Ogni mattina sono alla piazzetta della Noce (a Palermo), nei pressi dell'Istituto Valdese, dove mio figlio Gabriel va a scuola.
Io vado a piedi o in macchina e lì ci incontriamo con Maureen e Gabriel, poco prima dell'orario di ingresso.
La piazzetta, dominata da una statua della Madonna che riposa su di un alto plinto, benchè risistemata di recente e spesso sporca di spazzatura fluttuante, tipo sacchetti di plastica e incarti spostati dal vento qua e là, quel tipo di lordura endemica che caraterrizza tante vie e piazze della nostra città.
Ma, nello stesso tempo, è confortevole, perchè fornita di alcune panchine in ferro che (stranamente) non sono ancora state vandalizzate, forse perchè considerate dagli abitanti del quartiere un "loro" bene pubblico.
All'orario del mio arrivo, solitamente non c'è nessuno e le panchine sono tutte libere.
Poi, appena un po' più più tardi, la piazzetta si anima e arrivano alcuni abituali suoi frequentatori, probabilmente del quartiere, alcuni dei quali vanno ad occupare sempre la stessa panchina.
Una mattina, desideroso di cambiare prospettiva, sono andato a sedermi proprio su quella panchina.
E mi sono sistemato a fare le mie cose per un'attesa operosa (si interpreti: leggere un libro).
Nemmeno avevo iniziato a leggere che è arrivato un tizio del gruppo di panchinari fissi e benchè, tutte le altre panchine fossero libere, si è seduto accanto a me con tenace invadenza.
Io sono rimasto ma sentendo la mia privacy compromessa. Come quando al cinema, benchè la sala sia del tutto vuota, uno arriva e si piazza o davanti o dietro o accanto a te.
Da parte del frequentatore abituale della piazzetta (indigeno del quartiere giunta) ho sentito quell'azione come una dichiarazione di possesso, non detta a parole: "Questa panchina è mmmmia!".
Siccome di lì a poco sarebbero arrivati Maureen e Gabriel e , a meno di stringersi come sardelle, non ci sarebbe stato posto per tutti, dopo una dignitosa persistenza durata qualche minuti, mi sono spostato per sedermi sulla panchina di fronte che era libera, ovviamente.
Poco dopo, la mia defezione, sono arrivati i suoi compagni di merendine, quelli con cui il ciondolamento senza far nulla si protrae nell'arco della mattinata. E quello, il primo della combriccola ad arrivare sul posto, è rimasto a fissarmi a lungo.
Wow!
Nei giorni successivi mi sono sempre seduto in panchine diverse della piazzetta, ma mai più su quella.
Il tizio che indossa sempre pesanti occhiali da sole e che è sempre con la barba non fatta, arriva sempre poco dopo di me e sistematicamente si siede su quella panchina (si siede sempre esattamente sul lato della panchina che io avevo occupato quella volta).
Mi sembra che mi guardi in cagnesco e in maniera ostentamente prolungata, con gli occhi nascosti dietro quegli occhialacci neri. Quel suo sguardo insistito mi dice: "Vedi, questa panchina è mmmmia! Mia! Mia!"
Mi è sembrato si sia trattato di un fenomeno sociologicamente rilevante che ha a che vedere con la "marcatura" del territorio e con l'affermazione di proprietà personale su qualcosa che, in verità, è pubblico.
Come se quella panchina in quella specifica piazzetta assolvesse alla funzione del cosiddetto "stammtisch" delle birrerie tedesche (in cui il termine fa riferimento sia al gruppo di persone che si riuniscono, sia al tavolo - usualmente rotondo - da esse occupato).
Questo piccolo episodio mi ha fatto ricordare del tempo in cui frequentavo i corsi universitari.
Quando ero ancora una matricola, avevamo una lezione nelle prime ore del mattino, forse alle 7.30, e occorreva andare al Policlinico molto presto.
La lezione si svolgeva in un'aula ad anfiteatro, con i banchi a scala, e con una fila di poltroncine, proprio in basso, dove il professore aveva la sua postazione.
C'erano alcuni miei colleghi che occupavano solitamente quelle poltroncine e, per poterlo fare, arrivavano prestissimo, con largo anticipo: erano un misto tra quello che oggi si definirebbe un "nerd", ma a quei tempi la parola adatta era "secchione" e il tipo del leccaculo. Chi di loro arrivava per primo occupava i posti anche per tutti gli altri: in fondo, avevano costituito una sorta di lobby informale. Si capivano bene tra loro (e si tratta di quelle intese che si colgono al primo sguardo).
In omaggio alla loro duplice natura, oltre a prendere accanitamente appunti, presentavano il "Segno di De Musset", cioè facevano continuamente dei movimenti oscillatori con la testa (per indicare che avevano ben capito e che stavano seguendo, bevendo le parole del prof come se fossero acqua benedetta), come quelle famose statuine cinesi con la testa oscillante. Era uno spettacolo proprio buffo. E, poi, da parte loro c'era il rito delle domande pseudo-intelligenti, sempre per farsi notare dal professore ed entrare così nelle sue grazie. Erano anche quelli che spesso e volentieri si intrattenevano con il prof a fine lezione e facevano capannello attorno a lui.
Io me ne fregavo di tutto questo.
Non avevo simili preoccupazioni e un'assoluta fiducia nelle mie risorse personale, senza bisogno di ricorrere a simili astuzie.
Forse proprio per questa mia diversa concezione, lo stile leccardino di questi miei colleghi mi indisponeva.
E così decisi che per una volta sarei arrivato prestissimo, molto prima di loro e che avrei occupato una di quelle poltrone di prima fila.
Non vi dico le reazioni. Perchè uno dei secchioni/lecchini rimase ovviamente senza posto e privato della possibilità di esercitare le sue virtù. E non ci potè nulla: io benchè pressato a lasciare la poltroncina rimasi con il culo incollato ad essa.
L'escluso era incazzato nero e si muoveva come un leone condannato all'esilio, come se fosse stato privato della possibilità di esercitare un diritto acquisito e inamovibile.
Ma tant'è.
Io durante quella lezione mi divertii tantissimo, guardando di sottecchi la mimica e il comportamento di quel povero esiliato a cui avevo rovinato per una volta la festa.
E benchè con il suo sguardo dicesse "Quella poltrona è mmmia!" fu costretto alla fine ad accettare la sua condizione di escluso.
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