in cui sono relegati a vivere (Strage di Soweto, 1976), e riesce bene a dipingere il divario tra un regime ottuso che cerca di difendere in modo estremo i propri privilegi e coloro (inclusi molti dei white people anglofoni che non condividevano affatto le posizioni degli Afrikaner) che volevano (e chiedevano) una società in Sud Africa più equa e più giusta..


Il film, uscito nel 1987, venne subito considerato scomodo dal regime sudafricano e, venne di conseguenza. messo al bando e censurato (si ricorderà qui che come il regima stalinista quello sudafricano proibiva attivamente la circolazione di foto e di filmati che ritraessero i dissidenti e le foto di Biko - come quelle di Mandela - erano proibitissime).
Maureen Simpson, allora giovane studentessa, ricorda che lei e il pubblico venero fatti sgombrare dalla sala cinematografica dov'era in corso la proiezione del film.

Il film è interessante e ben costruito.
Alcuni tuttavia si sono lamentati del fatto che, più che la storia di Biko, vi era rappresentata l'odissea del giornalista per uscire dal Sudafrica e riuscire a pubblicare quello che poi diventò il volume "Biko".

Ma, sia come sia, il film riesce a dare - e in una maniera sobria, senza sbature e senza alcuna retorica - un'idea del totalitarismo del regime degli Afrikaner che, oltre ad esercitare con violenza i suoi divieti e i propri privilegi, fu soprattutto una "dittatura del pensiero", come molti altri regimi totalitari.
Una pellicola da vedere, soprattutto perchè consente, di identificare alcuni punti essenziali della storia sudafricana, prima della liberazione di Mandela dal suo imprigionamento pluridecennale nel 1998 e prima della nascita della 2nazione arcobaleno" e che, assieme a Goodbye, Bafana! (Il colore della libertà, 2007) e a Invictus (L'invincibile, 2009), cosituisce un bel trittico cinematografico che racconta del percorso verso la libertà e l'integrazione della nuova Repubblica Sudafricana.

 

 

Il trailer ufficiale



 

 

Visto in DVD per la prima volta, nel gennaio 2014 

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24 gennaio 2014 5 24 /01 /gennaio /2014 08:37

4:40 - The Last Day on Earth. Una riflessione sulla apocalisse prossima ventura(Maurizio Crispi)  4.44 - The last day on Earth è un film "apocalattico" di  Abel Ferrara, realizzato con mezzi poverissimi, senza effetti speciali, eppure efficace.
Pensate che - secondo l'immagine (quasi obbligata) che ci è stata consegnata dalla cinematografia hollywoddiana la fine della Terra sarebbe preceduta da secene di panico, da radunate oceaniche di gente che prega (o che si dispera), dal Caos universale?

No, niente di tutto questo.

Quello che prospetta Abel Ferrara è una riflessione su ciò che accadrebbe nell'animo umano se ciascuno di noi fosse informato, senza alcun ragionevole dubbio, che la fine della Terra (e quindi della vita) avverrà per tutti ad una certa ora di un certo giorno.
In modo irrevocabile. Non ci sono scappatoie, non vie di salvezza possibili.
Nè sarà data ad alcuni la possibilità di mettersi in salvo, pagando qualcosa in più.
Non un destino differenziato per ricchi e per poveri.
Ma una fine eguale e indifferenziata per tutti.
La fine del mondo, la fine della vita, la fine delle nostre vite.

Angosciante... claustrofobico...
Abel Ferrara ha dato vita ad un vero e proprio laboratorio in cui egli studia cosa accadrebbe agli uomini e alle donne nel breve arco di tempo in cui gli rimane da vivere, nell'attesa.

Alcuni si suicidano, così, come se niente fosse: nient'altro che il prodotto di una lucida determinazione.

Altri manifestano la propria rabbia, sparando in aria dei colpi di fucile.

Altri si riuniscono e parlano tra loro, bevendo vino.
Altri continuano le proprie piccole abitudini, come l'uomo che nutre il suo cane, offrendogli prelibati bocconcini presi dal suo stesso piatto.

Altri fanno l'amore, ascoltano musica, litigano per piccole gelosie, come la coppia dei due protagonisti che sono esaminati nelle loro reazioni più da vicino.
In televisione, scienzati e teologi si avvicendano spiegand cuò che sta capitando e ciascuno, cercando di dar euna spiegazione metafisica, dal proprio punto di vista, sul senso delle cose ultime.
Nient'altro.
Per il resto la vita continua, come se niente fosse, la gente va al lavoro e ne ritorna. Il flusso di automobili scorre inalterato.

