
(Maurizio Crispi) L'impresa dei Mille fa parte dell'epopea risorgimentale, anzi ne rappresenta forse il momento più alto, qando per un fortuito concorso di circostanze quella che sembrava essere un semplice azzardo si trasformò in un evento di fondazione nel farsi di una nazione, grazie al fatto che ttte le tessere andarono a posto al momento giusto senza che nessun evento contrario si manifestasse, senza che - in altri termini, come si direbbe oggi - le Legge di Murphy ci mettesse il suo zampino.
Tutti noi della generazione del dopoguerra - come del resto la generazione dei nostri genitori e quella prima ancora - siamo cresciuti, ricevendo le narrazioni sull'impresa dei Mille e leggendone da più grandicelli i resoconti scritti, sia in foma diaristica sia in forma romanzata. E penso a libri come "Picciotti e Garibaldini" di Giuseppe Ernesto Puccio (prima edizione nel 1919 e riedito nel 1969 in occasione del centenario dell'impresa dei Mille da Bemporad-Marzocco) oppure a "Storia dei Mille" di Giuseppe Cesare Abba (Riedizione con Bemporad-Marzocco nel 1959) o anche "Da Quarto al Volturno", sempre di Giuseppe Cesare Abba (Zanichelli Editore, 1960), per non parlare del bellissimo resoconto, corredato di splendide illustrazioni, di Jessie White Mario, moglie del garibaldino Alberto Mario che tuttavia non ebbe seguito editoriale (Garibaldi e i suoi tempi, Fratelli Treves, Torino, 1910), solo per citarne alcuni. Queste letture facevano parte del percorso di formazione sia dei giovani dell'Italia monarchica sia di qelli della nascente Italia repubblicana: erano importanti perchè raccontavano di come si fosse fatta l'Italia. Ricordo che - all'ingresso del mio secondo decennio di vita - ricevetti in regalo questi volumi e li lessi, appassionatamente, senza poterne apprezzare ovviamente il valore storico, ma soltanto la narrativa avventurosa di cui erano stillanti e che li rendeva affini alle epopee salgariane. Del resto Garibaldi appare sempre come il perfetto eroe del mito, senza macchia e senza paura (sin dall'episodio giovanile del salvataggio in mare di un bimbetto che stava per annegare, che ci facevano studiare nel libro sussidiario e raccontarci di che tempra fosse fatto sin da giovane il personaggio), intrepido e deciso, pronto a sfidare il pericolo in ogni circostanza, generoso e pronto a ritirarsi quando i soi compiti fossero stati portati a termini e senza desideri di protagonismi, al di là del circoscritto momento storico.Altrettanto epici, pertanto, erano i suoi ritorni a Caprera a coltivar lenticchie.
Il Risorgimento italiano è un'epoca storica che da sempre ha appassionato gli storici britannici (non bosiogna trascurare che il Regno Unito, anche diploticamente, fu uno dei principali sostenitori del processo che porto all'unificazione e all'affrancamente di parti dell'Italia dal dominio straniero). E ad accendere l'immaginario collettivo, prima ancora che si destasse l'attenzione degli storici, furono personaggi della levatura di Giuseppe Garibaldi, l'"Eroe dei due Mondi".
Storici di grandissima levatura si sono occupati di personaggi chiave dell'epopea risorgimentale: basti pensare alla monumentale biografia di Francesco Crispi scritta da Christopher Duggan (Creare la Nazione. Vita di Francesco Crispi, Laterza Editore), punto di riferimento per qualsiasi studio su Crispi, oppure le opere sia biografiche che storiche di ampio respiro di Dennis Mack Smith, tra le quali quella su Cavour. Appartenente ad una generazione precedente di studiosi e, per così dire "apripista" della tradizione storiografica britannica sul Risorgimento, ci fu George M. Trevelyan che volle raccontare in una sua opera monografica l'impresa dei Mille e i suoi antefatti e che, a tal fine, intraprese anche un viaggio attraverso l'Italia per percorrere e vedere con i suoi occhi i luoghi della grande avventura, avendo l'opportunità di parlare con alcuni dei testimoni di qell'epopea ancora in vita e di raccoglierne le testimonianze.
