Andando via da Curinga in auto, dopo alcune ore di sonno precario, a poca distanza dal paese, in corrispondenza d'un curvone panoramico, praticamente subito dopo aver passato la bella fabbrica del Santuario della Maria Santissima del Carmelo, ho notato un assembramento - non numeroso - di persone e di Carabinieri. Discutevano - poco - ma soprattutto guardavano in basso, al di là della ringhiera di ferro che delimita il marciapiedi. Poco più in là un grande bar moderno, luogo di sosta di chi è in transito lungo questa strada.
Una vista superba: un ripido pendio, ricoperto fitto da una distesa di ulivi ancora giovani.
Erba di campo e grandi cespugli di belle di notte punteggiate di fiori già parzialmente rinchiusi.
Il pendio digrada ripido e s'apre con una vista superba verso il mare di Pizzo Calabro e sulla sua spiaggia di graniglia bianca che si distende per chilometri e chlometri sino ai rilievi montuosi che annunciano altre asprezze delle Calabrie.
Grando nubi solcano il cielo spinte dalla brezza leggera e fresca. Il sole, ancora giovane dopo il sonno della notte, va e viene. Quando viene oscurato si sente freddino e viene la pelle d'oca, che arriva fastidiosa come un cattivo presagio.
Una visione pastorale, idilliaca, accentuata dalla piccola vertigine del vuoto per la ripidezza del tratto iniziale del pendio, dove tuttavia la mano alacre dell'uomo faber ha piantumato i giovani ulivi.
Ma quando ci si sporge per guardare meglio, l'idillio pastorale è rudemente spezzato dalla visione da un corpo sospeso ad un ramo d'ulivo, da cui pende con rigida immobilità quasi fosse una stuatua di cera oppure un manichino di paglia, come un tempo gli spaventepasseri, come forse dev'essere apparso il corpo di Giuda Iscariota dopo che, non reggendo al rimorso per il suo tradimento, s'appese ad un ramo di siliquastro.
Questa visione mi colpisce forte e duro, inattesa, come un pugno nello stomaco proveniente da un Cassius Clay,, lasciandomi senza fiato e stordito: orrore allo stadio, ma pure, compassione.
Vorrei scappare via: Perchè mi sono fermato, mi chiedo. Quale insana decisione! - penso.
Uno, anziano, con i capelli bianchi tagliati corti, quasi a spazzola, un paesano, viene nella mia direzione. Io sto un po' discosto dall'assembramento e non oso avvcinarmi.
Chiedo: Non è di qua?
No è forestiero! - e, toccandosi la testa con una mano con fare eloquente, aggiunge: A malatia è brutta!"
Altri commenti si aggiungono al coro, stagliandosi in maniera impressionistica dal brusio di sottofondo: "Unn'era buono di testa", "Capellone".
Uno mi si avvicina e dice "Ce ne vuole di coraggio..." senza proncunciare altre parole come consapevole che ci si trova davanti all'abisso, quando si decide di levare la mano su di sé.
Io replico: "A volte la disperazione spinge a fare cose inaudite..."
Altri fanno illazioni sul fatto che il "forestiero" fosse venuto qui a Curinga per la maratona...
Molti altri, nel mentre, vedendo l'assembramento, si fermano, parcheggiando le auto in transito e s'avvicinano quasi ci si trovasse ad uno show itinerante di grande attrazione, una specie di numero speciale di un moderno Circo Barnum degli orrori.
Uno si mette gli occhiali per vedere meglio
De adulti si avvicinano con due ragazzetti ciarlieri ed eccitati, di cui uno sicuramente appena decenne.
Io, che mi trovo al loro passaggio, indicando i due ragazzini, dico: Loro, non è il caso...
I due adulti allora li rimandano indietro e i due, privati del loro spettacolino, si lamentano e supplicano i due adulti di potere andare avanti.
Io mi sento straniato in tutto questo, guardo e non guardo e, comunque, preferisco non avvicinarmi troppo.
In vita - e pur essendo medico - non ho mai visto nè un morto ammazzato, né tanto meno suicidato, figuriamoci poi un impiccato (magari sarò stato anche fortunato... Solo una volta, durante un giro in bici, c'era un corpo senza vita riverso sull'asfalto della strada statale e un motorino buttato a terra poco discosto: era uno che era stato preso da un malore ed era crepato così, sul colpo)....
Solo nei film, ma alle immagini cruente dei film siamo abituati e, inconfronto, ora che ci penso, le scene di impiccaggione in confronto a quello che nella mia visione periferica ho visto sembra un po' posticcio e finto.
