Ricordo di una volta in cui mi ritrovai a vagare all'interno di una dimora lussuosa, un'abitazione ampia ed elegante, ristrutturata di recente con grande dispendio e profusione di mezzi.
Si vedeva chiaramente che morivano dalla voglia di farlo e io li lasciai fare senza opporre resistenza.
Le stanze che si susseguivano l'una all'altra in interminabile ricorsività venivano a costituire un insieme davvero incredibile.
Una casa-museo di bambole dove tutto appariva in perfetto ordine e non un singolo oggetto era fuori posto
La casa non pareva aver mai avuto il carattere di una dimora - le caratteristiche funzionali di un luogo fatto per le persone.
Invece, al contrario, man mano che andavo avanti e venivo assalito dal pesante impatto degli effetti scenografici museali della dimora e dal trionfo in essa dell'inanimato e dell'inorganico, mi sentivo sempre più sconcertato e in preda ad un effetto sostanzialmente malsano e di estraniamento.
Scivolando indietro nel tempo e cercando di scandagliare la memoria, sono due gli aspetti che allora - come adesso - mi colpivano di più.
Ogni cosa era collocata al suo posto, in un ordine certamente innaturale, un ordine troppo perfetto, finto, posticcio; e mancavano le tracce visibili dei suoi abitatori (le solite banali tracce: effetti personali sparsi qua e là, soprattutto negli ambienti di uso più quotidiano, libri in evidenza, giornali o riviste, indumenti abbandonati sulla spalliera di una sedia, un paio di scarpe, le ciabatte appena dissimulate sotto un comodino, una vestaglia, in altri termini di tutto ciò che rimandi ad una dimensione di sana trasandatezza).
Tutto appariva perfetto, in un'immobilità cimiteriale, mentre tutto ciò che non rispondeva a requisiti estetici o scenografici era stato evidentemente e scientemente collocato fuori dalla vista degli abitatori della casa e dei suoi occasionali visitatori, probabilmente custodito dentro ripostigli reconditi, all'interno di armadi, cassetti e scansie.
Persino l’impatto olfattivo era asettico: dalle mura, dai mobili, dagli arredi accurati non trasudavano tracce di vita, né odori particolari che in qualche modo si potessero dire prodotti dall'interno della casa.
Questa casa, dunque, si definiva per essere una casa senza odori, come ho appreso più tardi, nel tentativo di allargare le mie cognizioni su questo sistema di vita, un vero e proprio eco-sistema fondato su rigide regole di invisibilità delle sue presenze umane che appariva così rarefatto ed artificiale perfino successivamente, nella pur grande cucina, dotata di tutti i comfort, dove tuttavia non si cucinava mai e dove evidentemente non si consumava mai alcun pasto.
Analogamente, i normali canali di scambio con l'esterno apparivano da tempo aboliti e quindi erano come sospese tutte le possibili interfacce tra questo spazio interno e il mondo di fuori.
Per questo motivo, le finestre erano tutte accuratamente sigillate: una volta entrati non ci si poteva più affacciare all'esterno per prendere una boccata dell'aria di fuori profumata di buone essenze resinose del bosco vicino.
Una sottile ansia claustrofobica mi ha pervaso, quando ho cominciato a rendermi conto della programmatica preclusione rispetto a qualsiasi libero contatto con l’esterno, resa ancora più costrittiva dall'ospitalità avvolgente e aggressiva dei padroni di casa che mi impediva qualsiasi movimento autonomo.
Naturalmente, in questa scelta claustrale non vi era in apparenza alcuna motivazione fobica, ma soltanto il desiderio razionalizzante e quindi apparentemente giustificato di poter facilitare al massimo l'azione dell'impianto di aria condizionata regolata in modo da mantenere l'atmosfera interna quasi gelida e di poter proteggere gli abitatori inanimati - le bambole- dall'invasione della polvere di fuori e di ogni genere di microorganismi letali - batteri, funghi, muffe - che potessero attaccarle, danneggiandone l’integrità..
