(Maurizio Crispi) Finalmente, dopo circa 20 anni da quando lo comprai, ho rimesso mano a "Il Vicerè di Ouidah" di Bruce Chatwin (1991) e ne ho portato a termine la lettura. In effetti, era l'ultima delle opere di Bruce Chatwin, purtroppo prematuramente scomparso, da leggere per me : evidentemente, si era fatto il tempo per completarne la lettura.
Il vicerè di Ouidah (titolo originale: "The Viceroy of Ouidah", 1980) di Bruce Chatwin (Adelphi, 1983) nacque da un'idea dello stesso Chatwin quando, a seguito di una sua visita nel Dahomey, apprese la storia del negriero Francisco Felix de Sousa, che aveva stabilito ai primi dell'Ottocento un fiorente traffico di schiavi sulla costa del Benin (in una zona che ancora oggi è chiamata, non a caso Costa degli Schiavi), tanto fiorente da essere battezzato come "Il più grande trafficante di schiavi" del suo tempo..
Vari accenni a questa visita li ritroviamo in altri libri dello stesso Chatwin (ad esempio, in "Che ci faccio qui?"[1]), dove apprendiamo i rischi e le difficoltà incontrate nel raccogliere il materiale (venendo il Dahomey interessato in quello stesso periodo da un colpo di Stato) e le perplessità di critici ed editori verso l'opera (ritenuta "barocca" ed eccessivamente violenta).
In seguito, tuttavia i diritti di realizzazione di un film ispirato all'opera vennero acquistati da Werner Herzog, che ne ricavò un film (che vede tra l'altro la collaborazione di Klaus Kinski nelle vesti di Dom Francisco), dal titolo Cobra Verde[2].
[Cobra verde è un film del 1987, scritto e diretto da Werner Herzog, ispirato al romanzo Il Viceré di Ouidah di Bruce Chatwin, incentrato sulla tratta degli schiavi. Questo film decretò la fine del fortunato sodalizio cinematografico tra Herzog e il suo "attore-feticcio" Klaus Kinski (insieme lavorarono in cinque film): Kinski esasperò il regista con i suoi atteggiamenti dispotici, in particolare in questo film impose di sostituire il direttore della fotografia Thomas Mauch, da sempre collaboratore nei film di Herzog, con un altro. Herzog accettò, ma in seguito non volle più lavorare con Kinski pur continuando a riconoscergli le sue straordinarie doti di attore.]
Sempre nel citato "Che ci faccio qui?", una raccolta di appunti diaristici di viaggio e di abbozzi di interviste con personaggi più o meno celebri, Chatwin descrive alcune fasi della realizzazione del lungometraggio.
"Sin dall'incipit, il romanzo evoca un'ambientazione estranea al lettore occidentale, schiudendogli l'immagine di un'Africa oscura e lacerata dal contrasto tra la modernità e il passato. Ed è proprio sul continuo rimando al passato che Chatwin costruisce una storia fatta di sangue e sofferenza, uniche costanti in un mondo solo apparentemente in mutamento".
Sembra cogente per una decodifica dell'intero romanzo (se tale si può definire) la riflessione offertaci dall'Autore sul fatto che l'unica possibilità per il protagonista di integrarsi in un ambiente ostile e così dissimile da quello da cui proviene, sia quello di assumere molte delle abitudini della popolazione locale, creando una sintesi unica tra Brasile (il paese di provenienza) e l'Africa nera, nel periodo di transizione tra una fase in cui la tratta "atlantica" degli schiavi era ancora fiorente a quella in cui venne per sempre bandita (è del 1821 la legge inglese con la quale si decise di perseguire severamento lo schiavismo internazionale) e coloro che la praticano vengono considerati degli odiosi fuorilegge.
Viene così illustrato uno degli aspetti meno discussi del colonialismo, spesso negletto oppure coperto con l'oblio della storia, perché imbarazzante rispetto all'etnocentrismo europeo: quello della nascita, nelle sue prime fasi, di meticciati culturali che poi, dai governi di origine, vennero banditi perchè considerati erosivi rispetto alla necessità di mantenere il primato della cultura e delle abitudini europee.
