I volumi di Giorgio Samorini sono il frutto d'una costante ed instancabile ricerca nel mondo complesso ed articolato delle sostanze psicoattive che producono stati alterati di coscienza. In questo senso, egli merita l'appellativo di "psiconauta" (come si definiroro a suo tempo i collaboratori di "Altrove", la rivista periodica e specializzata sui temi degli Stati modificati di coscienza): le sue incursioni hanno il pregio di mostrare come, nella storia dell'Umanità, vi sia stata - specie nei primordi (ma ancora presso alcune società tradizionali) - una costante ricerca di sostanze provenienti dal mondo animale e vegetale che potessero indurre stati alterati di coscienza, conducendo ad un possibile "altrove" dal quale ricavare visioni estatiche, oppure ottenere forza ed energia, oppure ancora migliorare le proprie percezioni, o ancora parlare con i defunti.
Tale ricerca è stata da sempre accompagnata dalla definizione dei modi - alcuni dei quali ritualmente complessi - per ottenere gli effetti desiderati a partire da parti grezze di organismi vegetali ed animali.
Ed è sorprendente constatare come tante delle sostanze che oggi utilizziamo come semplicemente voluttuarie (come ad esempio il tabacco o l'alcool) fossero in origine collegate con un uso rituale enteogeno.
"Droghe tribali" (ShaKe Edizioni, 2012, Collana Underground), che nasce come una raccolta di articoli pubblicati negli anni passati su riviste specializzate (alcuni di essi sotto pseudonimo), propone appunto una carrellata su molti di questi aspetti.
La cosa più sorprendente è vedere come nelle società tradizionali tutte le fonti possibili di sostanze inebrianti fossero prese in considerazione, così come anche venissero sperimentate tutte le possibili vie di assunzione, ma sempre - badiamo bene - all'interno d'un contesto fortemente ritualizzato.
In ciascun capitolo (compreso quello che esamina sia il cannibalismo, sia l'antropologia rituale come strumenti per raggiungere stati alterati di coscienza) sono numerosissimi gli esempi tratti da un'attenzione trasversale che si estende sia a civiltà e a culture oggi estinte, sia ad alcune società tradizionali ancora operanti.
Dall'ultima di copertina. Cibi divini, alimenti per l'anima o strumenti visionari per il contatto col mondo sovrannaturale? Queste sono alcune delle principali ragioni per le quali le popolazioni tribali assumono droghe, attraverso l'ingestione di centinaia di formiche rigorosamente vive, lo scorticamento di parti di pelle per assorbirne gli effetti attraverso la ferita, la golosa ricerca di putrefazioni cadaveriche umane o ristillazione negli occhi di corrosivo succo di millepiedi. Nonostante l'apparente irrazionalità, c'è tanto significato, umanità ed emozione in questi comportamenti estremi. Nella cultura occidentale si continua a vedere le droghe come una forma di fuga dalla realtà. Nel mondo tradizionale, ma anche in alcuni ambiti del mondo moderno occidentale, il suo uso invece è ampiamente dettato da motivazioni differenti, spesse volte con l'opposto intento di "vedere meglio la realtà": come negli scopi spirituali-religiosi, sciamanico-terapeutici, magico-divinatori, iniziatico-pedagogici, come correttivi del carattere, per scopi giudiziari, o come viatici pre-morte.
Tra i tanti ricercatori enteogeni, si può annoverare anche lo scrittore statunitense Williams Borroughs, uno dei guru della Beat Generation e grande sperimentatare di principi psicoattivi, nonchè da sempre dipendente dall'eroina: egli , alla luce delle sue personali esperienze, scrisse un breve saggio preconizzando l'uso della Ayahuasca come strumento per il trattamento delle Addiction (Williams Borroughs, The Yage Letters, pubblicato in Italia per la prima volta da Sugar editore, con il titolo "Lettere dello Yage" cui si aggiunge un contributo di Allen Ginsberg nei panni di psiconauta alla ricerca di visioni per i suoi poemi, ed ora disponibile in una riedizione per i tipi di Adelphi)
William S. Borroughs, Allen Ginsberg, Lettere dallo Yagé, Adelphi, 2010. Lungo un decennio, dal 1953 al 1963 – nel pieno della loro amicizia –, William Burroughs e Allen Ginsberg intrattengono un epistolario «lisergico» tra i più immaginifici e radicali di tutto il movimento Beat, di cui rappresenta una vera sintesi estetica e cognitiva.
Ma se il contributo di Ginsberg è concentrato in sostanza in una lunga lettera-poema da Pucallpa (Perù) dove gli effetti dell'ayahuasca si traducono in una visionaria tragicità cosmologica, i molti referti di Burroughs coniugano alle visioni dell'alterazione psicofisiologica lo sguardo acuto e mimetico dell'antropologo sul campo, fino a rendere i due piani intercambiabili.
Burroughs si abbandona infatti alle tante droghe cercate e provate lungo un percorso che oltre al Perù comprende anche Panama e la Colombia – dalla liana dello yoka al mitico yage, estratto di una pianta che spalanca nella mente sterminati territori onirici.
E nel contempo registra ogni frammento del paesaggio circostante, con esiti di violenta ambivalenza: in primo piano, una catena di fisionomie squallide di rado interrotta da qualche oggetto di accensione omoerotica, come il ragazzo di Cali dai «delicati lineamenti ramati» e dalla «bellissima bocca morbida»; sullo sfondo, luoghi e paesi degradati ma collocati in una natura immensa e sgomentante. E la cerniera tra la percezione-allucinazione e il mondo esterno è data come sempre da una scrittura eversiva, la cui inconfondibile tonalità horror si vena qui di una corrosiva ironia.