Poi lo strato di ozono, all'ora annunciata, si buca definitamente.
Si spengono le luci ed è la fine.

 

Credo che questo film sia decisamente efficace, anche se all'inizio uno si chiede che cosa stia guardando: dal momento che lo svolgimento sembra tradire quanto annunciato nel titolo.
E, poi, andando avanti nella visione del film, a poco a poco si comprende, il senso di ciò che Abel ferrara ha voluto dirci.
In questo senso, la storia è del tutto spogliata di quegli orpelli che, spesso, rendono i film apocalittici dei film avventurosi e di azioni, in cui il più delle volte (nel 99% dei casi) si prospetta - almeno per alcuni - una consolotaria via di sopravvivenza.
Qui, in questa pellicola, tutti si traduce ed è rappresentabile nel dramma quotidiano dei personaggi: come candele che semplicemente arrivano alla loro fine, ma che - ciò nonostante - sino alla fine continuano ad ardere.

 

 

Il Trailer.

 


 

 

Visto in DVD, gennaio 2014

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22 gennaio 2014 3 22 /01 /gennaio /2014 07:11

The Deep. Una storia islandese di sopravvivenza: un bell'esempio di cinematografia indipendente(Maurizio Crispi) The Deep è un incisivo e sobrio film islandese, di Baltasar Kormákur (2012), basato su di una storia vera che parla di una tragedia del mare e di un'incredibile vicenda di sopravvivenza..

Kormákur ha portato sullo schermo ciò che in Islanda è leggenda. Si tratta di uno strano caso realmente accaduto nel 1984, allorquando un peschereccio naufragó nelle gelide acque dell'isola di Vestman. 
Dell'equipaggio si salvò solo un uomo, che riuscì a sopravvivere in condizioni impossibili con temperature disumane: Gulli, un tipo comune che divenne senza volerlo un eroe nazionale e, allo stesso tempo, un fenomeno scientifico da studiare.
E' una storia che apre una breccia sui limiti del corpo umano.

 

 

Un peschereccio al largo delle islandesi isole Vestmann affonda. Cinque dell'equipaggio muoiono. 
Solo uno si salva dopo aver nuotato per oltre sei ore nell'acqua gelida verso la terraferma, attraversando poi a piedi scalzi una distesa di lave taglienti, per presentarsi infine barcollante alla porta d'una casa prima di collassare in preda - finalmente - alla spossatezza e alla ipotermia.
Il sopravvissuto viene guardato con diffidenza, interrogato ed esaminato, perché non ci spiega come abbia potuto sopravvivere tanto a lungo con la temperatura dell'acqua gelida: è una persona comune, fumatore e sovrappeso, senza alcuna qualità straordinaria; e non è nemmeno un provetto nuotatore, specificamente allenato.
L'atteggiamento verso di lui oscilla, un po' viene considerato un eroe nazionale, un po' una foca umana ed uno scherzo di natura verso il quale provare diffidenza, oltre alla pena soggettiva per essere sopravvissuto agli altri.
Alla fine, tutto ritorna alla normalità con la nostalgia dei compagni di pesca morti attorno a lui, ma dei cui ultimi momenti può rendere dolente testimonianza ai familiari in lutto.
Mentre scorrono i titoli di coda del film si possono vedere degli spezzoni di un'intervista rilasciata dal personaggio reale sulla cui vicenda è costruita la storia.

Il film propone una riflessione su una quasi disumana "resilienza" di fronte a condizioni ambientali propibitive.
Ma anche sui meccanismi mentali che si mettono in moto per aiutare l'individuo in condizioni estreme a resistere: per esempio, nel film è straordinariamente bello ed intenso il dialogo con il gabbiano che vola salto su di liui e la rievocazione di ricordi di infanzai e della vita quotidiana che appaiono come nel monitor di un televisore vecchio stampo, con le immagini significative dell'eruzione vulcanica del 1973 che seppellì sotto una pioggia di ceneri quasi per intero la cittadina di Vestmanneyear, il principale villaggio di pescatori delle isola Vestmann: anche lì, in nel dispiegarsi di questi ricordi, traspare una storia di coraggio, determinazione, resistenza.

Alcune delle musiche della colonna sonora riecheggiano gli stilemi dei Sigur Ross e ciò rende il film ancora più apprezzabile.
Un bell'esempio di cinematografia indipendente, fuori dal solco delle major hollywoodiane.
Non mi risulta che in Italia sia stato distribuito nelle sale cinematografiche (e, in effetti, la sua scheda non compare nemmeno sul www.mymovies.it).

 

 

Il trailer

 

 


 

 

Visto in DVD a casa...

