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16 dicembre 2024 1 16 /12 /dicembre /2024 08:16
Matteo Collura, Perdersi in manicomio, Pungitopo

Scartabellando tra alcuni libri che raccontano della trasformazione della assistenza psichiatrica a partire dalle esperienze di Basaglia e di altri pionieri sino alla promulgazione della legge 180 del 1978 e al progressivo smantellamento degli ospedali psichiatrici, mi sono imbattuto in un volume che non ricordavo affatto.
Si tratta di una testimonianza, corredata anche di una impressionante documentazione fotografica, sulla sopravvivenza per un lungo periodo di tempo dopo la 180, dell'Ospedale Psichiatrico di Agrigento, venuto all'attenzione della cronaca nei primi anni Novanta per via di una epidemia di TBC tra alcuni dei suoi degenti cronici.
Sembra che l'Ospedale psichiatrico di Agrigento sia rimasto per lungo tempo a sopravvivere come in un'isola anacronistica fuori dal flusso temporale.
Il volume di Matteo Collura è intitolato "Perdersi in manicomio", ed è stato pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Pungitopo (collana La Parola e l’immagine), corredato con le foto di Lillo Rizzo e Tano Siracusa ed con una postfazione di Armando Bauleo, uno dei riconosciuti fondatori della psicoterapia gruppale in Argentina.

La pagina scritta in questo libro ruota essenzialmente attorno alle foto scattate da Lillo Rizzo e da Tano Siracusa all’interno del manicomio di Agrigento, nel 1993, a distanza dunque di 15 anni dall’entrata in vigore della legge 180 del 1978.
Una sostanziale lentezza nel rendere fattiva e operante quella legge, ma anche l’ignavia e la colpevole negligenza dei vari amministratori che vi si sono succeduti nel tempo, ha fatto sì che si mantenessero per anni gli aspetti più deteriori della manicomialità.
Le foto contenute in questo piccolo libro, aspre e crudissime, riportano immediatamente alle immagini di “Morire di classe” con le foto di Berengo Gardin e Carla Cerati, scattate a Gorizia e a Colorno (Parma) quando già la rivoluzione basagliana muoveva i primi passi.

L’Ospedale di Agrigento, divenuto forse il più grande della Sicilia quanto a numero di degenti, venne alla ribalta della cronaca nel 1993 quando vennero denunciate pubblicamente dal partito radicale  (e anche Domenico Modugno espresse delle critiche molto dure) le condizioni in cui vivevano gli internati in assenza dell’attivazione di un percorso di affrancamento e di restituzione alla società, con una serie di morti dimenticati (oltre duecento degenti in undici anni dal 1977 al 1988 vi morirono per una vera e propria epidemia di TBC).
L’ospedale agrigentino che, nelle pagine della cronaca, venne definito un “manicomio-lager” chiuse definitivamente nel 1996. 
Oggi quella struttura è sede della ASP agrigentina e del Dipartimento di salute mentale.

(soglie del testo) Una drammatica testimonianza sulla follia umana di quanti si dicono «sani» e di quanti sono giudicati malati. Dal «caso Agrigento», una finestra sulla condizione del malato di follia, su una solitudine terribile, su un enorme vuoto dl relazioni, su una specie di desolata allegoria del nulla. 
«Forse non abbiamo neppure fotografato i "folli", ma soltanto degli uomini e delle donne che si sono perduti in un ex manicomio».

L'autore. Matteo Collura è nato ad Agrigento nel 1945. Autore del bestseller Sicilia sconosciuta (Rizzoli 1984, 1997) e della versione teatrale del romanzo si Sciascia Todo modo, scrive articoli di cultura per il Corriere della Sera e vive a Milano