Dire che il libro sia un romanzo "anomalo" che illustra un periodo della tratta degli schiavi è riduttivo (certo, da questo punto di vista, specie oggi ha una sua innegabile attualità perchè a partire da esso si possono innestare riflessione sulla "moderna" tratta degli schiavi, punteggiata di immani tragedie - come quella accaduta proprio nei giorni passati al largo della costa di Lampedusa - e di sofferenze).
Penso, invece, che tutta l'architettura di esso sia centrata attorno ai colori violenti di un'Africa che, irriducibile alla trasformazione, finisce con l'inghiottire e con il trasformare inevitabilmente le civiltà e le culture che vi si accostano, con la pretesa di poter agire da dominatori e che, se abbandonati a se stessi, finiscono con il soccombere schiacciati dalla lusinghe di un clima lussureggiante, ma anche dalla sua crudeltà.
Sono sufficienti poche generazioni per trasformare i discedenti degli Occidentali che vi si stabiliscono se non sono le malattie e il clima ad averla vinta.
C'è una forma di grande omologazione attraverso le vie del metticiato e non solo di quello culturale, sicchè delle proprie origini dopo alcune generazioni rimane ben poco, se non una forma pagana di quello che si potrebbe definire un culto "sincretico" degli antenati.
Sì, questo libro di Chatwin è sulla tratta degli schiavi, ma soprattutto è una rappresentazione allucinata e policromica dell'Africa Nera e dell'impossibilità di addomesticarla.
Ed è facile fare un collegamento con il conradiano "Cuore di tenebra", omolango Francisco da Silva, con il tenebroso Kurtz..
In questo senso, come inno al al sincretismo, è un'opera letteraria essa stessa sincretica che si pone al crocicchio tra saggio di storia, libro di avventura, fiction, memoir di viaggio, saggio biografico.
Dove collocarlo nella propria libreria di casa o in quella libreria mentale che ci portiamo nella testa come il professore di sinologia del romanzo di Canetti?
Arduo da decidere. Persino il settore dei libri salgariani meriterebbe di essere preso in considerazione per una collocazione a dimora di questo testo.
Io sceglierò la via più facile, mettendolo accanto agli altri libri di Bruce Chatwin tutti - del resto - sui generis e di difficile catalogazione.
(Recensione di Scatasta pubblicata in L'Indice 1991, n. 5, in occasione dell'edizione 1991, esattamente la sua la sua 2^) Pubblicato in Inghilterra nel 1980 e in Italia per la prima volta nel 1983, "Il viceré di Ouidah" viene ora opportunamente ristampato da Adelphi, sempre nella traduzione di Marina Marchesi. Si tratta a mio parere del migliore romanzo di Chatwin, dalla "prosa insopportabilmente barocca" (come lamentava un recensore anglosassone perplesso all'uscita del libro) e libero da quei fastidiosi vezzi stilistici e da quell'atteggiamento fra il decadente e lo snob che sono probabilmente l'aspetto più deteriore della produzione di Chatwin. "Il viceré di Ouidah" non possiede la struttura stentata, disomogenea, inquieta che era il limite e la forza di "Le vie dei canti", segno da una parte dell'impossibilità di scrivere un libro sul nomadismo e dall'altra della paura dell'autore di morire prima di concluderlo. Si tratta dunque di un romanzo di facile lettura, biografia romanzata dello schiavista brasiliano Francisco da Silva, vissuto per molti anni in Africa a metà del secolo scorso: la narrazione inizia e termina cent'anni dopo la morte di Francisco con la celebrazione di una messa e un pranzo in suo onore organizzati dai suoi discendenti "sempre più scuri di pelle e ormai più numerosi delle cavallette, sparsi da Luanda al Quartiere Latino" ("Il viceré di Ouidah", p 12).
