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7 settembre 2019 6 07 /09 /settembre /2019 09:24
Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare (Buddha in the Attic), Bollati Boringhieri, 2011

Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka  (The Buddha in the Attic, nella traduzione di Silvia Pareschi), pubblicato da Bollati Boringheri (Collana Varianti), nel 2011, si presenta come un'opera al crocevia: infatti, è nello stesso tempo, racconto di un'epopea per bocca degli stessi protagonisti e documento storico ineguagliabile.
Il titolo italiano, a differenza di quello in lingua originale - sicuramente più enigmatico -, statuisce tre elementi fondanti: il primo che si tratta di una storia corale, raccontata da più voci, il secondo che le voci narranti sono femminili e il terzo che, come momento fondante del racconto, vi è una traversata del mare (o dell'oceano) e dei suoi effetti.
A quale racconto ha messo mano dunque Julie Otsuka, cittadina statunitense, ma di origini nipponiche?
Oggetto del suo interesse è stata la grande epopea dell'emigrazione giapponese negli Stati Uniti, costituita da due tipologie diverse di migranti. Un gruppo più cospicuo di uomini che desideravano trovare dei lavori che consentissero (e alle proprie famiglie) di uscire da una condizione economica di pura sussistenza, dato che alla svolta del XIX secolo tutto in Giappone era bloccato ad uno stato a dir poco medievale (in virtù della radicale opposizione dell'Imperatore giapponese ad una qualsivoglia apertura alle innovazioni tecnologiche e alla liberalizzazione del commercio). L'altro gruppo, invece, era costituito da giovani uomini istruiti che desideravano avere l'opportunità di studiare ulteriormente e di apprendere il know-how delle innovazioni tecnologiche, base della crescita di uno stato moderno.
I Giapponesi che arrivavano dal Paese del Sol Levante presero ad insediarsi nella California, prevalentemente e negli Stati più a Nord, alcuni (molti) divennero braccianti agricoli, altri trovarono impiego nelle attività peschiere, altri ancora furono impiegati in attività di bassa manovalanza.
Erano operosi ed industriosi e, come i frugali Cinesi che avevano contribuito alcuni decenni prima alla costruzione della linea ferrata che collegava la costa ovest con gli Stati dell'Est, si accontentavano di paghe modeste.
Quando questo primo nucleo di migranti si fu stabilizzato sufficientemente, ci fu un'intensa ondata migratoria di donne giapponesi che vennero sposate in molti casi per procura, per facilitarne l'ingresso negli Stati Uniti.
E fu così che i migranti single si accasarono e costituirono delle famiglie. Costoro si autodenominarono Issei, cioè Giapponesi della prima generazione, mentre i nati sul suolo straniero vennero denominati Nisei (l'immigrazione giapponese vide anche negli stessi anni altre destinazioni, come il Canada nel Nord America, il Perù, l'Argentina e il Brasile ed ebbe analoghi sviluppi socio-culturali, con delle peculiarità uniche ed originali rispetto a movimenti migratori di altra origine).
La comunità giapponese negli Stati Uniti crebbe e prosperò: dai primi migranti presto raggiunte dalle mogli per procura nacquero e crebbero i figli e cominciò un lento processo d'integrazione che negli USA, tuttavia, venne bruscamente interrotto dal proditorio attacco giapponese contro Pearl Harbour. Di colpo i Giapponesi Issei  - a differenza dei rappresentanti delle comunità italiane e tedesche - vennero considerati potenziali nemici, cittadini inaffidabili, autori di trame segrete, agenti sotto copertura pronti a favorire sbarchi giapponesi sulle coste americane: insomma, furono oggetto di un rigurgito fortemente razzista e violentemente discriminatorio.
Rapidamente, in un crescendo, si passò da attività poliziesche mirate a singoli individui a restrizioni di massa che sfociarono nella deportazione collettiva di tutti gli Issei e dei Nisei, uomini, donne, vecchi e bambini, in campi di concentramento appositamente allestiti, ben lontani dalle originarie zone di residenza, e ciò a scapito del fatto che i Giapponesi si dichiarassero fedeli alla costituzione americana e che alcuni dei più giovani avessero chiesto di prestare servizio nelle forze armate di cielo, di terra e di mare.
Fu questo un capitolo oscuro nella storia degli Stati Uniti su cui gli Americani, dopo la fine del conflitto mondiale stesero un velo di silenzio, prima che si iniziassero delle attività di chiarificazione.
Gli stessi concittadini statunitensi non seppero granchè di quanto era successo: furono solo testimoni dell'improvvisa scomparsa quasi dall'oggi al domani di tutte le comunità giapponesi dal tessuto sociale, con l'abbandono di case, terre coltivati ed altri bene che in taluni casi vennero razziate dai soliti profittatori.
Alla fine della guerra i giapponesi vennero liberati e poterono ritornare alle loro attività, ma senza alcun risarcimento per ciò che avevano perso:  rimase per molto tempo un'insanabile ferita che creò un arresto significativo nel processo di crescita della comunità nippo-americana.
Il libro della Otsuka narra tutto questo, visto dagli occhi delle donne: e si tratta di un coro di voci collettive che finiscono con il diventare una voce sola, potente ed epica.
Capitolo per capitolo i momenti di un'epopea ci sono tutti: dal trepidante viaggio per mare, all'incontro - a volte deludente - con i mariti promessi, al confronto con una vita faticosa, a volte fatta di stenti e di umiliazioni, alla sessualità, all'arrivo dei figli e alla loro crescita con l'avvio di un'importante fase di integrazione, all'accendersi di relazione miste - spesso segrete - con i "bianchi", alle difficoltà di integrazione linguistica, all'accettazione di usi e costumi tanto differenti rispetto all'arcaica società che avevano lasciato alle spalle. Sino allo scoppio della guerra e all'avanzarsi imperioso di un periodo di incertezze tra voci mormorate, dicerie, in attesa del peggio. E, alla fine, la loro scomparsa sociale (quasi una cancellazione della loro presenza sino al giorno prima), con il loro "grande" internamento nei campi di concentramento.
Qui, non c'è più racconto, nel senso che il lettore non viene accompagnato sino ai campi di concentramente per Issei e Nissei: le voci delle donne si eclissano e rimane soltanto quella - malinconica e accorata - dell'assenza e dell'improvviso mancare al contesto sociale dell'intera comunità giapponese. La voce corale è soppiantata da quella degli "altri", ciascuno dei quali con motivazioni diverse constata l'assenza dei giapponesi, e si tratta di un amico, di un compagno di scuola, del vicino di casa, di un cliente del negozio di ortofrutta e così via.
Quella di Julie Otsaka è una narrazione potente e memorabile che, tra le altre cose, attraverso l'espediente narrativo di dar voce alle donne, getta una documentata luce di conoscenza - in maniera più efficace di qualsiasi saggio - di un fenomento migratorio e di un capitolo ancora poco conosciuto della storia USA contemporanea.
Ed è anche un tributo importante su di una questione ancora controversa e sulla quale solo dopo cinquant'anni dopo hanno lavorato delle commissioni d'inchiesta, espressamente costituite, le quali tutte arrivarono alla conclusione che da parte dei rappresentanti delle comunità NIssei vi erano state allo scoppio della guerra ben poche prove di slealtà nei confronti del governo americano, se non addirittura nessuna.
Giusto per completezza, ai tempi della Presidenza Ford, ai sopravissuti dall'internamento e ai loro discendenti venne riconosciuto un risarcimento nominale di $20.000 per il danno morale subito .
Un unico film ebbe il coraggio di esplorare questo tema spinoso e fu Benvenuti in Paradiso di Alan Parker (1990).