Il suo volume "Garibaldi and the Thousand", originariamente pubblicato nel 1904, vide una prima edizione in traduzione italiana nel 1910. Successivamente non più riedito, è stato ripreso nel 2004 - ma solo in parte - nella collana "Il Cammello Battriano" da Neri Pozza, con il titolo "Garibaldi in Sicilia" (titolo originale: Garibaldi and the Thousand. May 1860, nella traduzione di Francesco Francis), con una prefazione di Stefano Malatesta.
Così scrive Stefano Malatesta, curatore della collana nel risguardo di copertina (nel quale è riportata parte della prefazione).
Esistono dei libri che, prima di ogni altra cosa, prima di essere ben scritti, ben pensati, ben architettati fanno del bene al lettore. Sono, in una parola, taumaturgici, una categoria che normalmente sfugge alle catagolazioni dei letterati, difficili da accontentare perchè di carattere diomeneguardi.
Ma che i pittori conoscevano bene: Cézanne mandava sempre un suo quadro, in prestito naturalmente, ad un amico malato perchè era convinto che guardare un bel dipinto aiutava a guarire.
"Garibaldi in Sicilia" è il testo più taumaturgico che io conosca e questo potere di rimetterti in piedi è null'altro che un immenso entusiasmo dell'Autore per la straordinaria impresa dei Mille, per Garibaldi soprattutto, per l'Italia amatissima e per gli Italiani che si trasmette dopo poche righe e smuove i precordi, e se giaci a letto ammalato ti alzi gettando via le bende come Lazzaro.
Trevelyan, lo storico più letto della sua generazione, era pienamente consapevole che stava raccontando una vicenda unica, uno di quei fatti che accadono una volta in un secolo, in cui tutto congiura a fin di bene, l'esatto contrario di quel che accade nella vita normale.
Di grande famiglia liberale era già diventato famoso scrivendo la storia del suo paese, una storia dei suoi abitanti alla ricercae al ritrovamento della libertà, che faceva degli inglesi una poppolazione anomala in un mondo quasi tutto assoggettato alla tirannide.
Ed ora anche gli Italiani, dopo secoli di dominazione straniera, erano riusciti a conquistare la loro libertà in un modo così romantico, così drammatico e così coraggioso, che nella sua prosa si sente tutta l'emozione di parlare di avvenimenti così straordinari che si svolgono nell'allora paese più bello del mondo.
In un momento in cui le sfortune politiche dell'Italia inducono, genericamente parlandoa una sorta di rassegnato pessimismo, leggere il libro di Trevelyan fa lo stesso effetto e fa molto meglio del prozac.
E non si può che essere d'accordo con queste parole di Malatesta, il quale nella prefazione aggiunge anche che ci saranno, sì, successivamente dei testi più profondi, più documentati, più fondati su ragionamenti storici ponderati, a proposito di Garibaldi e dell'impresa dei Mille, ma nessuno mai sarà capace di suscitare nel lettore un tale entusiasmo e a coinvolgerlo direttamente: si veda, ad esempio, la narrazione - quasi epica - della battaglia di Calatafimi, cruciale per l'esito dell'intera avventra garibaldina, oppure qella delle marce forzate e depistanti dietro ai monti della Conca d'Oro alla ricerca del momento più opportuno per scendere verso la città, facendo breccia sulle forze borboniche, numericamente di gran lunga superiori e meglio armate.
Si dice che Trevelyan per poter scrivere dell'impresa dei Mille abbia compiuto un viaggio in Italia sulle orme di Garibaldi dallo sbarco a Marsala sino al Volturno, percorrendo alcuni tratti di strada a piedi e incontrando alcuni che avevano avuto modo di partecipare all'impresa o di essere testimoni di quegli eventi: fonti di prima dunque.
E questa conoscenza acquisita direttamente sul campo egli la trasfonde nella sua opera.
Garibaldi in Sicilia è il primo atto dell'opera di Trevelyan sull'impresa dei Mille (dopo il suo racconto sulla presenza di Garibaldi nello scenario della Repubblica Romana), ma di essa è la parte cruciale perchè rappresentò il fondamento su cui si costruisce l'intera epopea garibaldina che porterà all'Unità d'Italia.