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10 gennaio 2014 5 10 /01 /gennaio /2014 07:03

The Butler. Un maggiordomo alla Casa Bianca. Uno spaccato di storia USA attraverso gli occhi di un Maggiordomo di otto presidenti(Maurizio Crispi) The Butler - Un maggiordomo alla Casa Bianca (The Butler) è un film drammatico-biografico del 2013 (USA), scritto e diretto da Lee Daniels con protagonista Forest Whitaker.
Il film è basato su di una storia vera. La pellicola è, infatti, l'adattamento cinematografico dell'articolo di giornale "A Butler Well Served by This Election", scritto dal giornalista Wil Haygood e pubblicato sul The Washington Post, in cui si narra la vicenda di Eugene Allen, maggiordomo della Casa Bianca per più di trent'anni (l'articolo disponibile nel web nella sua interezza è anche corredata da una bella galleria fotografica che mostra diversi momenti della vita di Eugene Allen)
Nel film il nome del protagonista è stato modificato in Cecil Gaines.
Attraverso gli occhi di Cecil Gaines, che ha vissuto gli orrori dei "campi di concentramento" degli USA (le capanne a schiera dove vivevano i neri che lavoravano nei campi di cotone) e dopo aver assistito con orrore all'uccisione barbara del padre, viene educato per compassione dalla padrona della piantagione come "negro di casa" per poi diventare cameriere in un prestigoso ristorante di Washington e, infine, "maggiordomo" alla Casa Bianca, sfilano quasi trent'anni di storia americana con i cambiamenti epocali sul fronte interno (il doloroso e non semplice processo di superamento dell'odio razziale e della discriminazione) e di politica estera americana, dall'epoca di Eisenowher al mandato di Donald Reagan (quando Cecil si ritira), per arrivare al presente (2006) quando ormai vecchio e da anni in pensione Cecil viene ricevuto alla casa Bianca dal neo-eletto Barak Obama.
In tutto, nel racconto di Cecil Gaines, sino al suo pensionamento si succedono otto mandati presidenziali.
Il regista del film si è prefisso un compito ambizioso che viene sviluppato come un grande affresco.
Secondo alcuni, nella rappresentazione dei diversi presidenti, vi è stato in alcuni casi un eccesso di superficialità (o a volte il presentarli come "macchiette", utilizzando per distinguerli alcuni di quegli stessi elementi usati dai caricaturisti), ma non bisogna dimenticare che tutto - per mantenere la narrazione coerente con il personaggio - deve essere necessariamente filtrato dagli occhi e dalle elaborazioni di Cecil Gaines che, per necessità di cose e per via del suo status, è sì un testimone di ciò che avviene nella stanza dei bottoni, ma che deve rimanere per abitudine mentale (appresa sin dai primordi del suo addestramento come "negro di casa"), sostanzialmente neutrale.
E, in tutto questo, il film è percorso dal filo rosso del conflitto intergenerazionale tra Cecil padre e i due figli maschi, di cui il maggiore prende la via della contestazione e della lotta per i diritti civili della comunità nera degli USA (passando da gandhiani Freedom Riders all'aggressivo movimento del Black Panthers Party, sino al messaggio di pace e di protesta non violenta di Martin Luther King, del quale vengono riferite alcune riflessioni sull'importanza dei camerieri e dei maggiordomi neri nel processo dell'integrazione), mentre l'altro più incline a condividere la visione "neutra" del padre e desideroso di integrazione in quella che sente la "sua nazione", va a morire in Vietnam.
Cecil Gaines, per via del suo ruolo, in manera a volte dolorosa è costretto a non esprimere mai le sue opinioni e a muoversi nel mondo (anche quello della sua vita quotidiana) privilegiando la rinuncia: e in questo veine spesso disapprovato e contestato dal figlio maggiore, qualche volta anche dalla moglie.
La vita di Cecil si consuma così tra due fronti, quello dell'accettazione non conflittuale e quello del conflitto sul fronte familiare.
Non si può non pensare, vedendo questo film al magistrale "Quel che resta del giorno" (1993, tratto dall'omonimo romanzo di Kazuo Ishiguro) che ci ha consegnato una delle più splendide interpretazioni cinematografiche di Anthony Hopkins nel ruolo, appunto, di un maggiordomo che spende tutta la sua vita al servizio dei suoi "signori": invisibile quasi, mai esprimente un'opinione e costretto a mantenersi distaccato anche nelle sue scelte di vita e sentimentali, dove tutto per lui rimane sospeso, sintanchè il giorno non finisce ed è ormai troppo tardi per compiere altre possibili scelte.

