Dopo diversi libri sulla filosofia del viaggiare lento, sulla "filosofia della corsa" (Correre é una filosofia. Perchè si corre") e dopo la precedente biografia-intervista a Marco Olmo (Il corridore. Una vita riscattata dallo sport), grande interprete della corsa in natura sulle lunghissime distanze, Gaia De Pascale con Come le vene vivono del sangue. Vita imperdonabile di Antonia Pozzi (Ponte alle Grazie, 2016), ci regala una interessante biografia "in soggettiva" (dunque, in forma di romanzo) su di un personaggio controverso dell'Universo letterario italiano della prima meta del Novecento e scomparsa dopo una breve, intensa, vita sempre controcorrente e all'insegna dell'esplorazione anti-conformista.
Tuttavia qualcosa, in me, non ha mai smesso di dare l'impressione di essere in procinto di cedere, come se una crepa fosse sempre sul punto di aprirsi per i movimenti tellurici della mia anima. Ma era la troppa vita, quella che forzava le pareti, fino a venare la crosta esterna nella quale tutti, intorno a me, hanno sempre cercato di stringermi.
Molto è già stato detto su Antonia Pozzi, ragazza "imperdonabile" che, nonostante la sua breve vita, ha lasciato più di trecento poesie, numerose lettere, pagine di diari e circa tremila fotografie, e la cui figura è oggetto di una straordinaria riscoperta di pubblico e di critica.
Molto è già stato detto su di lei, accurati studi critici e biografici ne hanno già messo in evidenza poetica e vita. Eppure, c'e sempre, quando si parla di lei, l'impressione di qualcosa di incompiuto. Come se la "troppa vita" che le scorreva nel sangue non si sia mai voluta lasciare decifrare fino in fondo. Come se ci fosse sempre troppo da dire e nello stesso tempo un'urgenza di silenzio avesse costantemente percorso lei e le persone che le stavano accanto.
Per raccontare questa figura complessa, profonda e a tratti enigmatica, che ha attraversato gli anni Trenta con intelligenza e passione, sofferenza e determinazione, Gaia De Pascale ha scelto la via del romanzo.
Il libro dà la parola alla stessa Antonia, scavando nell'animo della protagonista e restituendo le persone, i luoghi e le atmosfere di un tempo cruciale sotto ogni punto di vista per la storia del nostro Paese. In bilico tra realtà e finzione, "Come le vene vivono del sangue" usa il verosimile come unico mezzo possibile per accedere al fondo segreto dell'esistenza di Antonia Pozzi, e rende omaggio a una figura femminile che ha saputo attraversare con la stessa profondità tanto la vita quanto la morte.
Eppure c’è sempre, quando si parla di Antonia Pozzi, l’impressione di qualcosa di incompiuto. Come se la “troppa vita” che le scorreva nel sangue non si sia mai lasciata decifrare fino in fondo.
Dice Gaia De Pascale: "Antonia Pozzi ha lasciato molte tracce del suo passaggio: poesie, lettere, diari, fotografie. Il fatto che alcuni di questi materiali siano andati perduti, talvolta per precisa volontà della famiglia, è lo specchio concreto e tangibile di un dato di fatto: non si può conoscere la verità della vita, tanto meno quella degli altri. Si può solo procedere a tentoni, amalgamare il vero e il verosimile, entrare negli spazi vuoti lasciati dalle parole sperando, in uno scatto di empatia, di riuscire a cogliere un barlume della realtà. Per questo ritengo necessario raccontare la vita di Antonia come se fosse un romanzo. Perché a volte la finzione è l’unica via per andare oltre le apparenze, i fraintendimenti, e ricomporre il puzzle di personalità poliedriche in cui fatti, intenzioni e volontà sono stati scossi da continui scarti.
Tessendo la trama delle parole di Antonia Pozzi, ricostruendo la cronologia degli eventi salienti della sua vita, riempiendo i vuoti con cose che non sono state, ma avrebbero potuto essere, mi propongo di restituire il ritratto di una donna e del suo tempo – per come io l’ho vissuto, quasi un secolo dopo. E per come io l’ho sentito, romanzesco e sfuggente, più vero del vero".
