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La pietra della follia di Benjamín Labatut (nella traduzione di Lisa Topi), publicato da Adelphi (collana Microgrammi) nel 2021, è il primo libro di Labatut che mi sono ritrovato a leggere e credo che, nell'approccio con quest'autore, sia stato un buon inizio: un testo semplice e agile, ma ciò nondimeno profondo, come del resto sono tutti i volumi della piccola collana Adelphi in cui è stato inserito, Microgrammi.
Labatut prende in esame il tema della follia in due brevi capitoli.
Nel primo che è titolato “L’estrazione della pietra della follia” mette assieme H. P. Lovecraft “il solitario di Providence”, il matematico David Hilbert con il suo progetto di dare una spiegazione matematica a tutto l’universo della matematica e il visionario scrittore di SF P. K. Dick con la sua ossessiva ricerca - nei suoi romanzi - d'un universo che non può mai essere conosciuto sino in fondo, poiché in esso è impossibile capire se ciò che guardiamo sia reale o soltanto un simulacro ingannevole.
Nel secondo capitolo, intitolato “La cura della follia”, Labatut ritorna sul tema della follia, prendendo spunto da un caso paradossale nel quale egli stesso s’è imbattuto, quando venne contattato da una lettrice sostenente un punto di vista secondo cui lei fosse stata più volte derubata dei suoi scritti che erano poi stati utilizzati da altri scrittori, incluso lo stesso Labatut. Alla prima mail di questo tenore ne avevano fatto seguito altre in un fitto scambio, sino ad un’improvvisa fine delle comunicazioni.
Ed è a questo punto che l’autore introduce nel testo un’analisi accurata del dipinto di Bosch “L'estrazione della pietra della follia”, concludendo così le sue riflessioni “…in queste faccende, non c’è modo di sapere chi sia il chirurgo, chi il frate, chi il paziente, chi la monaca e chi di noi rechi in sé la pietra della follia” (p. 77)
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(Soglie del testo) Come e quando gli incubi di Lovecraft, le visioni di Philip K. Dick e l'inquietante matematica di Hilbert - sciolti nell'inferno che chiamiamo Rete - abbiano finito per diventare qualcosa che assomiglia al nostro mondo. O peggio, che lo è.
(quarta di copertina) “…il prezzo che paghiamo per la conoscenza è la perdita della nostra capacità di comprensione”
L’autore. Benjamín Labatut è uno scrittore cileno nato a Rotterdam nel 1980. Ha trascorso la sua infanzia tra L'Aia, Buenos Aires e Lima, per poi trasferirsi a Santiago del Cile all'età di quattordici anni.
Il suo primo libro di racconti, “La Antártica empieza aquí”, ha vinto il Premio Caza de Letras nel 2009 e il Santiago Municipal Literature Award – nella sezione racconti – nel 2013. A questo libro sono seguiti “Después de la luz” (Quando abbiamo smesso di capire il mondo, Adelphi, 2021), nominato per l'International Booker Prize 2021 e “Maniac” (Adelphi, 2023
Segue un video nel corso del quale, in una presentazione a distanza, lo stesso autore, spiega l'origine di questo piccolo libro e il suo significato (la presentazione è a cura di Davive Coppo)
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(da Wikipedia) L'Estrazione della pietra della follia, noto anche come Cura della follia, è un dipinto a olio su tavola (48x35 cm) di Hieronymus Bosch, databile al 1494 circa e conservato nel Museo del Prado di Madrid.
L'opera, secondo una ricostruzione di Charles de Tolnay, è forse quel tondo che si trova menzionato in un inventario del 1524 come di proprietà del vescovo di Utrecht, Filippo di Borgogna, e situato nella sala da pranzo del castello di Duurstede. Presumibilmente dovette essere poi acquistato da don Felipe de Guevara che poi lo cedette a Filippo II di Spagna nel 1570. Negli inventari successivi alla morte del sovrano però l'opera non è più identificabile (si parla di un tondo a tempera e di dimensioni diverse), per cui altri hanno invece sostenuto che l'opera in questione provenga dalla Quinta del Duque del Arco, dove sarebbe citata in un inventario del 1794.
La critica tendeva a riconoscervi un'opera della fase giovanile, verso il 1480, ma l'analisi dendrocronologica ha spostato la datazione della tavola a dopo il 1494. Ciò ha confermato l'ipotesi di Vermet, che vi aveva scorto la grande modernità del paesaggio.
L'opera mostra un soggetto tratto da una storiella popolare, secondo cui un credulone si fa convincere da un ciarlatano a farsi togliere dalla testa la "pietra della follia", ovvero la stoltezza. Ciò è chiarito dall'iscrizione che, con eleganti arabeschi, corre attorno al tondo: "Meester snyt die Keye ras / Myne name is lubbert das", cioè "Maestro cava fuori le pietre, il mio nome è 'bassotto castrato'". Il nome è un sinonimo di sempliciotto, quindi della persona che si fa ingannare.
Al raggiro del ciarlatano, che sta tagliando con un bisturi la fronte dell'uomo per estrarne un fiorellino, assistono senza intervenire un monaco e una suora, uno con un boccale argenteo in mano, l'altra con un libro sulla testa.
Il motivo del raggiro degli sciocchi è un tema caro nell'opera di Bosch e secondo la sua visione rappresentava una grave colpa tanto per l'ingannatore quanto per l'ingannato, reo della sua stupidaggine.
In questa opera, il chirurgo intento all'estrazione indossa un copricapo a forma di imbuto simbolo di stupidità, qui usato come pesante critica mossa contro chi crede di sapere ma che, alla fine, è più ignorante di colui che deve curare dalla «follia».
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