Quello che colpisce, qui, è la totale e completa immobilità di un corpo vivente sino a poco prima che ora sembra tramutato in una cosa, terreo e ed esangue nelle parti del corpo scoperte le mani e il colto: l'immobilità di un quarto di bue appeso al gancio del macellaio, la macabra finzione dell'essere vivente dello spaventapasseri, o anche il terrore che può incutere il revenant o lo zombie alla Romero.
Noto, in questa visone a rate - a piccoli pezzetti - che la sua mano è stretta su una frasca dell'ulivo a cui s'è appeso, parzialmente strappata dall'ultima convulsione. Un piede dello sconosciuto è come puntellato sul ripido pendio. La testa lievemente girata di lato sembra voler volgere lo sguardo sul lontano paesaggio marino distante. Penso che all'ultimo, mentre cercava di bere l'ultimo sorso d'aria, mentre la gola gli si faceva stretta, se non gli si è spezzato il collo prima (improbabile, perchè non c'è stata una grande caduta e s'è strangolato, lasciandosi trascinare lentamente dal peso del corpo che faceva stringere sempre di più il cavo elettrico rvestito di plastica bianca, utilizzato per fare il cappio), deve avere avuto un ripensamento e che abbia cercato, in un ultimo - tardivo - empito, di fare marcia indietro. Chi può saperlo? Ma indubbiamente, salvo che non accadano catastrofi interiori, l'attaccamento alla vita è sempre molto forte e l'istinto di sopravvivenza tende a prevalere.
Intanto, circolano altre voci che - come in precedenza - mi arrivano a frammenti.
Un carabinere s'è calato giù nella scarpata e gli ha trovato indosso una Carta d'identità, nuova fiammante, plasticata. Ora, come novità, dicono che il giovane sia di Messina. Cosa era venuto a fare qua? Ma ancora: al bar di fronte lo hanno visto alle prime luci del giorno. Qui, avrebbe preso un caffé e acquistato delle sigarette, ma anche chiamato un taxi per andar via. Infatti, poco dopo, quel taxi è arrivato e il suo guidatore cercava il cliente che lo aveva chiamato, senza trovarlo perchè era sparito repentinamente, poichè di botto aveva preso un'altra decisione.
Le cose saranno andate veramente così? Mah! Difficile poterlo dire.
I giallisti ci insegnano che ciò che appare, di rado, è ciò che veramente accaduto. A partire da questo spunto e dal macabro rinvenimento, sicuramente Camilleri ci potrebbe scrivere una bella storia...
Poi, si è sentita in lontananza una sirena. Era l'ambulanza a cui sarebbe spettato il triste compito di caricare il cadavere, dopo i rilievi della polizia scientifica che pure stava per arrivare.
E quella sirena che lacerava l'aria ha rappresentato l'ingresso, sulla scena, dell'ufficialità e delle formalità della legge. Infatti, quasi in concomitanza, arriva anche il magistrato di turno e, a questo punto, i Carabinieri - dandosi ua smossa - delimitano la scena ad ampio raggio con la stringa segnaletica bianco-rossa, esortando ruvidamente la gente ad allontanarsi e disperdendo i capanelli: "Voi qui non ci potete più stare. Allontanatevi"! (che suonava implicitamente: "Andate via! La festa dello sguardo morboso è finita. Accontentatevi di quello che vi abbiamo già concesso").
Sono andato via e ho ripreso il mio viaggio, ma quest'evento di cui ero stato testimone (vedendone solo l'effetto, senza conoscere le cause e i percorsi, e potendoli solo immaginare), mi è rimasto impresso con un effetto decisamente perturbante.
L'immagine di quel corpo immoto, quella zazzera di capelli castani che il cavo, tendendosi, aveva leggermente sollevato, lasciando scoperta una parte della nuca con il suo biancore, la mano aggrappata al ramo dell'ulivo, ritornava di continuo, anche perchè il tipo indossava una T-Shirt dello stesso identico colore di quella che avevo indosso, sotto la felpa: un colore insolito che avevo scelto appositamente, proprio perchè inusuale, nell'accettare l'omaggio di una maglietta dell'evento di corsa di Curinga del giorno prima.
La compassione nasce appunto dal fatto che ci sono degli elementi che ci consentono di identificarci con il nostro prossimo, trovando anche lievi e casuali agganci con il mondo esprienziale dell'altro, ma il rinvenimento di questi casuali punti di repere a volte può anche dar luogo ad un effetto perturbante: quello di fantasmi che ritornano a fare incursioni nella tua mente, gettandovi il seme dell'inquietudine.
Nei giorni successivi, ho fatto delle ricerche in internet, mettendo nel motore di ricerca combinazioni di parole del tipo: "Suicida a Curinga", oppure "Giovane s'impicca a Curinga". Eppure, non ho trovato nulla: niente di niente.