La facciata del corpo principale dell'Ospedale psichiatrico di agrigento

L’Ospedale Psichiatrico di Agrigento. Un po' di storia

L’Ospedale Psichiatrico di Agrigento fu costruito tra il 1926 ed il 1931 sull’estremità orientale della collina detta della “Rupe Atenea” nell’ex feudo San Biagio, in una zona prevalentemente rocciosa
L’intera struttura manicomiale si componeva di tre corpi centrali posti su tre livelli e di dieci padiglioni sempre posti su tre livelli.
Il primo corpo era situato al centro del primo livello sul viale centrale e qui si trovavano ubicati la Direzione Sanitaria, la Segreteria, la Biblioteca, la Farmacia, i laboratori d’analisi cliniche, anatomia microscopica, l'ambulatorio di terapia fisica e ionoforesi, marconiterapia, ultrasuono, diagnostica radiologica, settore
ammodernato nel 1960 con un complesso di psicodiagnostica. In questo livello si trovavano anche l’alloggio dei medici e il cinema-teatro con 150 posti a sedere.
Il Secondo Corpo, al centro del secondo livello, ospitava la Direzione Amministrativa, l’Economato, l’alloggio
dell’economo, la cucina, la dispensa, il forno, le caldaie, la calzoleria e l’alloggio delle suore appartenenti all’ordine “Figlie di Sant’Anna”, il servizio cassa e l’officina degli elettricisti, la falegnameria, i laboratori per i fabbri e calzolai, per rispondere a tutte le esigenze interne.
Nel terzo corpo al centro del terzo livello erano ubicati il guardaroba, la lavanderia, la sartoria e la sala cucito e la stireria.
Più in alto ancora, quasi al limite con il muraglione del costone nord della Rupe Atenea, sorgevano il serbatoio centrale dell’acqua potabile e una grande cabina di trasformazione elettrica.
I Padiglioni dei degenti.  A sinistra di questi palazzi, rivolgendo lo sguardo verso la montagna, si trovavano i reparti maschili mentre a destra si trovavano i reparti femminili sempre in numero di cinque, disposti simmetricamente a seconda della destinazione.
La I sezione, anche chiamata Reparto Osservazione, era destinata agli ammalati primi ammessi da sottoporre per legge a 15 giorni di osservazione prolungabili a 30, prima della destinazione ai reparti.
La II sezione era riservata agli ammalati con diagnosi di malattia mentale ma bisognosi di ulteriori terapie intensive; qui trovavano posto anche gli ammalati “calmi”, bisognosi di terapie generali, ricostituenti o in attesa di essere affidati alla famiglia.
La III sezione era destinata agli “incurabili”, agitati permanenti aggressivi, suicidi, coprofagi, dementi irrecuperabili e cronici. Il reparto era comunemente chiamato la “Fossa dei Serpenti”.


[NB - In questo padiglione è stata allestita la mostra “C’era una volta il manicomio” ed è visitabile il rifugio antiaereo scavato nel tufo dai degenti, fissando un appuntamento]

Nella IV sezione era un settore di altissima vigilanza dove trovavano posto gli epilettici, parafrenici, schizofrenici o detenuti in osservazione psichiatrica, questi prevalentemente nella sezione uomini, si ha ricordo soltanto di una donna detenuta in osservazione psichiatrica.
La V sezione era occupata dai malati tranquilli piuttosto paranoici, non laceratori, affetti soprattutto da ansia e depressione.
Nel settore orientale si trovavano altri tre isolati: La Chiesa, la camera mortuaria dove venivano praticate le autopsie, e una altro reparto dalla capienza di dieci posti che originariamente fu di isolamento il cosiddetto “Reparto Infettivi” fu chiuso dopo la scoperta dell’antibiotico e i malati furono trasferiti in strutture
ospedaliere specializzate.
La zona più a sud dell’odierna Casa della Speranza, oggi occupata dall’orto botanico, era denominata zona Agricola, un podere esteso centinaia di ettari e il con un ricco frutteto, mandorleto, orto e numerosi animali che permettevano all’intero Ospedale Psichiatrico di rendersi per buona parte autosufficiente nel fabbisogno alimentale
Chiesa di Sant’Antonio. La chiesa di Sant’Antonio, seppur nelle sue piccole dimensioni, è costituita da tre navate con arcate gotiche, dello stesso stile sono le quattordici finestre, per cui all’interno si può godere di una penombra che facilita il raccoglimento e la percezione del soprannaturale tipico dello stesso stile gotico che sembra spingere lo spirito verso l’alto.
Fu progettata dall’architetto Donato Mendolia.
Originariamente la Cappella fu dedicata al “Sacro Cuore di Gesù”
La capienza della chiesetta è di circa 150 persone ed è dotata di un prestigioso organo elettronico “Mascioni” del 1958.

[Ricerca storica e testi curata dal Dr. Giorgio Patti e dalla Dr.ssa Chiara Minuta]

Franco Basaglia, Morire di classe, Nuova edizione per Il Saggiatore

Franco e Franca Basaglia (a cura di), Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, Il Saggiatore, 

Morire di classe (1969) da tempo non era più reperibile nelle librerie. Abbiamo deciso di ripubblicarlo ora, nella sua integrità, perché possa testimoniare alle nuove generazioni quale fosse la condizione dei malati mentali prima della rivoluzione di Franco Basaglia, di Franca Ongaro Basaglia e di tutte le donne e gli uomini che insieme a loro hanno operato per scardinare quel sistema. Un lavoro collettivo che ha segnato una svolta epocale nella gestione della salute mentale e ha portato all’approvazione della legge 180. (Alberta Basaglia, Luca Formenton)

Ringraziamo Elena Ceratti e Gianni Berengo Gardin per la collaborazione alla nuova edizione di questo libro «simbolo».