Se il segno distintivo di "Le vie dei canti" era il nomadismo della narrazione che fungeva da contrappunto all'argomento del libro, "anche in "Il viceré di Ouidah" la pulsione che spinge il protagonista a muoversi finché gli è possibile è l'ansia del viaggio, la ricerca disordinata di una conoscenza istintiva e totale. Ma un altro aspetto di "Le vie dei canti", il suo interesse per la contaminazione, il suo carattere meticcio, è presente anche in questo romanzo precedente, sul piano dello stile più che del contenuto: il linguaggio di Chatwin è sincretista, unisce immagini e parole di struggente dolcezza e di atroce crudezza nella stessa frase, con uno stile che lo stesso autore definisce "spoglio e cesellato". C'è sempre nelle frasi di Chatwin un elemento incongruo, una presenza che non aiuta a conferire alla frase consenso immediato ma la invita piuttosto a sfuggire a esso. Uniti al suo gusto per l'accumulazione, mantenuti appena un po' più del necessario per farli apparire fuori luogo, apparentemente inutili e dunque significativi, gli elementi incongrui fanno la narrazione, la caratterizzano come una storia di Chatwin: i carillon svizzeri che insieme a "divani di jacaranda, un servizio da toilette di opalina, un letto goanese", un pianoforte e un biliardo vengono acquistati dal protagonista per la sua casa nel Dahomey; i costumi della "Semiramide" di Rossini indossati da una corte africana; "cibo, sangue, piume e Gordon's Gin" sparsi sul letto di Francisco morto; l'altarino "con Cristo e gli Apostoli, che sedevano a tavola con davanti un pollo di gesso. Gli occhi del Signore erano color turchese e la testa era irta di veri capelli rossi" (p: 48); le profezie dello schiavista, frutto di un raggelante delirio.
Chatwin riesce a creare un personaggio negativo ma al tempo stesso "forte", sa renderlo affascinante nella sua potenza, tanto da farci quasi affezionare a lui nonostante tutto o quasi, nella sua vita ci ripugni. E non a caso nel testo compaiono dei riferimenti a una delle 'villains' più affascinanti della letteratura inglese, Lady Macbeth: "Lavami le braccia! Guarda! Guarda! Queste macchie mi mangiano le braccia!" (p. 142); "Se ne stava a fissare accigliato le sue mani e gridava: 'Acqua e sapone'" (p. 119)
Il mondo in cui il protagonista vive non è un mondo caduto, ma solo perché non c'è nulla da cui cadere, uno stato edenico a cui tornare. Non è tale il Brasile, terra natale di Francisco, anche se alla fine il vecchio schiavista muore letteralmente dalla voglia di tornarvi. E neppure l'infanzia è un mondo felice nel ricordo, infestata com'è dalla fame, dalla carestia e dalla morte. Sola speranza è il movimento frenetico, la pulsazione del cuore e dei genitali, la strada dell'istinto. Ma salvezza, comunque non ce n'è . Il mondo è impregnato di inganni e tradimenti, regnano solo e ovunque sangue e torture. Il mondo di Francisco è quello che ha conosciuto a sette anni, quando viveva con un prete che lo baciava in una camera da letto "che puzzava d'incenso e di fiori morti". Se da una parte c'è un re che non riesce "a resistere alla tentazione di accumulare teschi" con la sua corte di amazzoni guerriere che strappano un mormorio di disperazione anche in Francisco quando le vede strangolare dei bambini di un villaggio nemico, dall'altra c'è il mondo altrettanto spietato del commercio e dello schiavismo, europeo o brasiliano. E che il mondo non sia cambiato, che il tradimento e l'inganno continuino a dominarlo, traspare dalla vicenda di una delle figlie di Francisco, abbandonata dall'inglese che aveva amato, o, per arrivare alla realtà contemporanea, dalla figura del tenente colonnello Zossoungbo Patrice che, mentre nessuno lo vede, fa un gesto d'irrisione verso il ritratto del presidente dell'attuale Benin, si lascia corrompere anche in cambio di poco denaro e schiaccia indifferentemente con i suoi stivali una begonia (p. 23) o uno scarafaggio (p. 149).
