
E' molto difficile, in certi momenti della vita, trovare qualcosa da dire o da scrivere. Quando ciò capita, ci si sente prosciugati, inariditi.
Quando ci si ritrova a chiedersi perchè mai, dopo un profluvio di cose scritte sugli argomenti più diversi, si crea all'improvviso il vuoto.
E' quello che mi capita adesso, in questi giorni.
Non riesco ad attingere alla mia interiorità, se non a fatica.
Anche il vasto serbatoio dei sogni sembra essere muto (nel senso che le immagini e gli scenari onirici sprofondano subito nell'oblio, prima ancora che abbia avuto il tempo di ghermirne qalche brandello).
Se m'accingo a scrivere, come vorrei, di qualcosa, qualsiasi cosa che mi capiti a tiro, la pagina bianca rimane miserevolmente vuota.
Eppure, lo so, c'è sempre qualcosa che fa pressione per poter riemergere o nascere, tout court.
L'altro giorno, mentre passeggiavo, ho visto un gatto morto sul marciapiedi che costeggia la scuola elementare vicino casa, pareva che dormisse.
Il suo corpo era intatto. Era adagiato mollemente su di un fianco, gli occhi chiusi come nel sonno. L'ho fotografato, nella luce del sole radente del primo mattino: un campo lungo che includeva la mia ombra, quasi io e quel gatto fossimo intenti ad un breve dialogo.
Ho annotato mentalmente: "Un povero gatto che esaurito le sue nove vite da vivere", pensando ad un'affiche in stile psichedelico (più o meno, in dimensione 50X70) che mio padre mi portò da New York, dopo il suo primo viaggio negli States e che raffigurava, appunto, un gatto stilizzato multicolore (un gatto arlecchino, quasi) e nella metà inferiore del disegno campeggiava la scritta "Pity the poor cat with nine lives to live". Questo poster, debitamente montato su pannello di legno con una tecnica che oggi la maggior dei corniciai hanno abbandonato, mi ha accompagnato nel corso della vita, sempre in buona vista, sino a pochi anni fa.
Mi era piaciuto, sin da quando mio padre lo dispiegò davanti a me, proveniente nientemeno che da una delle tante bottegucce hippie e in stile, come si diceva da noi in Italia, "figli dei fiori" che, allora, alla fine degli anni Sessanta proliferavano nell'area di Greenwich Village a NY. Cose d'altri tempi: cascami di una cultura in via di estinzione che già allora, con l'avvento del merchandising di se stessa, rendeva l'anima al Cielo.
Ora quel poster si trova accatastato contro una parete, come altre reliquie del passato.
Ogni cosa in cui ci imbattiamo nel corso della vita, qualsiasi incontro per quanto tenue, fa risuonare una nota interiore, attiva un ricordo, riportandoci indietro nel tempo.
Alcune cose hanno un maggiore valore pregnante, fungendo da vera e propria capsula del tempo, rispetto ad altre.
Cosa porterei con me se mi dicessero di fare armi e bagagli, ma solo lo stretto indispensabile!, per andare a vivere confinato su un'isola deserta per il resto della mia vita?
Quali oggetti, veicolo di ricordi, selezionare?
Il compito sarebbe ben arduo.
In realtà poi, ci si rende presto conto che mollare la presa sugli oggetti materiali che ci circondano, nei quali è iscritta la nostra storia, è un'impresa più semplice del previsto.
Si comprende che le cose si possono abbandonare, lasciandole alle nostre spalle: è soltanto il racconto che noi ne facciamo, e il ri-racconto e il ri-ri-riracconto, che le rende viventi.
Senza quei racconti, quegli oggetti sono cosa morta: quindi ciò che conta è la trasmissione dei racconti che li riguardano, più che il passaggio di mano degli oggetti medesimi.
L'altro giorno guardavo delle vecchie foto pubbliche di mio padre: molte erano conservate in buste a sacco, a volte raccolte per eventi, altre volte mescolate a caso. Solo alcune delle buste recavano scritte a penna, la data e le circostanze. Altre non possedevano alcuna coordinata che consentisse di localizzarle nello spazio e nel tempo. Talune delle foto recavano sul retro data e qualche altra scarna annotazione: in alcune di queste annotazione indovinavo la grafia di mia madre.
Davanti a questa processione di immagini, ho avvertito un senso di smarrimento, accresciuto dal fatto che, oggi, non c'è più nessuno a chiedere delucidazione, spinto da una curiosità quasi infantile: domande come "Cosa succede qui? E lì?".
Ma anche, guardando il contenuto di un'altra busta, con le foto giovanili di canottaggio di mio padre e di altre relative a raduni, gite fuori porta, camminate, e tante foto di gruppo in cui tutti i giovani uomini presenti si prendevano molto sul serio e si esibivano in posture gravi, da giovani che vogliono sentirsi maturi anzitempo, di rado sorridenti, ho pensato: Ecco, qui sto guardando delle immagini in cui tutti i presenti sono persone morte e scomparse, alcune prematuramente, consegnate all'oblio dell'anonimato. Chi sono? Cosa facevano? Perchè erano lì? Dove si trovavano?
E sono stato preso da una sensazione di vertigine.
Quando si guardano le cose del passato, anche del proprio passato, man mano che gli eventi e i loro dettagli sbiadiscono nel processo della reminiscenza, si può avere la sensazione fortissima di trovarsi davanti ai resti spiaggiati di un naufragio e di essere come coloro che, sopraggiunti ad assistere a quel che resta di una catastrofe, si vanno spostando da un frammento di oggetto ad un altro, cercando di ristabilire i punti chiave di una storia che ormai è divenuta irraccontabile e già sprofonda irrevocabilmente nel gorgo del tempo.
E questo è quanto sono riuscito a spremere da me stesso, oggi.