Subito dopo la laurea (luglio 1975), un po' in ritardo rispetto ai miei colleghi di corso, riusciì ad essere ammesso alla Scuola di Specialità di Psichiatria di Milano e mi trasferii a Milano, dove passai tutto il primo di specializzazione. Poi, avendo ricevuto la chiamata per entrare alla scuola allievi ufficiali medici di complemento (oggi non esiste più questa figura) ed essendo stato ammesso al 42° corso AUC Medici e Farmacisti, a fine luglio 1976 smontai il mio alloggio di Milano, feci ritorno a palermo per trascorrervi l'estate e quindi ripartii a fine settembre per essere in tempo utile a Firenze.
Arrivai con un giorno d'anticipo rispetto al dovuto perché lo zio Gigi, fratello di mia madre che aveva fatto carriera nell'Esercito e che era Generale a Roma, mi disse con arguzia tipicamente militare: "Chi tardi arriva male alloggia...".
Fu così che quando m'appresentai, ero praticamente da solo e tale rimasi sino al giorno successivo quando alla spicciolata - ma tutti il più tardi possibile - gli altri colleghi presero ad arricamparsi...
Nell'attesa, il Comandante - in considerazione dell'"illustre" parentela - mi convocò per conoscermi personalmente e parlai con lui brevemente: con candore, gli dissi che non avrei avuto problemi ad adattarmi alla vita militare, visto che avevo fatto numerose esperienze in campeggio e di viaggi "spartani"...
Sotto le armi trascorsi un totale di 15 mesi.
I primi tre (da ottobre 1976 ai primi di gennaio 1977) li passai presso la Scuola AUC, di Sanità Militare allocata nella Caserma Vittorio Veneto di Firenze, ospitata negli spazi d'un antico convento e detta semplicemente "Costa San Giorgio", in Oltrarno proprio a due passi dal Ponte Vecchio (oggi dismessa dall'uso militare e tristemente chiusa: andai a vedere il posto qualche anno fa, mentre mi trovavo a Firenze per altri motivi.
I successivi dodici mesi fui a Palermo, presso l'Ospedale Militare (in Corso Calatafimi), dove - in virtù delle mie competenze ed interessi di studio, nonché delle esperienze di lavoro già portate avanti - fui assegnato al Gabinetto di Neuropsichiatria (salvo una breve parentesi che trascorsi al CAR di Trapani, per sostituire un collega infortunato).
In parallelo, essendo stato ammesso alla Scuola di Specializzazione in Psichiatria a Milano, con le ferie che avevo a disposizione andavo e venivo a Milano per seguire alcuni lezioni, concentrate in cicli di una settimane e per sostenere gli esami.
Quello di Costa San Giorgio, fu per la verità, un periodo molto bello.
Non ebbi problemi ad adattarmi , anche perché negli anni precedenti mi ero adattato a viaggiare in condizioni molto spartane e, quindi, prendevo questa permanenza, né più né meno che come un viaggio.
Ogni sera uscivo e vagabondavo per le vie di Firenze per fermarmi a cenare in questa o quell'altra trattoria alla buona (e allora si pendeva veramente poco): a distanza di anni una di queste l'ho ritrovata (Il Cantinone) sul Lungarno.
Mangiavo spesso piatti di formaggi e affettati oppure grandi porzioni di ribollita, il tutto innaffiato di abbondante vino rosso (a volte bevevo da solo anche anche un'intera bottiglia da tre quarti).
Preferivo andare in giro da solo, perché la chiassosità goliardica dei miei colleghi mi stancava: una volta ala settimana, massimo due, mi univo a loro, quanto bastava.
Qualche volta, con grande piacere, andavo al cinema.
Studiavo e leggevo nei tempi morti e quando eravamo obbligati a stare in caserma.
Dormivo quando potevo...
Insomma, ero invidiato da tutti i miei colleghi perché non mi lamentavo mai.
Loro soffrivano il freddo e al mattino (benché medici e, quindi, in teoria praticanti dell'Igiene), indossavano l'uniforme sopra il pigiama, per essere pronti a fiondarsi a letto nell'intervallo tra le lezioni, dopo il pranzo.
Io invece, mi mettevo a torso nudo e praticavo abbondanti abluzioni con l'acqua gelata dei bagni (non c'era concessa l'acqua calda: soltanto due volte alla settimana si poteva prendere una doccia in un locale apposito). Ero anche il primo a svegliarsi e ad essere pronto: entravo nei bagni quando ancora non li aveva utilizzato nessuno.
I finestroni dei bagni stavano spalancati per arieggare e da lì vedevamo la cupola di Brunelleschi svettare sui tetti di tegole rosse, spesso spolverata di neve.