Né l'amore, carnale, filiale, paterno o altro, redime il mondo, anche se per breve tempo può sembrare così. L'amore fin dall'inizio del romanzo è visto nelle sue forme più degradate: "La verginità veniva violata con la stessa facilità con cui si apriva un baccello. [La figlia di Francisco] conosceva fin da bambina il riso volgare delle donne quando fiutavano lo straccio macchiato di sangue. I suoi fratellastri avevano cercato di violentarla. Le sue sorellastre facevano una smorfia di disprezzo se erano avvicinate da qualcuno più scuro di loro, ma erano sempre pronte a fare le puttane con i marinai bianchi" (p. 36).
L'unica "speranza di consolazione" per Francisco "in quelle notti inquiete era il gioco di violentare vergini". Come il Kurtz di Conrad, dunque, Francisco da Silva non torna dal suo viaggio nel cuore della tenebra ma scopre che l'orrore è ovunque e non c'è viaggio n‚ vita che non abbia in sé quella tenebra, quel lato oscuro che si può placare col nomadismo, fisico e culturale insieme, ma mai vincere.
Viene a questo punto il sospetto che Chatwin sia un manierista, un cultore dell'orrido che usa materiale di scarto (sangue, sesso, violenza) per creare, con distaccato snobismo, un mondo "orribile che ha dentro di sé un cuore selvaggio", come direbbe Lula di "Cuore selvaggio", ma purtroppo il mondo di Chatwin non è solo una finzione narrativa, come dimostrano due brani contenuti in "Che ci faccio qui?", collegati in modo più o meno diretto a "Il viceré di Ouidah".
Nel primo, "Un colpo di stato", Chatwin, in cerca di materiale per il suo libro su Francisco da Silva, viene coinvolto in un tentativo di colpo di stato, scambiato per un mercenario, imprigionato, minacciato di fucilazione, processato e liberato.
Infine, a cena con un francese conosciuto in quella circostanza, analizza le varie versioni del colpo di stato, ma tutte gli appaiono false e ingannevoli.
Il secondo brano, "Werner Herzog nel Ghana", riferisce la visita di Chatwin sul set del film "Cobra verde di Herzog, tratto da "Il viceré di Ouidah". In questo brano ci sono preziose indicazioni sullo stile di Chatwin ("Poiché era impossibile scandagliare la mentalità misteriosa dei miei personaggi, mi sembrava che restasse soltanto una soluzione: raccontare la storia attraverso una sequenza di immagini cinematografiche", p. 173), ma anche uno squarcio sul mondo reale che è insieme sintomatico dello stile contaminato di Chatwin di cui si è detto, dolce e crudele insieme: "Il soldato che mi aveva in consegna tubava melodiosamente: 'Ils vont tuer, massacrer mˆme'".
(Sintesi) La vicenda si apre con la rievocazione, da parte della famiglia da Silva, degli antichi fasti della loro casa, un tempo ricca e potente sotto la guida del capostipite Dom Francisco Manoel da Silva, un negriero sbarcato sulla costa del Dahomey per avviarvi il commercio degli schiavi. La vicenda ha del paradossale, poiché tutti i discendenti di Dom Francisco, pur rimpiangendo la pratica della Tratta, sono essi stessi di colore, sebbene pronti a disprezzare coloro che sono appena più scuri di loro. Unica eccezione è data da Mama Wewè, una donna più che centenaria, figlia di Dom Francisco, ridotta da anni su un letto, chiusa in uno sdegnoso silenzio. Il suo grido di agonia interrompe la riunione di famiglia. Tutti i suoi familiari accorrono al suo capezzale, interrogandola sulla fine del patrimonio della famiglia. Ella tuttavia non risponde, assorta nel ricordo del padre, che nella sua mente assume i connotati del Cristo in persona, il liberatore dalle sofferenze e dalla morte, colui che riscatterà le miserie del mondo moderno.