Il film si presenta con un casto di attori eccezionale.
Drammatica e dolente l'interpretazione di Cecil Gaines, adulto e vecchio, da parte di Forrest Whitaker.

 

 

Scheda
Titolo originale:The Butler
Lingua originale: inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 2013
Durata: 113 min
Genere biografico, drammatico, politico
Regia: Lee Daniels
Soggetto: Wil Haygood (articolo A Butler Well Served by This Election)
Sceneggiatura: Lee Daniels, Danny Strong
Produttore: Lee Daniels, Cassian Elwes, Buddy Patrick, Laura Ziskin
Produttore esecutivo Danny Strong, Michael Finley, Len Blavatnik, James T. Bruce IV, Elizabeth Destro, Aviv Giladi, Adonis Hadjiantonas, Vince Holden, Brett Johnson, Sheila Johnson, Jordan Kessler, Adam Merims, David Ranes, Matthew Salloway, Hilary Shor, Earl W. Stafford, R. Bryan Wright
Casa di produzione: Laura Ziskin Productions, Salloway Rubenstein Productions, Windy Hill Pictures
Distribuzione: (Italia) Videa CDE
Fotografia: Andrew Dunn
Montaggio: Joe Klotz
Effetti speciali: Edward Joubert
Musiche: Rodrigo Leão
Scenografia: Tim Galvin
Costumi: Ruth E. Carter
Trucco: LeDiedra Richard-Baldwin, Kellie Robinson

 

Interpreti e personaggi
Forest Whitaker: Cecil Gaines
Alex Pettyfer: Thomas Westfall
John Cusack: Richard Nixon
Robin Williams: Dwight Eisenhower
Terrence Howard: Howard
James Marsden: John F. Kennedy
Alan Rickman: Ronald Reagan
Liev Schreiber: Lyndon B. Johnson
Melissa Leo: Mamie Eisenhower
Minka Kelly: Jackie Kennedy
Jane Fonda: Nancy Reagan
Cuba Gooding Jr.: Carter Wilson
Jesse Williams: Reverendo James Lawson
Vanessa Redgrave: Annabeth Westfall
Mariah Carey: Hattie Pearl
David Oyelowo: Louis Gaines
Lenny Kravitz: James Holloway
Oprah Winfrey: Gloria Gaines
Nelsan Ellis: Martin Luther King Jr.
Dana Michelle Gourrier: Helen Holloway
James DuMont: Sherman Adams
Aml Ameen: Cecil Gaines da giovane
Colin Walker: John Ehrlichman
Adriane Lennox: Gina
Elijah Kelly: Charlie Gaines
Yaya Alafia: Carol Hammie
Michael Rainey: Cecil Gaines a 8 anni
Alex Manette: H.R. Haldeman
David Banner: Earl Gaines
Colman Domingo: Freddie Fallows
Orlando Eric Street: Presidente Barack Obama
Clarence Williams III: Maynard
Stephen Rider: Stephen W. Rochon
John P. Fertitta: Jenkins
Jim Gleason: R.D. Warner
Mo McRae: Eldridge Huggins
Nealla Gordon: Senatrice Kassebaum


Trailer


 





Visto il 4 gennaio 2014, al Cinema Lux con Salvatore fratellone

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5 gennaio 2014 7 05 /01 /gennaio /2014 12:45

Ender's Game. Come condurre alla guerra degli adolescenti addestrati ai videogioch(Maurizio Crispi) Ender's game è un film di Gavin Hood (USA, 2013), tratto dal primo romanzo della fortunata serie SF del pluri-premiato scrittore statunitense  Orson Scott Card (con titolo identico: Ender's Game, ovvero "Il Gioco di Ender"), pubblicati in Italia dalla Editrice Nord.

Il film è ambientato in una Scuola di Guerra per forgiare coloro che combatteranno un'ultima e definitiva battaglia contro i Formic, alieni insetttiformi che, molto tempo prima (80 anni per l'esattezza), avevano tentato di invadere la terra e che erano stati sconfitti grazie al sacrificio del comandante Mazer Rackham.
A questa scuola vengono ammessi soltanto giovani e giovanissimi, selezionati dopo un lungo periodo di osservazione che copre tutte le loro attività quotidiane, grazie ad una forma di monitoraggio a distanza.