Ma l'altro elemento caratterizzante di quest’abitazione era appunto questo: dappertutto erano collocate, in ogni angolo libero, sugli armadi, sulle scaffalature, disposte come persone di piccola statura su divani e sedie, bambole, a decine, forse a centinaia, di diverse dimensioni, disposte isolatamente, oppure a grappoli, in file compatte, in gruppi folti, tutte immobili, a guardarti fissamente con i loro splendidi occhioni spalancati, abbigliate con abiti di epoche e di foggia diverse, fatti di autentici tessuti antichi, broccati, sete, un intero popolo collocato a celebrare una sorta di apoteosi della bambola.
L'effetto risultante di questo insieme e la marcata mancanza di tracce di vita era proprio raggelante, anche se nello stesso tempo questa esposizione/sfilata/
Vedere questa profusione di bambole mi ha trasmesso la sensazione di una realtà pietrificata, immobile, dalla quale erano banditi segni di vita (che potessero rimandare al disordine delle emozioni): le bambole erano collocate in posture immobili, alcune apparentemente naturali, magari fintamente intente ad attività quotidiane, con gli occhi eternamente aperti e fissi in avanti, a meno di pensare che, nottetempo, qualcuno non si aggiri furtivo per la casa inabitata per chiudere loro gli occhi e consentire finalmente ad esse una sorta di riposo, predisponendole al sonno.
Adesso, alla luce di queste osservazioni, mi pare di capire in una certa misura, per quanto in modo puramente esteriore, la storia del giovane Bill, invisibile abitante della casa, che - improvvisamente ed inspiegabilmente (come sempre accade in questi casi, agli occhi dei parenti coinvolti) - è entrato in una crisi psicotica, con delle venature depressive che lo hanno portato a tentativi di suicidio, e che poi si è chiuso definitivamente in questa dimora nell'abbraccio protettivo e premuroso dei genitori, iniziando a vivere in un suo mondo chiuso e apparentemente privo di emozioni.
Così dopo il giro turistico della casa con annessi e connessi, ci siamo ritrovati ad attendere - di fatto segregati da un’offerta di ospitalità rigida e soffocante - nel salotto delle casa delle bambole per tre o quattro ore - e non siamo riusciti a capire il perché di questa attesa così lunga - a quanto pare i programmi sono diversi da quelli che ci erano stati prospettati - seduti su sedie dagli alti schienali rigidi - scomodissime per le persone, forse comode per bambole di grande formato e di manichini - e in compagnia naturalmente delle bambole che accomodate da ogni parte su divanetti e poltrone, come persone ci guardano fissamente con occhi di vetro e di smalto.
Tra i presenti si è accesa ed è andata avanti a lungo - con toni convenientemente smorzati - una conversazione, che a tratti ha assunto - soprattutto da parte di alcuni - lo stile e il timbro infuocato della predica religiosa - ora non ricordo più bene a proposito di quale argomento.
E così abbiamo atteso per ore e ore, come pietrificati, immobili, congelati, ibernati nel flusso di aria condizionata che andava a tutto volume, sorseggiando un the freddo con ghiaccio che accresceva il disagio di questa atmosfera gelida e la sensazione sgradevole di essere osservati dall’occhio insonne del popolo delle bambole.
Poi alla fine, a fatica ci siamo congedati e siamo tornati a casa, correndo lungo la highway, ma quelle bambole sono rimaste a lungo a inquietare e ad ingombrare i miei pensieri.
Questo capitolo è la rielaborazione del ricordo di una visita a certi lontani parenti americani, in occasione di uno dei miei ultimi viaggi a New York (nel novembre del 1994, in un Estate indiana inoslitamente calda). La padrona di casa si occupava (penso che se ne occupi anche adesso, anche se non ne ho più notizie del restauro di bambole antiche, aveva un negozio pieno di bambole di tutti i generi, ma la casa dove vivenao (lei, il martio e il figlio Bill) non era poi tanto dissimile da quel negozio.
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