Le riflessioni che seguono scaturiscono da una vecchia foto in cui mi sono imbattuto casualmente l'altro giorno, un'immagine dell'infanzia di mio fratello. Guardando questa foto un po' sfocata, sono stato colpito dal suo sorriso e anche dalla sua postura dritta (che aveva conquistato grazie alla continua fisioterapia cui era sottoposto, inizialmente anche in centri fuori dalla Sicilia. Salvatore da piccolo poteva stare seduto con la schiena dritta, senza accoffolarsi in avanti, come invece era negli ultimi della sua vita.
Mi sorprende guardare queste sue foto. Malgrado la sua grave disabilità, io credo che sia stato un bambino felice, perché era cresciuto in un ambiente familiare di totale dedizione, ma soprattutto per il fatto che i miei genitori - sin dall'inizio - avevano cercato di farlo crescere pienamente integrato nell'ambiente familiare allargato e nella dimensione sociale, dandogli l'idea e il feeling che lui non era un "diverso" e che, comunque, gli erano aperte molte possibilità.
Nello stesso modo, io fui addestrato da miei genitori a tenere conto dei suoi limiti, sempre, e nello stesso tempo, a fornire tutto l'aiuto necessario in modo tale che nessuno fosse insostituibile (e così è stato, quando mio padre è morto precocemente). I miei genitori per molto tempo della nostra infanzia facevano in modo che lui potesse partecipare a tutte le attività familiari, comprese gite, escursioni, picnic, brevi viaggi, oppure semplicemente l'andare al mare nei mesi estivi. Si faceva tutto assieme sempre, rispettando il principio del "Nessuno deve essere lasciato indietro". Per loro era importante che Salvatore venisse considerato alla pari: era per questo che, nei limiti del possibile, a volte lo mettevano in piedi per ritrarci in fotografia: e allora, da ragazzo, sempre grazie alla fisioterapia poteva reggersi in piedi, se sostenuto opportunamente e senza applicare una forza eccessiva per tenerlo su, perchè in questi casi in mancanza di una motilità volontaria era la stessa spasticità a fungere da leva (si può vedere questo in una delle immagini successive, in calce al testo). Ed erano fieri di lui e dei suoi progressi: non ritenevano - in difformità all'atteggiamento mentale di molti - che la disabilità fosse una cosa da nascondere o di cui vergognarsi, in quanto oggetto socialmente scomodo. In questo, i mei sostenuti dalla loro intelligenza e dall'amore che provavano per il loro primo figlio, furono dei veri pionieri.
E c'era da un lato la mamma che non perdeva mai il sorriso e papà che si assumeva il compito di infondere forza e di assumersi il privilegio/onere di svolgere i compiti più gravosi, soprattutto quando Salvatore crescendo era aumentato di peso: sino al 1962, dunque sino ai suoi 14 anni e rotti, abitammo in una casa senza ascensore, sia pure al primo piano. E quello del trasporto da casa sino all'auto divenne presto un compito esclusivo di mio padre: declinava quasi sdegnosamente ogni offerta di aiuto. Quando Papà non c'era, ero io ad aiutare la mamma nelle entrate e nelle uscite a casa.
Ecco, i miei genitori si fecero carico di tutto e per tutto di mio fratello, metaforicamente e materialmente.
Io sono cresciuto in questo clima, di parità. La mamma non aveva un comportamneto differenziato, in termini di maggiore tolleranza, nei confronti di mio fratello. Se la facevamevo innervorsire, con la ridarella, per esempio, di rimproveri ne dispensava in maniera eguale a me e a lui: un'attitudine di eguaglianza, mai viziata da un eccesso di buonismo protettivo di marca cattolicheggiante. E io appresi a comportarmi nei confronti di mio fratello come un'eguale: quando ebbe una prima carrozzina moderna (portata dalla Germania da mio zio Giovanni) che apparve ai miei occhi come uno spider rispetto alla precedente oesante e poco maneggevole, quando eravamo in casa da soli (anche se la nonna era presente, era come se fossimo soli), io da spingitore, mi lanciavo in corse pazze su e gù per la casaosa, affrontando gli angoli e i punti di svolta a tutta birra e rischiando qualche volta di far ribartare la carrozzina. E io stesso qualche volta mi ci mettevo seduto per provarla. Per via di questa attitdine di papà e mamma io sono diventato rapidamente capace di occuparmi di mio fratello, fondamentalmente con lo spirito che così facendo non stessi facendo nulla di eccezionale o di straordinario, ma soltanto una cosa assolutamente normale e ordinaria: cose come alzarlo dal letto, mettecelo, aiutarlo a mangiare, quando i miei uscivano. E anche in queste circostanze ci divertivamo da matti.
Poi, in una fase successiva, i miei decisero diversamente. Rifletterono sul fatto che, procedendo in questo modo, io sarei stato sacrificato e che avrei dovuto andare incontro a delle rinunce che non era giusto infliggermi. Con la crescita corporea di mio fratello le difficoltà logistiche erano aumentate a dismisura, anche perchè negli anni Sessanta e ancora dopo, ci si doveva muovere in un mondo irto di barriere architettoniche. E fu così che decisero di differenziare le cose: a partire dai miei 11 o 12 anni, ogni estate io facevo un breve viaggio con la mamma in luoghi relativamente lontani: le più grandi città italiane come Roma, Venezia, Napoli e alcuni paesi europei. Questo, una volta, pochi mesi prima di morire, mi raccontò la mamma, chiedendomi scusa - a mo' di preambolo - se, in tante circostanze, aveva privilegiato Salvatore, trascurandomi.
Forse proprio per questa forma di integrazione massima, mio fratello negli anni dell'adolescenza, assieme ai cambiamenti legati alla pubertà, ebbe un lungo periodo di crisi, perché cominciò a non accettare più tanto la sua disabilità.
Ricordo di un periodo difficile durato mesi interi in cui chiedeva disperato ai miei genitori di aiutarlo a farlo guarire, dichiarandosi disposto a sottoporsi a qualsiasi intervento chirurgico che fosse possibile fare, anche se fosse stato a rischio di riuscito o se avesse potuto mettere a repentaglio la sua vita. Ricordo notti insonni in cui mio fratello nel suo letto piangeva e si disperava, mentre i miei cercavano di consolarlo, sentendosi del tutto impotenti. Cosa non farebbe un genitore per far stare bene il proprio figliolo? A volte lo si fa, persino implorando il miracolo: la mamma mi ha raccontato, più avanti negli anni,di essere stata con lui persino da Padre Pio (ma questo accadeva nei suoi primi anni di vita).
Ovviamente, non c'era alcun tipo di intervento chirurgico che si potesse affrontare per sanare la situazione.
Alla fine, lui si rassegnò. Si ristabilizzò. Non perse il suo sorriso, che però da quella fase cruciale della sua vita, fu venato di malinconia.
Ed anche dopo quella crisi, non lesse più un solo romanzo, perchè i romanzi forse gli facevano sentire la discrepanza tra le infinite possibilità della fantasia e i limiti duri del suo mondo con cui doveva quotidianamente confrontarsi. Viceversa, si avviò un processo di riconversione totale dei suoi interessi intellettuali ed ebbe inizio il lungo, inarrestabile, processo di approfondimento delle tematiche concernenti le disabilità in tutte le le loro sfaccettature: credo che ebbe un ruolo decisivo in questo percorso la creazione da parte di mio padre dell'ASAS (ovvero Associazione siciliana per l'Assistenza agli Spastici)
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