Gli alieni, simili a grandi insetti, che hanno minacciato gravemente la Terra in pasato si sono ritirati nel loro pianeta d'origine, ma si ritiene che - non si quando - decideranno di riprendere le loro attività di belligeranza alla ricerca di nuove colonie e soprattutto di acqua.
Nulla di nuovo sotto il sole, dunque: ricerca di spazio vitale e di nuove risorse, come in tutte le guerre.
Gli uomini, ammaestrati da quella che avrebbe potuto essere una pesante disfatta e forse la fine dell'Umanità, adesso, predicano il verbo di una guerra preventiva (all'insegna del sempreverde principio sancito dal motto "Si Vis Pacem Para Bellum", ma anche del'imperativo della frontiera del West, quando vigeva il principio dello sterminio all'insegna del principio del "O noi o loro" ed anche "L'unico Pellerossa buono è un Pellerossa morto).
E gli uomini, nella necessità di mettere a punto un'avanzata guerra tecnologica, fondata oltre che sulle conosce delle tattiche e delle strategie anche dell'uso di sofisticati strumenti virtuali (per mezzo dei quali è possibile realizzare la guerra a distanza), reclutano per la prossima battaglia di sterminio soggetti sempre più giovani che sono i più idonei per la loro abitudine precoce a utilizzare i videogiochi a questo tipo di guerra: e  le giovani reclute, con un training fatto di giochi, di simulazioni tattiche e strategiche, ma anche di esercizio fisico e di allenamento a cooperare in squadra, vengono addestrate in modo sempre più sofisticato, sino ad essere condotti alla battaglia vera senza che ad essi sia concessa la consapevolezza che stanno "veramente" combattendo. Uno scenario inquietante, tanto più che, al giorno d'oggi, la guerra "non guerra", quella combattutta a distanza, usando i "droni" e stando seduti a migliaia di chilometri di distanza davanti ad una consolle, è diventata la triste realtà (come viene prospettato nel piccolo saggio Esecuzioni a distanza 1).

Nel sottofondo di questa struttura narrativa c'è anche una cogente riflessione sulla responsabilità morale di quegli adulti che educano i giovani alla violenza, alla guerra e alla sopraffazione, deformando o pervertendo la naturale ed innata tendenza dell'Homo Ludens huizinghiano.
Ender Wiggin, il giovane protagonista, è il più dotato delle reclute e farà rapidamente strada.

Non starò a raccontare la trama che si svolge su di un doppio piano del gioco virtuale e dell'addestramento vero, in presenza fisica (con una bella traduzione delle vicissitudini del romanzo che sarà sicuramente fonte di meraviglia per quanti non lo abbiano l
eEnder's Game. Come condurre alla guerra degli adolescenti addestrati ai videogiochitto prima).


Il film che racconta di una storia apparentemente guerrafondaia, alla fine, assume i contorni di una parabola contro la guerra e contro tutte le guerre, soprattutto di quelle guerre basate su di una mancanza di comunicazione e sull'impossibilità-non volontà di costruire un linguaggio comune, attraverso il quale fondare un'Ecumene (secondo la concezione di un'altra grande scrittrice di SF che è Ursula Kroeber Le Guin, i cui costrutti hanno - per illustri ascendenze familiari - una solida base antropologica).

Ender distruttore, alla fine del film (e del romanzo), diventerà Ender il Salvatore. Ed è da questa conclusione e dalla necessità di un riscatto che prenderanno le mosse le sue avventure nei successivi romanzi, fortemente connotati in senso messianico.



Ender's Game (film) su Wikipedia


Il gioco di Ender (su Wikipedia)

 

 


Trailer ufficiale




(Dal risguardo di copertina dalla riedizione Nord 2013) L'ultimo attacco alla Terra da parte degli alieni risale a ottant'anni fa, tuttavia la guerra non è finita. Per scongiurare la possibilità che, un giorno, la razza umana venga cancellata da una nuova e ancor più devastante invasione, sono state costruite armi sempre più potenti e ideati vari sistemi di difesa. Inoltre, per sfruttare le straordinarie capacità di alcuni bambini, è stata creata una Scuola di Guerra, destinata a formare un'élite di geni militari. Ed è in questo luogo altamente competitivo, in cui si simulano al computer azioni belliche di ogni tipo e si elaborano tattiche e strategie di grande complessità, che viene portato Andrew "Ender" Wiggin: ha soltanto sei anni e lo aspetta un addestramento feroce in un ambiente spietato, ma lui è un genio tra i geni, nato con le doti di un superbo comandante. Ed è l'unico in grado di vincere tutte le "partite" combattute nella Sala di Battaglia. Ma qual è il prezzo da pagare per essere davvero il migliore? E dove finisce il gioco e comincia la realtà?

