Quell’esperienza rimase per me come il modello archetipico del viaggio
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Mio padre viaggiava spessissimo già quando ero piccolo
Per via delle sue attività giornalistiche andava molto frequentemente a Roma Erano i suoi viaggi brevi, nervosi, andare e tornare senza ozi
Negli anni ‘50 si viaggiava ancora molto in treno forse
Ancora non esisteva nemmeno l’aeroporto di Punta Raisi che venne costruito in epoca più recente e c’era un traffico di voli di linea molto limitato sull’aeroporto di Boccadifalco, con piccoli aereomobili, semplici bimotori ad elica
Quindi, il mezzo elettivo per viaggiare era il treno
Mio padre andava a Roma a seguire spesso lavori parlamentari o per prendere contatti importanti per il suo lavoro giornalistico
Una volta disse a mia madre che mi avrebbe portato con sé nel suo prossimo viaggio
Io ero molto piccolo - potevo avere forse 10 o 11 anni al massimo
Fui molto inorgoglito (ed eccitato) da questa idea di papà e non stavo più nella pelle
Venne il momento della partenza e io salutai pieno di emozione la mamma che rimase in banchina a sventolare la mano in segno di saluto mentre ai miei occhi si andava facendo sempre più piccola
Allora, viaggiando in treno, c’era il momento del passaggio dello stretto
Quella fu per me una prima volta in assoluto
Si usava allora - come poi ho fatto decine di altre volte nella mia vita di adulto - scendere dalla carrozza, che era stata appena imbarcata sul traghetto, sul ponte della nave per andare al bar a consumare qualche cosa (era un rito mangiare le arancine con carne di cui lì era in mostra una bella scorta) e poi affacciarsi all’esterno per osservare con emozione la costa siciliana che si allontanava e quella calabrese che farsi sempre più vicina.
In quella mia prima esperienza ci fu il seme di tutte quelle, successive, dell’attraversamento dello stretto sia in andata sia in ritorno e sempre mi ritrovai a sperimentare le stesse emozioni di quella prima volta in cui ebbi in modo netto la percezione della nostra insularità
Seguendo dunque il copione (quello che per molti era un rituale irrinunciabile) salimmo con papà sul ponte del traghetto, poiché lui voleva portarmi fuori ad ammirare il panorama (ma anche a farmi prendere consapevolezza - a toccar con mano - dell’insularità della Sicilia che ci stavamo lasciando alle spalle).
Però prima venne intercettato da alcuni conoscenti e si fermò ad parlare con loro, forse suoi colleghi, per un tempo che a me sembrò interminabile.
Io fremevo per l’eccitazione.
Avrei voluto uscire al più presto per guardare fuori.
Però papà s’era immerso in una fitta conversazione con i suoi colleghi - o forse persone importanti, pensa io così piccolo come ero - e quindi io ero là che guardavo dal basso in alto questa conversazione che andava avanti apparentemente infinita, un parlare di cui non capivo un bel niente
Fu allora che provai ad interferire e tirai papà per i pantaloni con insistenza e lui mi guardò di rimando con uno sguardo duro che mi intimorì, come a dirmi “Stai al tuo posto, non interferire mentre parlo di cose di lavoro!”
Rimasi come paralizzato.
E rimasi ad aspettare senza dire altro.
Questa cosa mi è rimasta profondamente impressa in tutti gli anni successivi.
Mi viene sempre in mente quando Gabriel piccolino interferisce in una telefonata che ricevo - “importante” o di lavoro - che cerco di portare avanti mentre lui è presente.
Invariabilmente, in queste situazioni, anche adesso che lui è decente Gabriel manifesta degli improvvisi bisogni, sente l’urgenza di dire qualche cosa di importante o di chiedermi qualche cosa. Quando era più piccolo, presi l'abitudine di non rispondere nemmeno e di rimandare le mie telefonate ad altro momento.
Ogni volta che questo succede la mia mente torna a quell’episodio con papà, alla sua severità e al suo bisogno di dover tenere separati le sfere tra ciò che era la sua attività di lavoro la sua funzione di genitore.
Ieri, ho provato a raccontare a Gabriel questa piccola storia del mio passato, proprio dopo che aveva interferito in una mia telefonata…
Ma tornando a quel viaggio con papà, la cosa strana è non ne ricordo molti altri dettagli.
Questo episodio è quello che si staglia in maniera prepotente e che esce fuori da una nebbia indistinta, assieme alle impressioni del treno che sbuffando si allontana dalla banchina della stazione e la figura della mamma che si fa sempre più piccola, mentre ci saluta:
forse in questa immagine c'è l'archetipo di tutte le mie partenze successive che il più delle volte, avvenivano senza accompagnamento da parte di parenti stretti, familiari e amici.
Il più delle volte, da solo partivo e da solo ritornavo, bevendo sino all'ultima goccia il calice del viaggio.
Di quel viaggio con papà, ricordo un altra cosa e fu il fatto che mi portò a visitare il per me "mitico" negozio di giocattoli che, nei suoi viaggi frequenti visitava sempre, per portarmi ogni volta soldatini e modellini di automezzi militari. Il negozio, se non ricordo male, si chiamava Gulliver (adesso non ne ne trovo traccia, facendo una ricerca veloce su internet) ed era non lontano dall'albergo in cui mio padre scendeva e che era in pieno centro, a poca distanza dalla piazza dove campeggiava solenne la Colonna Traiana e dunque non distante dai luoghi topici per le sue attività giornalistiche e per i suoi incontri.
Mi parlava di questo negozio come di una vera e propria caverna delle meraviglie ed io morivo dal desiderio di visitarlo: quella volta fui accontentato.
Anche da grande, ormai autonomo nei miei spostamenti, ci tornai a comprare soldatini da collezione.
Non so se esista ancora.
Del resto di quel soggiorno, non ricordo granché - come ho detto.
Sicuramente, passavo diverse ore in albergo (ero abbastanza grande da stare da solo in camera, ma non tanto da andarmene in giro da solo), mentre lui sbrigava le sue cose.
Poi, al termine di quei due o tre giorni (nemmeno ricordo l'esatta durata del viaggio), risalimmo sul treno per tornare indietro in Sicilia,
E fu tutto.
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