Riproduco qui di seguito un mio scritto già pubblicato come nota nel mio profilo Facebook, qualche tempo fa.
La nostra memoria e, soprattutto, le radici del nostro essere sono radicate in noi, ma in parte dipendono anche da racconti tramandati da altri, che il più delle volte sono i nonni, i genitori, gli zii.
E' così che la nostra memoria si estende a ritroso nel tempo, diventando trans-generazionale.
Ed é con questo meccanismo che, in ciascuno di noi, si fonda il senso dell'appartenenza ad un phylum, ad un luogo, ad una dimora.
I nostri ricordi, soprattutto quelli scaturenti da esperienze affettive ed emozionali, sono in genere solidi, profondamente iscritti nel deposito della memoria a lungo termine, anche se non tutti immediatamente disponibili, pur essendo elicitabili grazie all'esposizione a eventi sensoriali che li attivano (basti pensare al citatissimo esordio della Recherche di Proust).
Altri - quelli tramandati da altri - sono più labili perchè non legati ad una corrispondente esperienza affettiva "vissuta": questi ricordi tendono a svanire e, per conservali nella loro integrità, dovrebbero essere trascritti.
Ma, quando potremmo farlo, in genere non lo facciamo.
Siamo presi dalla meraviglia di sentirci raccontare delle storie: "Nonna, raccontamente altre di queste storie" oppure "Raccontemela ancora", dicevo - instancabile e avido di racconti - alla nonna Maria quando la sera (quando eravamo da soli e questo capitava spesso, perchè mia madre era lontana in altre città assieme a mio fratello), entrambi seduti quietamente, lei semicieca per via di una forte cataratta, mi raccontava le storie di guerra, quelle della loro esperienza di "sfollati".
Poi, quando la mamma ritornava, chiedevo a lei di raccontarmi le stesse storie e lei, pazientemente, me le diceva dal suo punto di vista, arricchendole di altri dettagli.
Ma quelle storie non le ho mai trascritte, quando - più grande - avrei potuto farlo.
Ho sempre aspettato e rimandato.
Pensavo: "Un giorno mi siederò accanto a mia madre e le chiederò di raccontarmi tutto per filo e per segno ed io lo trascriverò in un quaderno di appunti e i ricordsi saranno salvi".
Non l'ho fatto mai, perchè pensavo che, per questo, ci sarebbe stato tutto il tempo.In verità, l'esperienza mi insegna che non c'è mai abbastanza tempo e che quello che non fai oggi è perso per sempre, perchè - all'improvviso il tempo si è fatto stretto o addirittura non ce n'è più del tutto.
E quando ti sforzi di ricordare, ti rendi conto che la tua memoria ti tradisce e che tanti dettagli, che pensavi di possedere, ti mancano del tutto. E, tra l'altro, le persone su cui pensavi di poter fare affidamente per ocnsolidare ed arricchire i tuoi ricordi non ci sono più.
Ma non voglio parlare qui di quei racconti di guerra che alimentavano la mia fantasia, quando ero piccino.
Attraverso una casuale conversazione ed anche per via del fatto che, in questi ultimi giorni, sono andato a visitare la casa dove un tempo abitavano le mie prozie, mi è venuta in mente una storiella dai risvolti comici riguardanti proprio loro e che mia mamma, con grande divertimento, rievocava spesso.
Le prozie Natalia e Irene (sorelle della nonna materna), vero prototipo delle signore d'altri tempi erano energiche e volitive e spesso prendevano decisioni impetuose sulla base delle loro soggettive valutazioni, animate a dire il vero dal desiderio di fare del bene (quei famosi racconti di guerra, cui accennavo prima, erano scaturiti appunto da una loro imperiosa decisione - che coinvolse anche la nonna e mia madre - di spostarsi in luoghi "sicuri" per sfuggire agli effetti della guerra in Sicilia: e finirono con il trovarsi nel bel mezzo della Linea Gotica).
Nel loro salottino ricevevano frequentemente altre signore e parenti e, davanti al classico the pomeridiano, passavano ore a conversare ambilmente.
A volte, da piccolo - ma delle due la zia Natalia era già morta da tempo - venivo introdotto dalla mamma e partecipavo compuntamente a queste riunioni salottiere, dedicandomi il più delle volte all'osservazione di alcune cineserie esposte in un bacheca, tra le quali delle figurine in ceramica vestite in kimono dai vivaci colori, accosciati nella posizione del loto, la cui testa ad un piccolo tocco cominciava ad oscillare avanti ed indietro, quasi annuissero (ogni tanto, somma meraviglia, mi era concesso di fargli oscillare la testina).
Entrambe le prozie avevano un alto senso delle convenienze, di ciò che si poteva dire e di ciò che andava invece taciuto. Mi raccontava la mamma che, allo scopo di evitare gaffe penose, avevano stabilito una sorta di parola d'ordine (neutra ed insignificante) che una delle due avrebbe dovuto introdurre nella conversazione per avvisare l'altra che stava dicendo delle cose sconvenienti o che si avvicinava pericolosamente ad una gaffe clamorosa.
Solo che - e qua arrivava la parte divertente della storia - spesso la destinataria del messaggio occulto si dimenticava della parola pattuita o non ci faceva caso, quando veniva pronunciata, perchè era già troppo infervorata nella conversazione, sicché l'altra era costretta a ripeterla, ma con un enfasi crescente, tale da attirare l'attenzione dei loro interlocutori proprio su ciò che doveva essere minimizzato o mimetizzato e tale da creare imbarazzo.
Era divertente sentire il racconto della mamma che ricordava dei casi specifici intercorsi e che era in grado di riprodurre le parti più cogenti della conversazione: la mamma nel rievocare quegli episodi si diveriva molto, anche perchè quando una delle due non intendeva il messaggio convenuto, l'altra - oltre a dare più enfasi alla "parola d'ordine" si lanciava in una mimica e in un ampio corredo di ammiccamenti di supporto, ma invano.
Mi piacerebbe adesso aver trascritto il racconto di quelle comiche conversazioni, assieme ai commenti di mamma.
Ma soprattutto - ed è questa stranamente la cosa che mi rammarica di più - non ricordo più quale fosse la parola convenuta che era di per sé comica e stonata.