 

 

 

Note

Ender's Game. Come condurre alla guerra degli adolescenti addestrati ai videogiochi(1) Esecuzioni a distanza (William Langewiesche, Adelphi, 2011) nella traduzione di Matteo Codignola.
In questo piccolo volume, inserito nella Biblioteca Minima di Adelphi si parla degli "omicidi" e della solitudine di un tiratore scelto dell’esercito americano, e delle giornate iperreali dei piloti che da un hangar vicino a Las Vegas guidano i droni sui loro bersagli nelle montagne afghane. Due volti gelidi e feroci di una guerra futura che si combatte già, e che nessuno prima di Langewiesche aveva raccontato.
E' la "guerra a distanza", in cui non vi è più nessun contatto fisico e visuale con l'avversario, caratterizzata soprattutto dall'abolizione del cosiddetto "contatto oculare" che consente di attuare un riconoscimento dell'Altro come simile a noi e che muove l'empatia.
Questi scenari escludono radicalmente le incertezze e le esitazioni, così magistralmente rappresentate nella canzone di De André "La guerra di Piero", ad esempio.
Il secondo capitolo apre una prospettiva inquietante su ipotetici scenari futuri in cui si possono ipotizzate armi miniaturizzate "intelligenti", capaci di selezionare i bersargli e di eliminarli in modo autonomo.
Questo secondo capitolo sembrerebbe essere il preambolo del famoso romanzo breve di P. K. Dick e del film che ne è stato trato "Screamers".
L'autore. William Langewiesche è corrispondente dell’edizione americana di «Vanity Fair». I suoi libri raccolgono inchieste e reportage dedicati a temi e luoghi diversi, dal Sahara alla storia del volo, dalla vita sul confine fra Messico e Stati Uniti alle macerie di Ground Zero.

 

 

 

 

 

 

Visto con Tatarone fratellone, il 9 novembre 2013

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11 novembre 2013 1 11 /11 /novembre /2013 06:55

Oscure presenze. Un bel film sobrio e senza sbavature nella traccia degli X-Files(Maurizio Crispi) Oscure presenze (Dark Skies, in lingua originale) è un film del 2013 (USA) scritto e diretto da Scott Stewart, sotto l'egida dello produttore di  Insidious e Sinister.

La tesi di questo film, come quella dei due citati sopra è ampiamente sviluppata nell'interminabile e popolare serie di X-files. Ed è la stessa in definitiva di "Incontri ravvicinati del terzo tipo", ma senza gli elementi favolistici e meravigliosi che solo la fresca fantasia di Spielberg poteva mettere in scena.


Il tema è quello degli extra-terrestri e della loro presenza tra noi.

Ma in "Oscure Presenze", come negli altri due film citati, nessuno si preoccupa di svelare l'arcano che viene accettato come un dato di fatto, anche se con l'inconveniente che questi extraterrestri, in foma di oscure presenze sempre presenti tra noi a volte si manifestano in una maniera perniciosa.

Come epigrafe al film campeggia una famosa frase di Arthur C. Clarke, uno dei maestri della fantascienza "scientifica" che così recita: "Si possono fare due ipotesi soltanto: o siamo soli nell'Universo o non lo siamo. Ma entrambi le ipotesi sono terrificanti".

 

In altri termini, il dilemma propone due possibilità altrettanto sconvolgenti: quella che gli uomini siano gli unici abitatori dell'Universo oppure quella che lo debbano condividere con altri inquilini di cui non possiamo sapere nulla e che, proprio per questa impossibilità epistemologica, non possono che terrorizzarci, con una loro presenza incombente, ma sempre sfuggente e, dunque, di per sé perturbante.

 

La storia narra le vicende di una famiglia che vive in una confortevole casa nella periferia urbana di una grande città statunitense. Daniel e Lacy Barrett, padre e madre di Jesse e Sammy, diventano testimoni di una serie di eventi molto strani e inquietanti fino a diventare il bersaglio di una forza terrificante e mortale: scoprono con orrore che il loro bambino di sei anni è stato posseduto da degli alieni. Decidono quindi di trovare il modo per risolvere il mistero, e quindi, salvare la famiglia in pericolo.


Quale è il rimedio? Non ve ne è alcuno - come dice loro un "esperto" che, dopo molte reticenze i due genitori si recano a consultare - Soltanto cercando di proteggersi all'estremo e tenendo unita la famiglia si potrà evitare il peggio.

Il film alimenta preoccupazioni paranoidi circa il mondo e la realtà, supponendo che non c'è da aspettarsi un'invasione aliena che possa verificarsi in un ipotetico futuro sia essa nella forma minacciosa ventilata da La Guerra dei Mondi di H.G: Wells o quella ben più angosciante che viene rappresentata in L'invasione degli Ultracorpi nei suoi diversi remake (a partire dal romanzo SF "Gli Invasati" - tit. originale "The Body Snatchers" - di Jack Finney), sia essa quella benevola e rassicurante (anche se nel suo manifestarsi ominosa) di "Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo".

