Un giorno Gabriel mi ha chiesto: Papà, ma tu quando muori?
Sono un po' basito. Farfuglio qualcosa, poi gli dico: Spero non subito...
Replica di Gabriel: Domani? Dopodomani?
Io: Non so... Ma di certo vorrei il più tardi possibile!
Gabriel: Allora, tu morirai tra un milione di anni!
Tutto è connesso. Mi sono ricordato di un frammento di dialogo tra mia madre ultranovantenne e la signora Maria, da oltre 30 anni impiegata presso di noi come governante.
Mi racconta la signora Maria che un giorno, quando già si era improvvisamente indebolita, la mamma le disse: Eh, Maria! Presto partirò per un lungo viaggio. E, dopo una pausa, aggiunse: E mi devi promettere che quando io sarò partita ti prenderai cura dei miei figli. La signora Maria, per sdrammatizzare, le disse: Ma, signora Irene, un viaggio per dove? Dove se ne vuole andare?
E la mamma replicò: Sarà un viaggio verso un paese molto, molto, lontano.
Ma non aggiunse altro. Fu una delle poche volte in cui la mamma parlò della sua fine, ma non con me.
Fu la signora Maria a riportare questa breve conversazione.
Altre volte, quando si rendeva conto che la sua efficienza si andava incrinando (soprattutto nell'essere di supporto a mio fratello), la mamma ci diceva che avrebbe voluto essere portata al Polo Nord ed essere lasciata ad addormentarsi lì fuori, nella landa desolata dei ghiacci, nel freddo e al buio, come un tempo usavano fare gli Inuit (gli Eschimesi) anziani che, quando si rendevano conto che stavano per diventare decrepiti ed incapaci di avere un ruolo attivo nella vita del gruppo familiare, si allontanavano a piedi trai i ghiacci della Groenlandia, dove poi aspettavano la morte4 per assideramento. Aveva letto tanto prima il Romanzo "Il paese delle Ombre lunghe" (del dimenticato, oggi, Hans Ruesch) che io le avevo passato e dalla cui narrazione la mamma era rimasta molto colpita.
C'era molta serenità in questi suoi discorsi, una serenità che nulla aveva a che vedere con la sicurezza di ciò che ci attende nell'Aldilà che la Fede cristiana fornisce circa la promessa di una vita eterna. Non entrava mai nel merito del "dopo", anche se sono convinto che la mamma, pur nella laicità della sua visione, avesse comunque la percezione che sarebbe entrata nel "Mistero" (un mistero insondabile, per la verità) e, in questo processo di transizione, non chiedeva mai aiuto a nessuno, confidando esclusivamente su se stessa, così come aveva fatto nella sua vita operosa affrontando tutte le piccole e grandi battaglie quotidiane.
E la notte seguente ho sognato.
Mi ritrovavo a tentare di estirpare una tenace pianta grassa. Sembrava fosse viva e le sue radici, grosse come arti, si spingevano dentro la terra avviticchiandosi ad altri tronchi vicini.
Con la sua resistenza, manifestava una forte volontà di sopravvivenza.
Poi, quando con uno sforzo estremo riuscivo ad eradicarla, la pianta divelta prendeva a muovere il moncone delle radici come fruste, divincolandosi dalla mia presa. E avevo la sensazione che stesse diventando con questo moto minacciosa, capace di sopraffarmi: una vaga ma crescente sensazione di pericolo, quasi fossi alle prese con una belva.
E questo frenetico movimento continuava fino a che non recidevo quelle grosse radici pulsanti con una forbice da giardinaggio, incontrando una resistenza all'azione delle lame non di certo lignea ma come di carne viva.

Il giorno dopo, al risveglio, ho afferrato da un piccolo cumulo di libri non ancora letti “Gratitudine” di Oliver Sacks e nel giro di poche ore soltanto, grazie alla sua esilità, l’ho letto.
Esilità materica per via delle sue poche pagine, ma non certamente incosistenza di pensiero e di emozioni come tutte le opere di Sacks, del resto.
