(Maurizio Crispi) L'altro giorno, ho trovato dei bicchieri da birra lasciati vicino ad una panchina: rispettando la mia piccola consuetudine, li ho raccattati e li ho portati via con me.
Per tutto il tratto di strada dalla panchina a casa, ho camminato con cautela.
Tenere degli oggetti di vetro in mano, mentre si cammina o si corre, è pericoloso.
Se si inciampa e si cade, il vetro nell'impatto - è matematico - si romperà e ti taglierà la mano.
A me è capitato, quando ero piccolo: quindi la prudenza non è mai troppa.
E, mentre camminavo assai preoccupato di poter cadere e farmi male, mi sono ricordato appunto che, una volta, - andando a casa dei nonni Crispi (che hanno sempre abitato in una grande casa popolare in Via Noce di Palermo, ad un terzo piano e senza ascensore) -, inciampai miserevolmente in un gradino, mentre portavo delle bottiglie di vino - o qualcosa in vetro - e che mi tagliai la mano - per quanto in modo non grave.
Ma perchè, proprio a me che ero allora un bimbetto di meno di dieci anni era stato affidato questo compito delicato? E, tra l'altro, si badi che i tre piani dei nonni, visto che l'edificio era di costruzione tardo ottocentesca, equivalano a salire per tutta l'altezza di una grande chiesa con ben tre rampe di scale per ogni piano.
In un percorso associativo, mi sono ricordato che, quando andavamo a pranzare dai nonni (alcune domeniche e in certe festività), papà prendeva sulla spalle mio fratello, già piuttosto robusto, e lo trasportava su per le scale per tutti e tre i piani, senza mai fermarsi per rifiatare.
Mio padre era un un uomo forte, di costituzione muscolosa e a quel tempo aveva recuperato i patimenti subiti al tempo della prigionia.
Trasportare mio fratello in queste circostanze era cosa sua: era assunzione di responsabilità, era accettazione di un fardello amato, era - forse - espiazione, era ascesa ad un monte sacro della mente e, nello stesso tempo, il percorso che conduceva al Golgota, al suo personale Golgota.
Non so: non ebbi mai il tempo e l'occasione di parlare con lui di queste cose in anni successivi.
Ma - sia come sia - vederlo inerpicarsi per quelle scale con mio fratello sulle spalle era una scena con un carattere quasi sacrale e, nello stesso tempo, mitico.
Un carattere che io ruppi - senza volerlo, ma cionondimeno suscitando le ire di mio padre - quando giocherellando con una pallina, proprio mentre lui era intento in questa funzione, glieli feci rimbalzare sulla testa e, per aggravare le cose, mi misi pure a ridere.
Malgrado questo piccolo incidente di percorso, io lo guardavo sempre profondamente ammirato e, nello stesso tempo, intimidito dall'esibizione di tanta forza: e avrei voluto essere come lui, bruciando le tappe.
Era come vedere Enea che salva l'anziano padre Anchise dall'incendio di Troia, caricandoselo sulle spalle; era come osservare San Cristoforo che, omaccione barbuto e possente, trasporta Gesù bambino da un lato all'altro d'un fiume in tumulto e dalle acque profonde, era un traghetattore buono, era - per dirla in una parola - il trasportatore di mio fratello. Capivo bene che, in caso di bisogno, lui avrebbe trasportato anche me in quel modo.
Allora, da piccolo, non potevo fare queste associazioni, ma amavo mio padre per tutto ciò che era contenuto implicitamente nel suo gesto.
Per questo motivo, quando ci muovevamo per andare in qalche luogo dove vi fossero barriere architettoniche, a me e alla mamma spettava portare tutte ciò di cui v'era bisogno e fu così che quella famosa volta a me toccò il compito di portare le bottiglie di vino.
E caddi.
Io, con quel misero peso tra le mani, inciampai e caddi, mentre mio padre con il fardello di mio fratello sulle spalle non cadeva mai, non aveva mai un momento di cedimento.
Fu così che imparai a prendermi cura di mio fratello, desiderando emulare ciò che faceva mio padre per lui e che anche la mamma faceva in assenza di papà, in un'equanime distribuzione dei compiti (anche se il trasporto su per i tre piani dei nonni rimase compito esclusivo di papà).
Quando fui cresciuto ancora un poco e fui abbastanza forte, cominciai a partecipare ad alcune delle cure necessarie per mio fratello, partendo dalle cose più semplici, come metterlo in auto (e viceversa) e spostarlo dal letto alla carrozzina.
Nel frattempo, però eravamo andati ad abitare in una casa fornita di ascensore e così, salvo rare occasioni, le "acchianate" e le "scinnute" a forza di braccia non furono più necessarie.
Mio padre mi ha trasmesso l'idea dell'importanza della forza, non solo fisica, ma anche morale, come di una delle qualità necessarie per vivere bene e facendo le cose giuste.
Idea che, in maniera imperfetta e commettendo degli errori, io ho in qualche modo cercato di applicare nel corso della mia vita, pur continuando ad inciampare come quel bambino goffo a cui era stato chiesto di trasportare delle bottiglie.
L'immagine che ho conservato di mio padre, invece, è quella di un uomo che non inciampava mai anche se era oberato dai pesi più grandi.
Non era esattamente così, anche lui aveva i suoi difetti: ma questa è un'altra storia.