Quando ero piccolo, giocavo a lungo nel cortile dietro casa (la vecchia casa dove ho abitato sino ai miei 12 anni).
A questo cortile s'accedeva percorrendo uno stretto passaggio tra il nostro palazzo e il giardino confinante, fiancheggiato da mura intocanate e liscie: un passaggio impossibile per le macchine di oggi, ma perfetto per le macchinette dell'epoca, dopo aver superato un cancello di ferro dipinto di verde.
I miei mi davano il permesso di scendere giù (mi potevano sempre dare un'occhio dalla finestra) ed io trascorrevo lunghe ore, giocando ed esplorando.
Avevamo una specie di box dotato di una porta di legno ad ante pieghevole e fornita di una finestrella a vasistas (il che dava tanto l'idea di casetta nel bosco). Ma questo spazio non si usava mai per metterci l'auto: piuttosto come deposito di vecchie cose (mobili in disuso, attrezzi, vecche carcasse di biciclette) ed io stavo molto tempo a rovistare nella semioscurità (il locale non era fornito di impianto elettrico), aspettandomi di trovare chi sa quali tesori.
Ricordo molto bene le sensazioni olfattive delle lunghe ore che trascorrevo in quest'angolo fuori dal mondo: una volta percorso il passaggio che si affacciava sulla strada, si era fuori dalla vista e si era immersi in una quasi impenetrabile coltre di silenzio.
Uno degli odori dominanti era quello delle foglie morte in putrefazioni che cadevano dai grandi alberi subito oltre la piccola corte, in autunno; mentre in primavera arrivava l'odore dolcissimo della zagara e del gelsomino arabo.
Una volta - non so come - arrivò a casa una tartaruga: mia madre non la volle tenere a casa e la mettemmo dentro quel box, all'interno di un vecchio stipetto di legno.
Non era molto attiva. Io andavo a guardarla, forse le parlavo anche e le portavo lasttuga, carote ed altri ortaggi.
Se ne stava immobile, anche troppo. Mi dissero che ciò accadeva perché era caduta in letargo.
Ma poi, un bel giorno, mi resi conto che era morta: lo capii dal lezzo penetrante che impregnava lo stipetto di legno.
Forse fu quello in assoluto il mio approccio con la morte: ma nessuno mi spiegò mai nulla, né mi venne chiesto nulla.
So solo che di quella tartaruga non si parlò più...
Oltre al continuo frugare tra le vecchie cose, uno dei miei passatempi preferiti era quello di impastare il fango in una grossa pozzanghera che si formava dopo la pioggia al centro della corte, il cui tombino collocato in posizione centrale, nel punto più declive, era invariabilmente intasato.
Ricordo che, persino d'inverno, mi piaceva mettermi a piedi scalzi e sentire il freddo del cemento sotto la pianta dei piedi. Era una sensazione deliziosa...
Quando facevo ciò, elaboravo una serie di fantasia su di una storia che la mamma mi avevo letto e che mi era piaciuta molto. Era "Il Principe e il Povero" di Mark Twain (1881) e qui uno degli elementi indicatori della povertà - come il Principe, entrato nei panni del Povero, si troverà a sperimentare - era appunto la mancanza di calzature adeguate (nelle mie fantasie di gioco io ero il Principe che diventava povero, era sempre questa la parte che preferivo).
Al di là di un alto muro in parte dominato da una strana e svettante costruzione cilindrica che, forse, era un silos o solo una cisterna per l'irrigazione c'erano gli alti alberi di un giardino rigoglioso (e, per me, misterioso) che potevo vedere anche dalla loggia posteriore del nostro appartamento.
C'era anche un piccolo ripostiglio ritagliato nell'angolo determinato dalla curvatura del muro della cisterna.
Per me, quel posto era una specie di "giardino segreto" e non sentivo mai il desiderio di condividerlo con qualcuno.
In questi ultimi giorni, ci sono entrato per la prima volta da allora: il luogo sembrava del tutto immutato: forse mi è solo apparso in scala ridotta, rispetto a come lo conservavo nel mio ricordo, ma per il resto del tutto identico.
E' stata una rapida ed istantanea immersione nel passato lontano...