Il piccolo volume raccoglie quattro suoi scritti autobiografici, composti nel periodo che decore dal compimento dei suoi ottant'anni, evento seguito quasi immediatamente da quello infausto dell'identificazione di una grossa metastasi epatica di un melanoma all’occhio di cui aveva sofferto anni prima, alla morte.
Si tratta di pagine che disegnano sentieri già da lui già percorsi ma che hanno allo stesso tempo la valenza un commiato dalla vita e di un rapido, intenso, bilancio del suo percorso vitale, in cui ciò che domina, più che la nostalgia per ciò che egli si accinge a lasciare, è il sentimento di gratitudine per ciò che egli ha potuto fare, per le tracce che è riuscito ad imprimere e, soprattutto, per ciò che ha ricevuto dagli altri. Tutte cose per le quali provare un sentimento di gratitudine che, in nessun modo, potrà essere offuscato dal rammarico di fronte alla vita che fugge via.
Sacks scrive dalla vetta dei suoi ottant'anni: è un’età che ancora non mi appartiene e che non so se raggiungerò; in ogni caso. le sue parole mi hanno offerto fecondi spunti di riflessione.

Oliver Sacks, nato a Londra in una famiglia di fisici e scienziati - il più giovane di quattro fratelli di una coppia ebrea -, è stato neurologo e scrittore.
In Gran Bretagna frequenta il Queen's College a Oxford dove consegue Bachelor of Arts nel 1954 in fisiologia e biologia. Presso la stessa università, nel 1958, intraprendendo un Master of Arts, ottiene una laurea in medicina e chirurgia, che gli permette di esercitare la professione di medico.
Lascia l’Inghilterra per trasferirsi prima in Canada e poi negli Stati Uniti nel 1965. Professore di Neurologia clinica presso l’Albert Einstein College of Medicine e di Neurologia alla New York University School of Medicine ha iniziato la sua attività di divulgazione scientifica descrivendo le sue esperienze neurologiche con i pazienti negli anni Settanta e pubblicando anche su The New Yorker e The New York Review of Books articoli di carattere medico- scientifico. Il suo libro più conosciuto è Risvegli, dal quale è stato tratto il film con Robin Williams e Robert De Niro, e a cui sono seguiti i racconti altrettanto noti di altri suoi casi clinici Su una gamba sola e L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Tra gli altri suoi libri L’isola dei senza colore, Emicrania, Un antropologo su Marte, Allucinazioni, editi in Italia da Adelphi. Feltrinelli ha pubblicato Diario di Oaxaca nel 2004.
Oliver Sacks è morto a New York il 30 agosto 2015.
"La fortuna mi ha abbandonato" aveva scritto in una lettera a febbraio sul New York Times annunciando il cancro al fegato "Ora spetta a me decidere come vivere i mesi che mi restano. Devo vivere nel modo più ricco, profondo e produttivo che posso".
Tra le sue ultime dichiarazioni:
"E ora, in questo frangente, in cui la morte non è più un concetto astratto, ma una presenza — una presenza fin troppo vicina e a cui non puoi dire di no — mi sto di nuovo circondando, come feci quando ero ragazzo, di metalli e minerali, piccoli emblemi di eternità."
"Qualche settimana fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto il cielo intero «spolverato di stelle» (per dirla con Milton); un cielo come questo, pensavo, si può vedere solo su altipiani elevati e desertici, come quello di Atacama in Cile. Questo splendore celeste mi ha fatto improvvisamente capire quanto poco tempo, quanta poca vita, mi siano rimasti. La mia percezione della bellezza del paradiso, dell’eternità, era per me inseparabilmente mescolata con un senso di transitorietà — e di morte. Ho detto ai miei amici, Kate e Allen: «Mi piacerebbe vedere di nuovo un cielo come questo mentre muoio». «Ti porteremo fuori con la sedia a rotelle», mi hanno risposto."
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