A partire da questo punto, si innesta la narrazione vera e propria. Viene tracciata l'esistenza di Francisco dalla sua infanzia nelle desolate terre del Sertao. Da lì si dipana un'esistenza avventurosa e piena di vicissitudini, avente tuttavia come unico denominatore la violenza e la spregiudicatezza. Decisiva si rivelerà la sua amicizia con il figlio di un ricco proprietario terriero, Joaquim Coutinho, che lo porrà sotto la sua protezione conducendolo con sé nella sua casa, il forte di Tapuitapera presso Bahia.
Qui Francisco vede per la prima volta il mare e si approfondisce quel senso di irrequietezza che lo caratterizzerà in futuro. Il forte di Tapuitapera tuttavia acquista agli occhi di Francisco un significato fortemente simbolico, diventando il simbolo della certezza, della solidità eternamente ricercata e agognata ma mai raggiunta. Nel forte inoltre Francisco approfondisce il suo rapporto con la dimensione materiale degli oggetti, che diventano anch'essi un fine, una prova tangibile della raggiunta soddisfazione al proprio travaglio interiore (qui Chatwin riprende un'idea che approfondirà con Utz).
L'amicizia con Coutinho giunge tuttavia al termine e Francisco si trasferisce nella città di Bahia, trovando lavoro presso un venditore di attrezzature per schiavi. In seguito si incontrerà nuovamente, in maniera casuale durante l'inseguimento di uno schiavo fuggitivo, con Joaquim, nel frattempo entrato nella Tratta a seguito della crisi delle attività di allevamento del padre. Francisco riceve da Joaquim un'offerta di collaborazione per conto di un'associazione di aristocratici brasiliani, intenzionati a speculare sulla tratta degli schiavi. Dopo vari ripensamenti Francisco accetta e viene investito del rango di luogotenente presso il forte portoghese di Sao Joao Baptista de Ajuda, in Dahomey. Si appresta quindi a partire, assistendo prima dell'imbarco ad una messa propiziatoria per il viaggio. Nella descrizione di questo evento Chatwin accentua il carattere pagano della vicenda, riproponendo l'antitesi sa sacro e profano che sarà uno dei fili conduttori dell'intero libro. Colpisce il contrasto tra la crudezza della realtà e la comune aspirazione delle persone, anche le più crudeli, ad una dimensione mistica e ultraterrena di pace.
Il viaggio verso l'Africa del brigantino negriero sul quale Francisco si era imbarcato si conclude un pomeriggio torrido e allucinante, descritto con forte realismo da Chatwin. Il contatto con l'Africa è quantomeno sconvolgente e stravolge la narrazione, nella quale si innestano elementi comuni alla produzione letteraria sull'argomento (si pensi a Joseph Conrad). Francisco trova il forte distrutto, con il solo tamburmaggiore Taparica sopravvissuto alla strage che i locali avevano perpetrato. Progressivamente riesce tuttavia a riprendere la situazione sotto controllo, grazie all'aiuto dello Yovogan, il ministro del re del Dahomey per il commercio degli schiavi.
Nel corso degli anni Francisco si adatta progressivamente alla sua sistemazione, cedendo al cosiddetto "mal d'Africa". I traffici procedono positivamente e può ormai considerarsi un uomo ricco ed appagato. Fondamentale è la costruzione di Simbodij, la Grande Casa, tentativo di replicare il forte di Tapuitapera e tutto ciò che simboleggia. Un senso di insoddisfazione, che egli cerca di nascondersi acquistando oggetti costosi e rari e stuprando vergini, lo mina tuttavia dall'interno. La nostalgia per il Brasile giunge ad un livello patologico e morboso, conducendolo ad uno stato di profonda prostrazione, alla disperata ricerca di notizie dalla sua terra, che si concretizza in una fitta corrispondenza con Joaquim Coutinho, che tuttavia si mostra freddo con lui.