(da Wikipedia) Morire di classe. La condizione manicomiale fotografata da Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, pubblicato per la prima volta nel 1969, è un'opera che critica le condizioni in cui si trovavano gli ospedali psichiatrici italiani dell'epoca, pubblicato da Franco Basaglia e Franca Ongaro Basaglia con fotografie in bianco e nero di Carla Cerati e Gianni Berengo Gardin, una introduzione dei Basaglia e vari altri testi.

Contesto. Negli anni sessanta lo psichiatra Franco Basaglia era il direttore dell'ospedale psichiatrico di Gorizia. Anche se lo avrebbe dovuto gestire secondo i criteri tradizionali, simili a un carcere, Basaglia, sua moglie Franca Ongaro e il loro gruppo invece ridussero la contenzione dei pazienti, tanto che nel 1967 furono rimossi i lucchetti da tutti i reparti, in linea con gli ideali della psichiatria democratica. Basaglia ne scrisse in un libro molto famoso pubblicato nel 1968, L'istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico; e i cambiamenti da lui apportati furono meglio conosciuti grazie al documentario televisivo, I giardini di Abele, realizzato da Sergio Zavoli nel 1968 e trasmesso per la prima volta nel 1969.

Fotografia. Come riferisce il fotografo Gianni Berengo Gardin, nel 1968 Franco Basaglia chiese alla fotografa Carla Cerati di documentare per una rivista le condizioni nei manicomi italiani. A disagio per l'incarico, Cerati chiese a Berengo Gardin di accompagnarla; lui accettò a condizione che fosse permesso anche a lui di scattare fotografie, e in seguito convinse Basaglia a realizzare un libro. Nel resoconto dello storico John Foot non è menzionata nessuna rivista, e uno dei primi progetti del libro prevedeva fotografie di entrambi gli autori, Cerati e Berengo Gardin, ambedue già conosciuti da Basaglia.

Cerati e Berengo Gardin realizzarono i loro scatti in quattro ospedali: a Gorizia (il manicomio diretto da Basaglia), Colorno (vicino a Parma), Firenze e Ferrara. Il grado di libertà dei due fotografi variava notevolmente: fu permesso loro di visitare il manicomio di Firenze soltanto una volta (dove non furono bene accolti dalla direzione), ma erano molto più liberi di lavorare a Gorizia.

La loro fotografia era soggetta ad altri vincoli. Anche se Berengo Gardin aveva fotografato incontri tra pazienti a Gorizia, e scene in cui era presente Basaglia, queste ultime furono omesse dal libro: Basaglia voleva evitare l'impressione del paternalismo e Foot fa notare che le foto di Gorizia non rispecchiavano la situazione dell'epoca (insolitamente libera per i tempi) e si limitano a descrivere il suo passato repressivo.

Prima della pubblicazione del libro, e con l'appoggio del politico Mario Tommasini, fu organizzata a Parma una mostra intitolata La violenza istituzionalizzata (e più tardi fu spostata a Firenze); questa fu la prima occasione in cui furono esposte al pubblico molte delle fotografie che più tardi sarebbero apparse in Morire di classe.

Alcune immagini del libro sono state utilizzate anche nel film I giardini di Abele e Nei giardini della mente, per altri libri e volantini.

Testi. Il libro contiene un'introduzione scritta dai Basaglia, inoltre testi di Erving Goffman, Michel Foucault, Paul Nizan, Luigi Pirandello, Primo Levi, Louis Le Guillant e Lucien Bonnafé, Jonathan Swift, Rainer Maria Rilke, Frantz Fanon, Peter Weiss e altri.

John Foot fa notare nel suo saggio sulla storia della psichiatria radicale in Italia  che sia l'introduzione sia il testo fanno uso della nozione dell'istituzione totale, creata da Goffman o da lui resa famosa, nozione importante nel libro di Goffman (pubblicato nel 1961) Asylums, la cui traduzione italiana era stata pubblicata nel 1968. Il manicomio era totalitario (Goffman e Foucault), "colonizzava" i pazienti (Fanon), o li riduceva alla condizione di uomini "vuoti" dei campi di concentramento (Levi).

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

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