(dal risguardo di copertina)  Una voce forte, corale e ipnotica racconta dunque la vita straordinaria di queste donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l'oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l'arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l'esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l'attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici.
Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall'autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua. Un altro scrittore avrebbe impiegato centinaia di pagine per raccontare le peripezie di un intero popolo di immigrati, avrebbe sprecato torrenti di parole per dire cos'è il razzismo. Julie Otsuka ci riesce con queste essenziali, preziose pagine.

Julie Otsuka

 

Sull'Autrice. Julie Otsuka, nata a Palo Alto, in California nel 1962, vive e lavora tra New York e San Francisco.
Dopo la laurea con Bachelor of Arts all'Università Yale si è specializzata alla Columbia University, ottenendo un Master of Fine Arts.
Pittrice, esordisce nella narrativa nel 2002 con il romanzo storico Quando l'imperatore era un dio rigurdante l'internamento dei giapponesi negli Stati Uniti.
Con il secondo romanzo, Venivamo tutte per mare, sul tema delle donne giapponesi mandate in spose in America a connazionali sconosciuti, ottieneha ottenuto numerosi riconoscimenti quali il PEN/Faulkner per la narrativa e il Prix Femina Étranger.

 

Julie Otsuka, Quando l'imperatore era un dio, Bollati Boringhieri

Il seguito ideale di "Venivamo tutte per mare" è "Quando l'imperatore era un dio" che invece racconta neldettaglio, in forma semi-romanzata gli anni della detenzione dei giapponesi americani nei campi di concentramento durante gli anni del conflitto, vista attraverso le voci narranti di un unico gruppo familiare, ma sempre presente nello sfondo una grande coralità..
E' una storia dolorosa che ha lasciato segni che solo il tempo e l'aggiungersi di nuove generazioni a quelle che patirono la vergogna di essere rinchiusi nei campi  di concentramento hanno potuto lenire.
Le scuse ufficiali dell'Amministrazione USA alle comunità giapponesi sono arrivate soltanto con il Presidente Barak Obama.
Per quanto tardivamente sono arrivate.
E' una storia esemplare che, malgrado la distanza nel tempo e nello spazio ci riguarda e sulla quale tutti dovrebbero riflettere.



(Risguardo) "Quando l'imperatore era un dio" racconta un'altra pagina poco conosciuta della storia americana: l'internamento dei cittadini di origine giapponese nei campi di lavoro dello Utah, in seguito all'attacco di Pearl Harbour. Un tranquillo padre di famiglia arrestato nel cuore della notte; sua moglie, i suoi bambini costretti a un viaggio verso l'ignoto. Una storia emblematica del destino di chi divenne invisibile per tutta la durata della guerra.

Julie Otsuka, Quando l'imperatore era un dio (nella traduzione di ), Bollati Boringhieri, Collana Piccole Varianti, 2014

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Come sono arrivato qui

DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

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