A seguito del blocco dei traffici di schiavi da parte della marina britannica, in ottemperanza del trattato che aboliva la Tratta del 1821, viene danneggiato economicamente e si pone in cattiva luce con il re del Dahomey, non potendo più soddisfare le richieste di questi. Privo dell'appoggio del vecchio Yovogan, da Silva viene imprigionato con un pretesto dal re e condotto nella capitale del regno. Qui viene condannato a morte, ma essendo bianco la sua esecuzione non può essere effettuata, in quanto non esistono precedenti in proposito. Francisco viene quindi immerso in una vasca piena di indaco, per tingergli la pelle di nero. L'espediente si rivela fallimentare e il re decide di graziarlo. A questo punto lo ritroviamo a corte, dove stringe amicizia con il fratello del re, Kankpè, con il quale fa un patto di sangue. Con l'aiuto di questi da Silva ritrova la sua libertà e si rifugia fuori dal regno.
Kankpè nel frattempo conduce con successo una rivolta contro il fratello, imprigionandolo; inviando in seguito degli emissari da Francisco per offrirgli il monopolio della tratta nel suo regno. Francisco inizialmente diffidente accetta quando Taparica gli si fa incontro. Ritornato alla sua vita di un tempo da Silva aiuta il re (divenuto suo fratello di sangue) a riorganizzare il regno, trasformandolo in una efficiente macchina bellica nelle mani di Kankpè. Questi, spinto dall'ambizione e dalle pressioni dei suoi ministri, decide di muovere guerra alle popolazioni limitrofe. Francisco partecipa attivamente alle varie campagne che si susseguono, finché, disgustato da un massacro particolarmente efferato compiuto da un reggimento di Amazzoni (donne guerriere a servizio del re), decide di rinunciarvi. Ciononostante, il re continua l'offensiva, decidendo l'attacco alla roccaforte di Abeokuta, difesa dagli Egba, una popolazione posta sotto il protettorato britannico. Due missionari inglesi addestrano gli Egba all'uso delle armi da fuoco, cosicché l'attacco del re di Ouidah si conclude con la sua disastrosa sconfitta. Nel frattempo gli Inglesi hanno anche attaccato la flotta negriera di Dom Francisco, distruggendola.
Il da Silva accentua la morbosità e i suoi tratti eccentrici, maturando un forte odio per i bianchi, avviando un contrastante quanto anomalo approccio alle fede, che si manifesta attraverso la sua adesione a culti sincretici e misterici locali. Ulteriori problemi vengono dati dall'arrivo di numerosi ex-schiavi liberati, desiderosi di ritornare nelle terre dei loro avi. Completamente impreparati a ciò che li attende, vengono colti dalla disperazione constatando la durezza delle condizioni di vita locali e l'insalubrità del clima. Dom Francisco decide di aiutarli, distribuendo loro appezzamenti di terreno sulla costa e impiegando i più istruiti tra questi come assistenti. Il più intraprendente di questi, Jacinto das Chagas, diventa il suo braccio destro. Il re nel frattempo manifesta l'intenzione di prendere in sposa una moglie non-africana, e la scelta cade sulla giovane figlia di Jacinto, che verrà sposata per procura da Francisco, per poi raggiungere il consorte (non potendo i re di Ouidah per tradizione vedere il mare). L'astio di Jacinto e della sua giovane figlia verso il re si focalizzano su Dom Francisco, che progressivamente viene scalzato dal suo collaboratore, che comincia ad intrattenere relazioni con compratori di schiavi cubani e statunitensi, coprendo questa attività illegale con il commercio delle noci di cola. Anche Dom Francisco decide di avviare quest'ultima attività, collaborando con una ditta francese. Inizialmente tutto sembra procedere positivamente, ma l'emissario della ditta viene richiamato in patria a causa delle malversazioni di Jacinto das Chagas. Un'ulteriore colpo della sorte gli viene inferto dall'incendio dello stabilimento di lavorazione della cola, a causa dell'esplosione di una delle noci.