A Palermo, invece fu una vera pacchia: ero sottoposto al Colonnello Calì e al Maggiore Anello: ogni giorno c'era da fare una quantità enorme di visite di tutti i generi (alcune con risvolti medico-legali e psichiatrico-forensi). Dato il numero elevato giornaliero di richieste dai diversi reparti ed uffci dell'Ospedale Militare, le visite andavano fatte a tempo record e altrettanto velocemente dovevano essere compilati i referti.
Il colonnello Calì, avendo visto che me la sbrigavo bene, mi dava molta autonomia, ma in alcuni casi mi diceva: "Questo visitalo tu, ma quando c'è da scrivere il referto vieni da me!".
E a buon intenditor poche parole.
Il numero delle visite, la velocità di esecuzione, la necessità di capire perché un soggetto arrivava alla visita (era simulazione di malattia o era dissimulazione? Uno dei tanti dilemmi che ci si dovevano porre) hanno rappresentato per me una grande scuola di diagnostica di situazioni-limite.
Non parliamo poi della capacità di riconoscere da minimi segni il passato carcerario di un soggetto, nei confronti del quale vigeva allora il principio: "Scartiamo in partenza le mele marce"...
Le visite finivano attorno a mezzogiorno.
Il colonnello allora mi diceva: "Maurizio, andiamo a farci un giro!"
E, magari arrivavamo sino alla direzione sanitaria per una doverosa "riverenza" al Colonnelo Comandante. Quando eravamo di ritorno, il Colonnello disponeva: "Maurizio, adesso possiamo andarcene!".
Si imbarcava sulla sulla sua 600 FIAT scassatissima e se ne andava.
Era inteso che di lì a poco anche io potessi andarmene
E, quindi, per tutto quell'anno, dalla prima assegnazione sino ai primi di gennaio del 1978, ebbi una quantità enorme di tempo libero.
Ogni tanto venivo inviato a fare ispezioni e visite domiciliari medico-legali a dipendenti della pubblica amministrazione o a militari, residenti in paesi sperduti della Sicilia.
Ed anche questo era un grandissimo divertimento, perché quelle diventavan delle splendide occasioni per fare delle gite in luoghi in cui magari non ero mai stato...
Fu così che arrivai per la prima volta a Sclafani Bagni, tanto per citare uno dei luoghi che conobbi per la prima volta in uno di questi giri.
Qualche volta (all'incirca una volta al mese) facevo il turno come "ufficiale di guardia" e allora avevo per 24 ore continuativa la responsabilità dell'intero ospedale militare e del corpo di guardia all'ingresso.
Anche quelle furono belle esperienze...
Alcuni di Palermo, "iimboscati" all'Ospedale militare- così si diceva per quelli che riuscivano ad ottenere delle diagnosi di malattia vere o fasulle che fossero, e sulla base di queste diagnosi internati in Ospedale Militare e qui, il più delle volte, comandati a fare gli "scritturali" - venivano da me e mi chiedevano di chiudere un occhio per consentirgli di uscire.
Io rispondevo loro: "Non devi chiedermelo. Se vuoi farlo, fallo e basta. Io giro la schiena e cssì non vedo quello che decidi di fare."
Ma loro, invece, volevano una sorta di permesso non ufficiale, una specie di garanzia che li avrei coperti in caso di controlli.
E, per questo, penso che alcuni mi abbiano odiato.
Poi finì tutto.
Ritornai alla vita di libero cittadino e presi altri sentieri.
Però, sarei potuto rimanere, continuando ad indossare la divisa con le stellette: il Colonnello Calì mi aveva incoraggiato a farlo più volte.
Mi incoraggiava e mi diceva: Maurizio sei in condizione anche di tirare la carrettta da solo..."
Mai io allora ero terrorizzato di rimanere intrappolato nelle maglie di una struttura troppo rigida.
Volevo essere libero... a differenza di altri miei colleghi che scelsero questa via, perchè volevano delle "certezze" e che, quando incontrai a distanza di anni erano come "spenti"...
Io invece preferivo vivere nell'incertezza.
Quel tipo di certezza lì mi faceva paura.
Qualche volta, con il senno di poi, mi dicevo: "Forse, tutto sommato, sarebbe stato meglio rimanere..."
Ma in realtà, no, è stato meglio così: non sarei diventato quello che sono, non avrei potuto seguire liberamente le mie strade.
Volente o nolente avrei finito con l'indossare dei paraocchi, degli "occhialacci di legno" e, sicuramente, alla lunga, sarei stato meno felice, più appiattito, senza slanci, come quei miei colleghi che a distanza di anni, mi parvero spenti e opacati.