Essa c'è già stata e gli alieni sono tra noi, ci osservano e ci studiano e ogni tanto ci prelevano per dei loro fini che rimangono misteriosi (forse esperimenti: ma non si potrà mai sapere esattamente).

Per alcuni versi, la tesi sviluppata dal film è più vicina a quella di Essi vivono di John Carpenter (1988), anche se in questa pellicola - realizzata, come molti film altri di Carpenter a basso costo - prevale un'interpretazione di una presenza aliena fondata sul tema della sopraffazione e del dominio (e dunque con il prevalere d'una chiave di lettura metaforica sconfinante nel sociologico, secondo un'ermeneutica cara a Carpenter).

 

Dunque, Dark Skies è una pellicola che tratta di fenomeni paranormali (che all'inizio appaiono come un banale fenomeno di poltergeist) dietro i quali si nascondono degli alieni, con qualche risvolto horror, ma il tutto giostrato con parsimonia di effetti speciali ed anche senza eccessi di pathos nella colonna sonora. 
Nel complesso, la vicenda si dipana in modo sobrio ed incisivo, con qualche effetto speciale che mai diventa "effettaccio", tuttavia.
Mi sentirei di consigliarne la visione a tuttii cultori degli X-files e del paranormale.
Vi viene proposta anche, definitiva, una riflessione metafisica sul fatto che non siamo noi ad essere - come vorremmo credere - al centro del creato/universo e che sono molte di più le cose che non sappiamo, rispetto a quelle che crediamo di sapere.
Ed anche sul fatto che ad alcune cose "bisogna credere" anche in assenza di inconfutabili evidenze, vincendo ogni scetticismo e la voce della razionalità: adottando quell'atteggiamento mentale che sintetizzato dal famoso motto "I wanto to believe," messo a coronamento di tutti gli episodi di X-Files.

Godibile - con la pioggia degli uccelli migratori che si abbatte sulla casa dove vive la famiglia Barrett - la citazione de "Gli Uccelli" di Hitchkoch ad anche, in contemporanea, il riferimento ad un romanzo di Stephen King (La Zona Morta), nel quale vengono descritti analoghi fenomeni.

 

 

Scheda del film
Titolo originale: Dark Skies

Lingua originale: inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Anno: 2013
Durata: 97 min
Genere horror, fantascienza, thriller
Regia: Scott Stewart
Sceneggiatura: Scott Stewart
Produttore: Jason Blum
Produttore esecutivo: Charles Layton, Jeff Okin, Bob Weinstein, Harvey Weinstein
Casa di produzione: Alliance Films, Blumhouse Productions
Distribuzione: (Italia) Koch Media
Fotografia: David Boyd
Montaggio: Peter Gvozdas
Musiche: Joseph Bishara
Scenografia: Jeff Higinbotham
Costumi: Kelle Kutsugeras
Trucco: Jed Dornoff, Brian Kinney
 

 

 

Interpreti e personaggi principali
Keri Russell: Lacy Barrett
Josh Hamilton: Daniel Barrett
Dakota Goyo: Jesse Barrett
Kadan Rockett: Sam Barrett
J.K. Simmons: Edwin Pollard
L.J. Benet: Kevin Ratner

 

 

Dark Skies locandina

 

Il film in USA venne vietato ai minori di 13 anni per la presenza di violenza, terrore, materiale sessuale, farmaci e linguaggio non adatto

 

 

Il Trailer ufficiale

 

 

 


 
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31 ottobre 2013 4 31 /10 /ottobre /2013 08:26

Cose nostre - Malavita. Luc besson trasforma un mafioso pentito e sotto protezione in un simpatico cialtrone. Operazione discutibile, ma dall'effetto garantito(Maurizio Crispi) Cose nostre - Malavita (The Family) è un film del 2013 scritto, diretto e prodotto da Luc Besson, con protagonisti Robert De Niro, Michelle Pfeiffer e Tommy Lee Jones.
Le riprese del film, iniziate l'8 agosto 2012 e concluse il 27 ottobre dello stesso anno, si sono svolte tra Francia e Stati Uniti d'America, nelle città di Le Sap, Saint-Denis, Gacé, L'Aigle e New York.
È stato uno dei primi film girati negli studios di Cité du Cinéma in Francia, complesso costruito da Luc Besson nel settembre 2012.
La pellicola è l'adattamento cinematografico del romanzo Malavita di Tonino Benacquista (Ponte alle Grazie, 2006).
Questa la trama del libro che, peraltro è assolutamente sovrapponibile a quella proposta dalla pellicola di Besson.
In una tranquilla e un po' sperduta cittadina della Normandia arriva la famiglia Blake (alias Manzoni): scrittore lui, dedita alla beneficenza lei, bellissima la figlia, simpatico il figlio. Peccato che siano effettivamente un po' strani: la signora dà fuoco al supermercato, la signorina spacca la faccia ai corteggiatori, il signorino studia da capobanda e il signore fa saltare in aria una fabbrica chimica. Quale segreto si cela dietro tanta eccentricità? E perché i Blake sono costantemente sorvegliati?