Lo troviamo alla fine della sua esistenza abbandonato da tutti e odiato dai suoi stessi figli, trascinandosi sulla spiaggia in un ultimo, estremo tentativo dettato dalla disperazione di ricongiungersi alla sua terra, il Brasile, che viene tratteggiato con i caratteri di un Paradiso Terrestre, agognato e irraggiungibile. Nella stessa incrollabile convinzione vivrà la sua ultima figlia, Eugenia (Mama Wewè), che nei suoi ultimi istanti di vita vedrà schiudersi a lei le porte del palazzo d'oro di Bahia (che nella sua immaginazione simboleggiava il Paradiso) ad opera di uno sconosciuto dagli occhi azzurri che la chiamava per nome, in un processo di identificazione-sovrapposizione della figura paterna con quella del Cristo. Questo è probabilmente il punto più significativo del romanzo: si compie il miracolo dell'Eucarestia e si raggiunge l'unione metafisica tra Cielo e terra, tra Divino e materiale, tra la realtà e ciò che rimane semplice immaginazione.
Il brusco ritorno alla crudezza dell'evento della morte in tutta la sua materiale brutalità si compie definitivamente spostando la narrazione dal flashback, attraverso il quale si era dipanata la narrazione, al presente.
L'Africa, con tutto il suo carico di barbarie riemerge alla superficie, portando con sé i detriti del passato colonialista. Siamo lontanissimi dall'immagine di progresso dell'Europa e ancor più da quella dell'America (non a caso nessuno dei discendenti è stato in America). Il progresso si limita all'introduzione della civiltà materialistica occidentale in un contesto primitivo, producendo fortissimi squilibri in un tessuto sociale dilaniato dagli odi razziali e dalla dittatura. Il romanzo si chiude con tragica ironia con il ritratto di un giovane ufficiale dell'esercito del Benin (nuovo nome del Dahomey dopo la rivoluzione) che schiaccia uno scarafaggio sotto il tacco del suo stivale da combattimento immaginando di arringare la folla sotto lo sguardo di uno zibetto impagliato con le zampe inchiodate a scherno della Crocifissione; un'immagine fortissima che rende efficacemente la vanità e la caducità delle ambizioni umane dinanzi al tempo e l'inconsistenza del singolo dinanzi alla Storia.
Note
[1] E' il volume in cui Bruce Chatwin raccolse, negli ultimi mesi prima della morte, quei pezzi dispersi della sua opera che avevano segnato altrettante tappe di una sola avventura, di tutta una vita intesa come «un viaggio da fare a piedi». Al seguito di Indira Gandhi o in visita da Ernst Jünger, alla ricerca dello yeti o in quartieri malfamati di Marsiglia, a cena con Diana Vreeland o con Werner Herzog nel Ghana o con un geomante cinese a Hong Kong, Chatwin è sempre in viaggio e osserva ogni esperienza con lo sguardo penetrante di chi, a partire da qualsiasi cosa, vuole andare il più lontano possibile. «Era uno straordinario narratore di favole, inesauribile come Sheherazade ... sembrava avere divorato tutti i testi esoterici possibili ed era un vero e proprio zingaro, un imitatore straordinario – la sua versione della signora Gandhi era davvero perfetta – e un viaggiatore di primissima categoria» - come ebbe a dire di lui Salman Rushdie.
[2] Cobra verde è un film del 1987, scritto e diretto da Werner Herzog, ispirato al romanzo Il Viceré di Ouidah di Bruce Chatwin, incentrato sulla tratta degli schiavi. Questo film decretò la fine del fortunato sodalizio cinematografico tra Herzog e il suo "attore-feticcio" Klaus Kinski (insieme lavorarono in cinque film): Kinski esasperò il regista con i suoi atteggiamenti dispotici, in particolare in questo film impose di sostituire il direttore della fotografia Thomas Mauch, da sempre collaboratore nei film di Herzog, con un altro. Herzog accettò, ma in seguito non volle più lavorare con Kinski pur continuando a riconoscergli le sue straordinarie doti di attore.