Antonia Pozzi (Milano, 13 febbraio 1912 – Milano, 3 dicembre 1938) è stata una poetessa italiana. Figlia di Roberto, importante avvocato milanese, e della contessa Lina Cavagna Sangiuliani, nipote di Tommaso Grossi,[1] Antonia scrive le prime poesie ancora adolescente. Studia nel liceo classico Manzoni di Milano, dove vive con il suo professore di latino e greco, Antonio Maria Cervi, una relazione che, a causa dei pesanti ostacoli frapposti dalla famiglia Pozzi, verrà interrotta da Cervi nel 1933. Forse a causa di questa grave ingerenza nella sua sfera affettiva, parlando di sé quell'anno scrive: «e tu sei entrata / nella strada del morire».
Nel 1930 si iscrive alla facoltà di filologia dell'Università statale di Milano, frequentando coetanei quali Vittorio Sereni, suo amico fraterno, Enzo Paci, Luciano Anceschi, Remo Cantoni, e segue le lezioni del germanista Vincenzo Errante e del docente di estetica Antonio Banfi, forse il più aperto e moderno docente universitario italiano del tempo, col quale si laurea nel 1935 discutendo una tesi su Gustave Flaubert.
Tiene un diario e scrive lettere che manifestano i suoi tanti interessi culturali, coltiva la fotografia, ama le lunghe escursioni in bicicletta, progetta un romanzo storico sulla Lombardia, studia il tedesco, il francese e l'inglese, viaggia, pur brevemente, oltre che in Italia, in Francia, Austria, Germania e Inghilterra, ma il suo luogo prediletto è la settecentesca villa di famiglia, a Pasturo, ai piedi delle Grigne, nella provincia di Lecco, dove si trova la sua biblioteca e dove studia, scrive e cerca sollievo nel contatto con la natura solitaria e severa della montagna. Di questi luoghi si trovano descrizioni, sfondi ed echi espliciti nelle sue poesie; mai invece descrizioni degli eleganti ambienti milanesi, che pure conosceva bene.
La grande italianista Maria Corti, che la conobbe all'università, disse che «il suo spirito faceva pensare a quelle piante di montagna che possono espandersi solo ai margini dei crepacci, sull'orlo degli abissi. Era un'ipersensibile, dalla dolce angoscia creativa, ma insieme una donna dal carattere forte e con una bella intelligenza filosofica; fu forse preda innocente di una paranoica censura paterna su vita e poesie. Senza dubbio fu in crisi con il chiuso ambiente religioso familiare. La terra lombarda amatissima, la natura di piante e fiumi la consolava certo più dei suoi simili».
Avvertiva certamente il cupo clima politico italiano ed europeo: le leggi razziali del 1938 colpirono alcuni dei suoi amici più cari: «Forse l'età delle parole è finita per sempre», scrisse quell'anno a Sereni.
A soli ventisei anni si tolse la vita. Nel suo biglietto di addio ai genitori scrisse di «disperazione mortale». Si uccise mediante barbiturici in una sera di dicembre del 1938, nel prato antistante l'Abbazia di Chiaravalle. La famiglia negò la circostanza «scandalosa» del suicidio, attribuendo la morte a polmonite; il suo testamento fu distrutto dal padre, che manipolò anche le sue poesie, scritte su quaderni e allora ancora tutte inedite.
È sepolta nel piccolo cimitero di Pasturo: il monumento funebre, un Cristo in bronzo, è opera dello scultore Giannino Castiglioni.
C'è un sito web dedicato alla poetessa e alle sue opere (www.antoniapozzi.it).
Un romanzo dalla scrittura diramata e tutta scheggiata da punte di luce, con la grazia di una Katherine Mansfield o di una Alice Munro
Antonia Pozzi | Il sito sulla poetessa e fotografa Antonia Pozzi
La bibliografia che segue è frutto di un lavoro collettivo: all'iniziale elenco, esito della ricerca di Tiziana Altea, si sono infatti aggiunte - e l'iter continua - nuove voci, grazie al contributo
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