Parlando sia del romanzo sia del film ci sarebbe molto da dire su questa rappresentazione d'una simpatica famigliola newyorkese sotto protezione che, con molta scioltezza, si spende in esercizi di una violenza "normalizzata" giustificabile perché messa in atto "per una giusta causa" (che sarebbe poi l'obiettivo di avere una vita "normale" senza l'assillo di vendicatori e killer prezzolati alle costole)1.
Il film é accativante (vi si sente il peso della regia e della sceneggiatura di Luc Besson) e molto "americanofilo" nel rispetto di una cifra tipica del cineasta francese che - pur in un quadro di riferimenti europei - ha avuto sempre un culto per la cinematografia d'oltreoceano, tanto che - a tratti - si ha la sensazione di stare a guardare un seguito di "Terapia e pallottole"), ma dove si fa l'occhiolino anche a Martin Scorsese e al suo "Quei bravi ragazzi Goodfellas" (in cui Robert De Niro interpreta uno dei protagonisti). Pur accativante e vedibile con piacere, rimane pur sempre un film diseducativo, perchè vi sta una rappresentazione della violenza normalizzata, praticata da individui che sembrano essere soltanto eccentrici e pronti a risolvere le cose da sè e in modi "piuttosto" incisivi.

  

Diciamo pure che in ciò si intravede un'evoluzione recente (proprio di questi ultimi anni) della cinematografia consumistica, in cui - pur di fare cassetta - qualsiasi personaggio deve essere preentato in modi accattivanti tali da consentire allo spettatore di mettere in atto meccanismi di identificazione.

 

Come classificarlo? Probabilmente, lo si potrebbe definire una "black comedy" o come un "noir farsesco", in cui la figura del "mafioso" viene convertita e trasformata in quella di "simpatico cialtrone".


Quali le scene più comiche/grottesche?

Sicuramente, quella dell'incontro scontro/scontro di Giovanni Manzoni con l'idraulico, ma anche la "piccola" rivendicazione vandalica messa in atto dalla mogle ai danni del supermercato di provincia dove avventori e commessi, ritenendo di non essere capiti si erano lanciati in un'invettiva contro i "soliti" turisti americani, eccentrici e dalle strane abitudini, dei veri e propri "barbari".
Ma anche quella in cui il nostro Giovanni Manzoni viene chiamato a disquisire in qualità di "scrittore" competente ed informato del film di Scorsese "Quei bravi ragazzi".

 

 

Interpreti e personaggi
Robert De Niro: Fred Blake / Giovanni Manzoni
Michelle Pfeiffer: Maggie Blake
Tommy Lee Jones: Agente CIA Stansfield
Dianna Agron: Belle Blake
John D'Leo: Warren Blake
Jon Freda: Rocco
Dominic Chianese: Don Mimino
Vincent Pastore: Fat willy
Joseph Perrino: Joey
David Belle: Mezzo

 

 

 

Trailer

 

 


 

 

 

 

 

 

 


Note (1) Per esempio "Antonio" ha postato sulla scheda del libro "Malavita" in IBS il seguente commento che non si può non codividere. (Antonio) Sarà perchè non ho mai sopportato tutti quei film in cui il gangster assume connotati umani, sarà perchè odio la mafia e i suoi metodi, ma a me questo romanzo non è proprio piaciuto. Pur essendo un divoratore di libri, ho addirittura fatto fatica a finirlo. Tutto sembra paradossale: il pentito (o se vogliamo, l'infame) spacca con un martello le braccia all'idraulico, ma sembra che compia un'azione meritoria; dieci uomini arrivano in Francia, non in Burundi, e mettono a ferro e fuoco un paesino senza alcun problema; a un certo punto la moglie sparisce dal racconto e non si sa più che fine abbia fatto, ecc. ecc. Molto discutibile l'epilogo, un po' farragginoso, in cui il pentito parlando in prima persona trova altre giustificazioni al suo operato.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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