Quello che segue è un mio ricordo di infanzia, originariamente pubblicato nella mia pagina Facebook, il 12 gennaio 2010, come "nota".
C'era una volta la memoria, e gli anziani col cappello che si incontravano la domenica nelle piazze. C'erano una volta le città e le piazze, dove bambini si raccoglieva la memoria degli anziani, e i tappi delle bottiglie sotto i tavolini.
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La frase che ho riportato sopra è l'incipit della rievocazione nostalgica della Parma d'un tempo da parte di Bebbe Sebaste: e mi ha immediatatamente fatto ricordare un episodio della mia infanzia che voglio raccontare.
Quando ero piccolo, passavamo le nostre estati a Mondello, in una casa d'inizio secolo posta in una splendida posizione, all'inizio di Fossa del Gallo, sventuratamente poi venduta.
L'usanza era che di mattina si andasse tutti in spiaggia e che, invece, nel pomeriggio, dopo il riposo di prammatica, quando l'ora si faceva più fresca e calavano le prime ombre della sera, si facesse una passeggiata sino alla piazzetta del borgo marinaro, per sedersi al bar e prendere un gelato o una granita e soprattutto per chiacchierare.
La comitiva era sempre numerosa perchè c'erano anche molti dei miei cugini, con le cui famiglie dividevamo l'uso della casa.
I tavoli erano disposti su d'un impiantito di assi di legno che compensava la naturale pendenza del terreno.
Qui, il mio passatempo preferito di bambino molto irrequieto e sempre in movimento era quello di andare alla ricerca dei tappi delle bibite gassate sparsi per terra oppure cadute negli interstizi tra le assi.
Era una ricerca instancabile, la mia, e non mi peritavo di strisciare tra le gambe degli avventori o di calpestare loro i piedi pur di raggiungere una mia ambita preda.
E ogni volta tornavo da mia madre a mostrarle, pieno di orgoglio, una mia nuova conquista: "Mamma, mamma, guarda cosa ho trovato!"
Le mie grida di giubilo era ancora più forti se mi imbattevo in un tappo mai trovato prima.
Ero un testardo e, una volta iniziata la caccia al tappo, non volevo più separarmi dalle mie conquiste, quasi che fossero preziosissime monete d'oro.
Mia madre, sempre molto paziente e accogliente nei confronti delle mie bizzarrie bambinesche, mi diede un grande sacco di plastica trasparente dove riporli.
E così la mia collezione cominciò a crescere, man mano che si estendevano i miei terreni di ricerca: anche la sabbia, per esempio, dava buoni frutti...
Poi, naturalmente, ci giocavo anche: li impilavo, li mettevo in fila, li raccoglievo per tipologia di marca e anche quelli senza alcun disegno avevano un valore, anche se li consideravo di rango decisamente inferiore.
Qualche volta li contavo, per stabilire a quanto ammontasse il mio patrimonio.
Insomma, ritenni di essere diventato quasi ricco quando sforarono i mille e quel sacco che mi aveva dato mia madre era ormai stracolmo...
Ad un certo punto, mia madre mi disse: "Ora, Maurizio, sei cresciuto. Non pensi che sia l'ora di sbarazzarti di tutti questi tappi?"
"Hai ragione, mamma! - risposi io.
E senza aggiungere altro me ne andai nella mia stanza.
Allora abitavamo al primo piano di una palazzina dietro la quale vi era un ampio giardino incolto con grandi alberi secolari e, subito sotto, dei corpi bassi dove avevamo una sorta di garage che fungeva anche da magazzino di sgombro.
La mia stanza si apriva proprio su questo lato interno, attraverso una porta-finestra che immetteva su di uno stretto balconcino.
Con molta determinazione, afferrai il sacco dei tappi, mi affacciai e lo lanciai con vigore insospettabile sul tetto del garage sottostante.
All'impatto, il sacco esplose con un big plof e un gradevole effetto pirotecnico di tappi che si spargevano in tutte le direzioni.
Andai da mia madre: "Li ho buttati" - dissi.
"Dove?" - fece lei.
"Fuori dalla finestra", risposi con grande serietà.
E fu così che mi sbarazzai della mia preziosa collezione di tappi.
In verità, li buttai senza buttarli veramente, perchè ogni giorno mi affacciavo e li guardavo. Erano rimasti sotto il dominio del mio sguardo.
Nessuno li rimosse mai e lì rimasero finchè non rimanemmo ad abitare in quella casa.
Poi, non so.
Ogni tanto mi capita di pensarci e mi chiedo se, per caso, non siano ancora là.