Ho scritto questo pezzo nel luglio 2015, rendendolo visibile nel mio profilo Facebook. Probabilmente non l'ho tempestivamente pubblicato qui sul blog. Mi ci sono imbattuto casualmente, nella solita rassegna di ricordi proposta giornalmente dall'algoritmo di Facebook. E , quindi, non avendolo fatto a suo tempo, lo lancio, qui, oggi.
Delle riflessioni che arrivano in ritardo rispetto a quando furono formulate, ma che sono tuttora attuali.
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Tante delle persone che sono state nella mia vita sono morte.
Mia nonna e la prozia Irene le ho viste solo nel letto di morte e poi composte nella bara. Mi è stato risparmiato il momento del loro trapasso.
Poi è stata la volta di Papà che è entrato in casa, dopo il tragico incidente, già sigillato dentro la sua bara. Mi è stato risparmiato di andare all'Istituto di Medicina Legale ad effettuare il riconoscimento di quel che restava. O forse io sono stato vigliacco e, con facilità, mi sono lasciato convincere a non andare, lasciando ad altri il pietoso compito.
Poi - e vado saltando, passando agli eventi più significativi - è stata la volta di mio cugino Gabriele. Questa volta - forse per compensare ciò che mi ero risparmiato quando era morto papà - sono andato con i miei cugini e con i suoi genitori sul luogo dell'incidente e abbiamo passato la notte davanti all'obitorio di un piccolo cimitero di provincia, in attesa che gli addetti ne aprissero le porte, con impietoso orario di ufficio.
E qui, io, facendo da supporto per i miei cugini e per i miei zii, mi assunsi parte dell'incarico del riconoscimento di Gabriele e, poi della sua svestizione dalla muta di sub che ancora indossava. In questo compito impregnato di pietas, mi ritrovai a vivere in pieno ciò che non avevo vissuto alla scomparsa di mio padre. E fu un'esperienza intensa e, in parte, destabilizzante, negli effetti che ebbe su di me negli anni successivi: un'esperienza che potei metabolizzare a poco a poco, con grande dolore.
Poi, andando avanti negli anni, siamo arrivati alla morte della mamma: l'ho seguita intimamente negli ultimi giorni, osservando il suo rapido declino e, nello stesso tempo, sentendo l'energia caparbia con cui si teneva legata alla vita, aspettando il momento proprizio per lasciarci con fierezza e nel suo modo. L'ultima notte non volle andare a letto e rimase seduta nella sua poltrona, la poltrona dove aveva passato sempre più tempo nei suoi ultimi giorni. Io mi misi nella poltrona accanto a lei per rimanerle vicino. E mi addormentai.
Quando alcune ore dopo mi risvegliai forse a causa dell'eccessivo silenzio (il suo respiro nelle ore precedenti si era fatto pesante e affannoso), mi resi conto che aveva compiuto il suo transito, con accanto la sua borsa e la sveglia che ogni mattina puntava alle 5.00 secondo un'abitudine consolidata allo scopo di avviare la routine dell'accudimento a Salvatore (mi aveva chiesto di portargliela e di caricarla per lei al solito orario di sempre). E quella sveglia all'ora stabilita suonò ancora una volta, per ricordare a tutti noi che la vita continuava con le sue necessità e i suoi obblighi.
Anche questa volta, tuttavia, mi fu risparmiato il momento del trapasso. Ero addormentato accanto a lei.
Con Salvatore, no.
Eravamo assieme e l'ho visto morire.
Ho visto la sua lotta, mentre se ne andava.
Ricorderò il suo sguardo carico di angoscia: non si è mai pronti, quando quell'ultimo momento arriva; il suo tentativo di dirmi qualcosa, delle parole che non riusciva ad articolare; il suo improvviso accasciarsi in avanti, terreo in viso, in un'immobilità che, sul momento, mi sono rifiutato di codificare nel suo vero ed ineludibile significato, per quanto io sia medico (ma che ha scelto di fare lo psichiatra, proprio per non doversi confrontare con questi aspetti del morire).
E' stato giusto che sia accaduto così, io e lui assieme, vicini come eravamo stati negli ultimi anni dopo la morte della mamma. L'ho visto e l'ho sentito mentre era sulla soglia e forse mi rivolgeva un ultimo saluto, oppure mi chiedeva aiuto, perchè ancora per lui non era tempo di andare.
Non credo che potrò mai dimenticare quel momento.
Ci penso sempre: non riesco a distanziarmene.
Quelle fatidiche sequenze compaiono improvvisamente davanti ai miei occhi e nella mia mente nei momenti più impensati.
Ed è giusto che sia così.
Ed anche vero che il tempo è un grande scultore e che poi, a poco a poco, le cose si attenuano e si smussano anche se ci affanniamo a farle vivere nel ricordo.
Quando spingo il passeggino con Gabriel, ci penso più intensamente, proprio perchè quando il transito di Tatà si è verificato io ero lì con lui nella mia funzione di fratello-spingitore.
Forse ciò dipende anche per il fatto che questa sia stata la prima volta in cui ho visto materialmente il momento del trapasso di una persona cara.
E stato così che ho bevuto il calice della vita sino in fondo.
Questa volta, in occasione del mio ultimo miglio come spingitore, non sono stato risparmiato: ho dovuto vivere per intero il commiato da Tatà, senza sconti.
Sono convinto che, per vivere, occorre avere consuetudine con la morte e soprattutto con il morire.
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