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A volte, sognando, creo degli scenari di città in degrado, prossime alla catastrofe, all’annientamento, all’implosione.
Camminando nella mia stessa città, a volte, ho l’impressione che quegli scenari ricorrenti nel sogno siano reali: la città, mi pare, diviene allora un ipertesto della distruzione.
Non é necessario che ci siano le bombe a distruggere: la distruzione e il degrado (che sono espressione universale del principio del decadimento entropico) si mettono in atto attraverso il cumularsi e il sovrapporsi di piccole trascuratezze quotidiane dalle negligenze dei nostri amministratori strafottenti. Questo è un elemento inoppugnabile.
Ma spesso - affermazione altrettanto vera ed inoppugnabile - siamo anche noi cittadini a dare un nostro potente contributo, attraverso il "non" fare, lo stare semplicemente a guardare lo sfacelo davanti ai nostri occhi senza mettere in atto piccole, elementari, azioni che, ripetute all’infinito da molti, potrebbero fare la differenza ed imprimere una svolta, rappresentando la "cura" (entro certi limiti) del principio entropico.
Cosa ci rende così inerti e passivi di fronte all’incombere del caos?
Provo ad elencare alcune possibili voci (e altre potrebbero essere aggiunte)
La sfiducia nelle nostre forze
L’indifferenza
A volte, l’incapacità di vedere
Il non voler guardare
Il distogliere lo sguardo
Mentre sarebbe sufficiente, in termini simbolici, chinarsi a raccogliere una cartaccia, a prendere una lattina schiacciata e metterla nel cestino dei rifiuti.
Io cammino e fotografo.
Dormo e sogno. Quando mi sveglio trascrivo nel mio taccuino digitale il contenuto dei sogni (quelli che ricordo, almeno).
Poi cammino e fotografo ciò che vedo, ciò che attrae la mia attenzione.
E poi scrivo di ciò che visto.
Tutto si muove all'interno di una grande circolarità, in cui ciascuna azione è premessa di quella seguente, ma in cui tutto si dispone in un circolo, non in una successione lineare, per cui ciascun atto influenza quello che segue, ma è a sua volta influenzato da ciò che l'ha preceduto
Fotografare é modo di guardare, fissando non solo l’apparenza sensibile di ciò che si vede e che attira lo sguardo, ma anche la filigrana delle cose e la loro tessitura nascosta.
A volte, tutto sembra richiamare la mia attenzione con prepotenza e quindi, se sono nel giusto assetto mentale e il mio orecchio può mettersi in ascolto, riprendo con foga straripante; altre volte, davanti a me si dispiega un testo muto, opaco, e in tali circostanze non mi sento per nulla portato a scattare delle foto.
Oggi è stata una di quelle giornate benigne e felici.
Uno di quei giorni in cui ho la sensazione di tornare a casa con in abbondante raccolto di immagini che sono soltanto la punta emergente (come quella di un iceberg) di un pieno di sensazioni, di emozioni e di pensieri.
Nel 2014 (16 giugno), di ritorno da una mia passeggiata mattutina londinese, scrissi queste considerazioni sul fotografare che mi sembrano pertinenti rispetto alle mie considerazioni di oggi, a proposito del fotografare
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Chi è abituato a scrivere, esce con un piccolo quadernetto per buttare rapidamente degli appunti su ciò da cui viene colpito, magari si tratta di un Moleskine con la copertina azzurra, nella migliore tradizione di Bruce Chatwin.
Chi disegna e dipinge, può anche andare in giro con un blocco per schizzi e disegni, ma per questo - per pochi schizzi rapidi e veloci - anche un moleskine può andar bene.
Chi fotografa va sempre in giro - anche se non con l'attrezzatura fotografica più impegnativa, con una piccola macchinetta compatta per poter fissare istantaneamente ciò che entra nel suo campo percettivo.
Scrivere, disegnare, fotografare sono tre attività diverse, ma affini che richiedono di essere costantemente alimentate da stimoli e da suggestioni.
In ciò che si guarda e che con strumenti diversi si fissa in forma di appunti che siano una traccia grafica, una parola scritta o un'istantanea, si vede già una storia, come lo scultore nella radice contorta di un vecchio ulivo o in un blocco di marmo, intravede già una forma che deve essere portata alla luce con fatica e con un duro lavoro.
Le storie sono nella mente di chi guarda: si tratta poi di portarle alla luce e di farle vivere.
Per poter far ciò, bisogna essere sempre con tutti i sensi all'erta, ma nello stesso tempo deporre categorie mentali rigide e pregiudizi, quelle prigioni del pensiero che ti impediscono di vedere autenticamente le cose e che ti fanno dire: "Questo non ha importanza", oppure "Non vale la pena soffermarsi su di un dettaglio tanto stupido!".
Ho notato, di mattino presto, questa giovane donna che trasportava una sedia lungo una via del tutto deserta.
Cosa stava facendo?
Dove stava andando, reggendo con le braccia una sedia ingombrante e pesante?
Stava facendo un trasloco? Oppure aveva trovato quella seggiola abbandonata da qualche parte e aveva deciso di recuperarla, assodato che era in ottime condizioni?
E' arrivata alla fermata dell'autobus quasi avesse deciso di salire sul primo autobus di passaggio.
Forse si era stancata del peso.
Ma la strada era deserta e non c'era nessun autobus in vista.
Sicché, la donna - dopo aver consultato gli orari (almeno, così mi è sembrato, osservando la scena da lontano) - è ritornata sui suoi passi, sempre reggendo quella sedia, camminando con piglio spedito.
L'ho seguita con lo sguardo, finché non è svanita nel nulla.
Nella foto: la donna con la sedia (Shadwell, lungo the Highstreet, una domenica mattina molto presto).
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