Nel dicembre 1978, il giorno dopo Natale, presi la decisione improvvisa di partire per un viaggio solitario. Questa decisione scaturì dall'aver saputo che il 6 gennaio dell'anno nuovo, avrei finalmente iniziato il mio percorso di psicoanalisi con il grandissimo Francesco Corrao.
Mi telefonò, una mattina di dicembre all'approssimarsi del Natale e, con la sua voce profonda e calda, mi comunicò laconicamente che il giorno 8 gennaio - quindi subito dopo il concludersi del periodo delle feste - avrei fatto la mia prima seduta, alle 9.00 del mattino.
Grande emozione, perché si avverava una cosa desiderata (il cui progetto si era avviato alcuni anni prima, con una serie di passaggi decisionali), ma anche molto temuta: avrei finalmente iniziato a guardare dentro me stesso e, forse, sarei finalmente riuscito a mettere ordine nelle mie cose.
Proprio in relazione a ciò, scosso dall'emozione ma anche desideroso di evadere dal peso di un'incombente costrizione (il percorso della psicoanalisi è severo sin dall'inizio, senza sconti, specie se è condotto in modo ortodosso, a quattro o a cinque sedute settimanali) sentii l'esigenza di compiere un viaggio, bisognoso di intraprendere - con la scusa e con il supporto della disambientazione e dell'essere on the road - una specie di percorso introspettivo dentro me stesso in totale solitudine, concentrandomi su ciò che mi attendeva al mio ritorno e di cui sapevo molto teoricamente, ma molto poco in pratica.
Una cosa che, al tempo stesso, mi attraeva e mi spaventava da matti.
Questo viaggio lo compii all'insegna della più grande solitudine: salvo che per chiedere le necessarie informazioni di tanto in tanto, credo che non parlai quasi mai con nessuno.
Avevo con me un piccolo quaderno (era soltanto un normale quadernetto: allora i Moleskine, resi celebri da quel grande viaggiatore ed osservatore del mondo che fu Bruce Chatwin, non erano diventati di moda) dove annotavo minuziosamentei miei stati d'animo e dove trascrivevo i sogni, meditando a lungo sul fatto che non riuscissi in alcun modoad entrare nel vivo delle cose, mantenendomi costantemente in una posizione difensiva (ma sempre molto sofferta): osservavo gli altri che chiacchieravano ed interagivano, meravigliandomi del fatto che io avessi sempre l'abilità di collocarmi in una posizione periferica da dove però lo sguardo poteva spaziare su tutti i presenti.
Ascoltavo lingue straniere, alcune le capivo e altre no: un po' mi sentivo escluso, un po' no...
Mi piaceva anche il fatto di carpire i discorsi delle persone (e laddove non capivo il senso delle parole, intuire il senso dei discorsi), senza parere, e intanto mi esercitavo nell'arte di osservare gli altri e trarne delle deduzioni, arte che faceva parte della mia professione di psichiatra appena agli esordi, quando ero fresco fresco di specializzazione.
Su quel taccuino scrivevo, prendevo appunti in continuazione, cercando di fissare i miei stati d'animo e ciò che vedevo: lo ricordo bene non era un'agenda (a quel tempo ancora non ne usavo, ma proprio uno strumento per egistrare unicamente i miei appunti di viaggio.
Questo taccuino dovrò prima o poi cercarlo. Sarà sicuramente sepolto all'interno di qualche cassetto da tempo inesplorato.
Camminavo molto in mezzo alla gente: mi tuffavo nei mercati di Atene tanto simili ai nostri.
E queste mie camminate duravano ore e ore...
In silenzio.
Quando chiedevo qualche informazione, la mia voce usciva gracchiante, perchè le corde vocali a causa del prolungato non uso si erano come rattrappite.
Faceva buio presto e mi ritiravo nell'Ostello da pochi soldi dove avevo preso alloggio.
I monumenti, a partire dall'Acropoli maestosa, erano pressoché deserti, spopolati dalle folle di turisti che poi vidi in un successivo viaggio estivo: in quel periodo la Grecia non era considerata appetibile come meta di viaggi (e forse tuttora).
Andai anche a Micene, ma potei guardare la zona degli scavi dall'esterno soltanto, perché i guardiani erano tutti in ferie e tutto - musei e monumenti - era desolatamente chiuso.
E così accadde in molti altri luoghi.
Sbarcai nell'isola di Eubea, feci un lungo viaggio in bus per arrivare al suggestivo Capo Sounion, ma senza poter vistare il tempio diruto alla sua estremità, e lì potei godere soltanto della suggestione della vista su di un mare azzurrissimo, ma venato di profonda solitudine.
Poi, scaduto il tempo, ritornai per mare imbarcandomi dal porto di Igoumentiza, così come ero venuto: durante il viaggio di ritorno fui preso da una violentissima dissenteria, perché - incautamente - prima dell'imbarco avevo mangiato una pietanza con della carne trita...
Faceva freddissimo: si er verificata il giorno una perturbazione meteo e sui monti dell'interno aveva nevicato. Il viaggio per nave fu segnato dalla sofferenza perchè, per risparmiare avevo optato per un semplice passaggio ponte, e non c'era modo di ripararsi efficacemente dal freddo. Molti spazi della nave erano chiusi proprio per impedire agli sgigati e globetrotters con zxaino di infilarsi dove non era looro concesso sulla base del titolo di viaggio in loro possesso.
Eravamo abbandonati a noi stessi nel freddo della notte in una specie di stanzone non riscaldato, percorso da spifferi freddi e forse semiaperto vero la poppa della nave.
Ricordo che c'era unglobetrotte di gigantesca corporatura, sicuramente un americano USA, ma con ascendenti da Pellerossa (somigliante un po' al personaggio di "Qualcuno volo sul nido del cuculo"), che beveva a canna da un grosso fiasco di vino che andava condividendo con un compagno di traversata. Ma questo beveva avidamente, il vino letteralmete lo tracannava. E quello gli diceva con la sua voce tonante: "Take it easy, guy!".
Il viaggio di ritorno fu una autentica sofferenza, ma in un certo qual modo anche quella intensa e molesta dissenteria fu una forma di purificazione per il corpo e la mente.
Ritornai in solitudine come ero partito, con un lungo viaggio in treno da Brindisi sino alla Sicilia, viaggiando lungo la costiera ionica delle Calabrie in una carrozza con i sedili di legno.
Ed ero pronto per iniziare la mia esperienza di psicoanalisi che, in termini molto mistici (un po' sbagliandomi), sentivo come qualcosa che avesse a che fare con un percorso di morte/rinascita.
Tanto ero convinto di ciò che una delle letture accessorie che avevo portato con me e che, considerando che viaggiavo con lo zaino in spalla, erano state per forza di cose scelte con ponderazione, era appunto il Bardo Thodol, ovvero Il libro tibetano dei morti.
Rientrai a Palermo il 6 gennaio e due giorni dopo mi ritrovai ad affrontare la mia prima seduta di psicoanalisi.
Di lì a pochi mesi avrei compiuto il mio 40° anno di età.
PS - Mi rendo conto di aver fatto un lapsus, scrivendo l'ultima frase. In realtà il 1979 era l'anno in cui avrei compiuto 30 anni. Il lapsus deriva dal fatto che allora e nei dieci anni successivi, in realtà, io mi sentii più vecchio della mia reale età anagrafica. Poi, a partire dal 1989, ringiovanii, ma questa è tutta un'altra storia.
Foto dall'Archivio fotografico di Maurizio Crispi