Tutto quello che ho visto, senza la convalida del corrispettivo d'una notizia circolante in rete, è rimasto così relegato al ricordo, scivolando in una dimensione onirica.
Mi interrogo se tutte le cose che ho descritto prima, io le abbia veramente viste, oppure se non le abbia semplicemente sognate o immaginate: a volte, questo scivolamento d'una cosa reale in una dimensione di sogno è anche un meccanismo di difesa che la mente mette in atto per distanziarsi da qualcosa che, se riconosciuta reale, sarebbe troppo forte da accettare e da elaborare.
Non posso non pensare all'immagine di questo sconosciuto che, nei suoi ultimi istanti, cerca di risucchiare l'ultimo sorso di aria nei polmoni, mentre la morsa del cappio gli si stringe sul collo e, intanto, la sua mano afferra convulsamente la frasca dell'ulivo e un piede si puntella a terra, per cercare di allentare la stretta implacabile del nodo.
Il trapasso, anche quando in un momento di disperazione lo si è cercato, è sempre una faccenda dura e penosa. "Tutti morimmo a stento" è la canzone di Fabrizio de André, ispirata alla Ballata degli Impiccati di François Villon.
Si muore sempre "a stento", se non si è pace con se stessi, lottando e imprecando e maledicendo: anche se la morte ricercata - ancora di più quella attuata con il lancio nel vuoto - può racchiudere in sé il progetto (per quanto folle) di una vita rinnovata o nuova del tutto.
Magari l'impiccato di Curinga, che non ha trovato pace nella vita che gli era stata data - mi viene da pensare adesso - avrà una migliore chance in una prossima esistenza, quando la sua anima, dopo aver girovagato inquieta nei luoghi della dipartita, risorgerà in un altro tempo e in un altro spazio.
Al riguardo, è singolare che la dodicesima carta degli arcani maggiori dei tarocchi, detta L'Appeso o L'Impiccato, o, nei mazzi più antichi, Il Traditore, abbia dei significati che sembrano avvicinarsi più alla vita che non alla morte. Sebbene la carta descriva un supplizio, il giovane appeso (a testa in giù nei tarocchi francesi, mentre in quelli siciliani è appeso per la testa) viene tradizionalmente raffigurato con un volto sereno, in preda all'estasi più che al dolore o all'umiliazione. In alcuni casi, come nei tarocchi Rider-Waite, ha anche il volto contornato da una aureola. A questi elementi, oltre che alla intrinseca ambiguità grafica della carta (che si presta a essere osservata capovolta) si riconducono molti dei significati simbolici associati all'Appeso in cartomanzia, che lo associano all'accettazione, all'armonia interiore o alla capacità di trascendere le convenzioni e osservare il mondo da un punto di vista più spirituale e, in ogni caso, alla scelta o sopportazione di una stasi momentanea, come strumento di cambiamento.
La ballata degli impiccati (La ballade des Pendus), conosciuta anche come L'epitaffio di Villon (L'épitaphe Villon) è il testamento spirituale del poeta francese François Villon, grande ribaldo, scalmanato e rissoso, mentre si trovava in prigione in attesa della pena che gli era stata comminata. Sembra che Villon proprio in quei giorni fosse ossessionato dallo spettro dell'impiccagione (tanto più temibile perchè a quei tempi, sovente, la pena continuava anche dopo la morte del condannato, il cui corpo - a monito per gli altri - doveva rimanere appeso, esposto alle intemperie, sino ad essere disseccato dal sole e scarnificato dai corvi). La Ballata è la sua poesia più conosciuta, pubblicata postuma nel 1489 e si pensa comunemente (anche se non è inconfutabilmente stabilito) che fu composta, mentre Villon era in carcere, in attesa della sua esecuzione, in seguito a l'affaire Ferrebouc che vedeva coinvolto un notaio pontificio, ferito durante una rissa.
Fratelli umani che dopo noi vivete,
non abbiate con noi i cuori induriti,
perché se avete pietà di noi, poveri,
Dio avrà più presto pietà di voi.
Voi ci vedete qui, in cinque, sei, appesi:
quanto alla nostra carne, troppo nutrita,
dopo molto tempo è divorata e putrida,
fino all'osso, siam polvere e cenere.
Della nostra sventura, nessun si rallegri,
ma pregate Dio che tutti noi assolva!
Per approfondimenti segui questo link oppure questo
E' facile, fare l'associazione con la canzone di Fabrizio de André "Tutti morimmo a stento", di cui riporto qui il video che mi sembra assolutamente idoneo a far da colonna sonora a questo racconto