Nessuno scrittore o storico italiano di quel periodo fu in grado di scrivere o di ragionare di quel periodo con la stessa lucidità.
Trevelyan, già storico riconosciuto di grande valore e autore di un opera fondamentale sulla storia d'Inghilterra, fu contagiato dall'alone di celebrità che circondò Garibaldi dopo il compimento dell'impresa dei Mille e che fece sì che, al suo arrivo in Inghilterra per una visita, nel 1864, trovò ad accoglierlo delle folle oceaniche e acclamanti che lo consideravano un vero e proprio eroe contemporaneo che diventò anche un personaggio "mediatico" ante litteram, se si considera tutto il merchandising indotto dalla sua figura (statuine di terracotta, indumenti, biscotti etc). E, d'altra parte, Garibaldi sotto questo profilo, nell'epoca dei primordi della Fotografia come strmento di documentazione ed anche come Arte, fu un antesignano di tutte quelle attività che attengono alla "cura" della propria immagine pubblica: egli infatti, come testimonia la sovrabbondante iconografia per immagini dell'epoca non rifuggiva affatto dal farsi ritrarre, con tutti i mezzi a disposizione (inclusa quindi la fotografia) e a far diffondere le sue immagini nel mondo, quasi fossero "santini" o come cartoline postali. Del resto, egli, aveva il carisma per impersonare l'Eroe e in alcuni casi il "Salvatore" o il "Santo" che compie miracoli (non era raro che durante la sua impresa arrivassero da lui rappresentanti delle popolazioni liberate e che si porstrassero davanti a lui o gli volessero baciare la mano, come atti di devozione più che di sottomissione. E tutto ciò rimane, anche se poi, in anni successivi, la figura di Garibaldi venne ridimensionata e fu anche messa in discussione, quando alcune frange di storiografi cominciarono a parlare dell'impresa dei Mille come di un'avventura di conquista "coloniale", di asservimento e di sottomissione.
L'enorme carisma di Garibaldi fece sì, tanto per citare un esempio ragguardevole, che Luigi Ferrari, suo feritore in Aspromonte e insignito per questo di una medaglia d'oro al valore militare, visse molti anni della sua vita da reietto, additato quasi al pubblico ludibrio, per dover portare su di sè l'onta di aver colpito Garibaldi con un colpo di moschetto, almeno sino a quando non ottenne - dopo molte traversie burocratiche - che la motivazione ufficiale del conferimento di quella maledetta medaglia non fosse coambiata: si veda il volume "Ho sparato a Garibaldi.La storia inedita di Luigi Ferrari, il feritore dell'Eroe dei Due Mondi", scritto da Arrigo Petacco e Marco Ferrari, entrambi suoi discendenti (Mondadori, Collana Le Scie, 2016).
Il volume di Trevelyan l'ho letto voracemente e l'ho apprezzato, come fosse "una pillola di Prozac", come dice Malatesta in prefazione, trovandovi un piacere infinitamente superiore a quello scaturente dalla frequentazione di quei racconti garibaldini che mi propinavano da leggere nella mia infanzia. Forse perchè adesso conosco un po' di più la storia di quel periodo, ma forse anche perchè mi è familiare la geografia dei luoghi in cui si dipana l'avventura di Garibaldi in Sicilia
(Soglie del testo) Pubblicato per la prima volta nel 1909 e incluso in "Garibaldi e i Mille", secondo volume della trilogia garibaldina di Trevelyan, il libro fu accolto con grande entusiasmo dalla critica contemporanea. Il racconto parte dal trionfante ritorno in Italia di Garibaldi, accolto subito come l'eroe liberatore della Sicilia dal dispotico potere dei Borbone. Il libro non si limita a narrare le gesta del condottiero, ma identificandosi completamente con il suo eroe, Travelyan rievoca anche il paesaggio siciliano del 1860, il suono della battaglia, fino a raggiungere le vette della partecipazione emotiva con il racconto della presa di Palermo. Un libro che ha inaugurato il mito di Garibaldi nei paesi anglosassoni.