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19 gennaio 2013 6 19 /01 /gennaio /2013 11:50

geologia-di-un-padre.jpgCi sono dei libri che porti a casa e, prima di toccarli, devono in qualche "stagionare", altri invece li afferri subito e cominci a maneggiarli, ad odorarli, ne guardi le figure, e le varie soglie del testo, e, in alcuni casi, preso da un improvviso - irrefrenabile - impulso prendi a leggerli, perchè magari ci ritrovi te stesso, emerge prepotente dalle parole, dalle righe e dalle pagine qualcosa che hai vissuto o sperimentato e tu per differenza o per somiglianza (a seconda dei casi) entri nel testo o ne sei catturato.
Così mi sta capitando con il recente volume di Valerio Magrelli, pubblicato nei Supercoralli di Einaudi (2013), dal titolo Geologia di un padre
.
In 83 brevi capitoli - tanti anni sono gli anni per cui visse il padre dell'autore - sono contenuti dei pensieri sparsi, annotati nel corso degli anni su fogli di taccuino o sulle pagine di un agenda, alcuni di straordinaria bellezza e profondità, pensieri che ricompogono le sedimentazioni di un personaggio sino alle sue più remote - quasi da era geologica - origini e lo fanno rivivere in tutta la sua forza, come del resto recita una delle epigrafi al testo: "Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo" (Sigmund Freud).
E' un libro che si legge tutto di seguito oppure a piccole dosi, in funzione di quanto uno ci possa trovare se stesso o ritrovare dei suoi ricordi sedimentati relativi ad uno o ad entrambi i genitori che non ci sono più, che porta alla rimemorazione di altre letture cogenti sotto questo profilo come il memorabile testo autobiografico di Paul Auster, L'invenzione della solitudine (Einaudi).

Il brano che segue fa riferimento all'operazione della "resa" o revisione cimiteriale (operazione che, ciclicamente viene disposta dalle amministrazioni cimiteriali o che, in alternativa, può essere fatta su riichiesta degli aventi diritto in una singola sepoluta per ricavare nuovo spazio per i morti novelli), cui l'autore si trovò ad assistere come delegato "a sorte" della sua famiglia e degli aventi diritto.
In quell'occasione assai inusuale e - direbbero gli Inglesi - demanding sotto il profilo emozionale, egli si ritrova a fare delle considerazioni sulla sepoltura "zincata" o "inscatolata" cui è d'obbligo attenersi nelle nostre consuetudini necroforiche e che, spesso, è d'impedimento alla cremazione, se il forno crematorio non è predisposto con speciali dispositivi antiinquinamento a smaltire anche lo zinco e nello stessotempo impedisce uno smaltimento naturale dei resti con il decomporsi della semplice cassa di legno. L'autore medita sul mistero di questi corpi "torrefatti" e anneriti che rimangono conservati per anni, anziché tornare alla terra come sarebbe naturale.
E così riflette. alla fine dell'intera operazione:


Quando il camion con le bare dissestate è andato via, lasciando a terra una pila di cassette luccicanti, ho capitocos'erano le rese. Le rese sono i morti torrefatti, i morti torrefatti e neri, trasformati in caffé. Saremo tutti cotti nello zinxco, per diventare tutti polvere di caffé.
D'altronde, alla medesima conclusione era arrivato anche un grande poeta. Nel suo testamento del 1949, il Tolemaico di Gottfried Ben espresse infatti questa precisa disposizione: "Disperdete al vento di settembre la metà delle mie ceneri, e conservarne l'altra in una scatola vuota di Nescafé". Aggiungo che, in alternativa, l'impresa svizzera Algordanza, adottando un procedimento di origine russa che vprevede una pressurizzazione di due settimane, trasforma le ceneri degli estinti in diamanti. Tra i clienti migliori i Messicani. Allego infine la leggenda metropolitana, secondo cui il cantante Keith Richards avrebbe sniffato le ceneri del padre, mescolandole a un po' di cocaina." (ib., p . 10).


(Dal risguardo di copertina). Ci sono libri che si scrivono per tutta la vita, magari senza saperlo. Valerio Magrelli ha raccolto per anni appunti e note sulla figura del padre, un insieme di tracce che attendeva di trovare forma. Dopo la morte del genitore, quei biglietti cominciano a strepitare: «sapevo che ogni voce era una gola che domandava cibo. Sapevo che ogni richiamo era come un filo, il bandolo canoro di un'infinita matassa di storie». Perché far brillare ciò che è accaduto - o ciò che si vorrebbe fosse accaduto - è il solo modo che abbiamo per vincere la morte.

Negli ultimi dieci anni Valerio Magrelli ha raccolto, su foglietti sparsi, appunti riguardanti il padre. Quando quest'ultimo muore, quei documenti diventano un materiale prezioso, «il bandolo canoro di un'infinita matassa di storie»: i viaggi in auto d'estate in giro per l'Italia; le avventure d'amore e morte durante la guerra; i desolati pomeriggi che l'uomo ormai maturo trascorre spingendo il genitore sul girello; il giorno in cui il figlio, armato di forbici, libera l'anziano febbricitante dal bozzolo del maglione; lo stupore di riconoscere, davanti allo specchio, un'espressione del viso che gli restituisce la ferrea legge dei vincoli genetici; gli abbracci, le risse, l'amore per Borromini o i folli scatti di rabbia. Diviso in 83 capitoli (numero che corrisponde agli anni vissuti dal protagonista), il libro scava fra ricordi personali e storia patria, mentre la biografia sfuma nella paleontologia, se non nella geologia... L'enigmaticità di questo iroso anti-eroe, e insieme la sua infinita lontananza, suggeriscono infatti una possibile identificazione con i resti umani di origine preistorica trovati in Ciociaria, a Pofi - suo paese d'origine.
Cosí narrando, Magrelli - orfano ad honorem e padre a sua volta - procrastina il congedo definitivo grazie al racconto, e non desiste, ma si maschera, fugge, scegliendo la digressione per scendere ancora piú in profondità nella vita del capostipite, e mostrarne, oltre alle virtú, anche quei difetti che lo rendevano «un vecchio esacerbato e vulnerabile». Ricorrendo al montaggio di elementi eterogenei (pagine di enciclopedia, versi, aneddoti, brandelli di giornale), Magrelli dà forma a un romanzo sui generis che rievoca un addio tanto doloroso quanto liberatorio: «Mentre scrivo queste righe, vedo davanti a me lo scatolone sigillato in cui ho riposto le agende dei suoi ultimi vent'anni. Le ho trovate qualche settimana fa durante un trasloco, ne ho sfogliate un paio, e poi le ho messe via per mandarle in soffitta. Possibile che non sia curioso di leggerle? Sono sbalordito dalla mia mancanza di interesse, ma devo prenderne atto. Non mi importa nulla degli archivi, e provo nausea per i documenti. L'unico documento sono io: la carta moschicida del ricordo».

 

 

 

Leggi un estratto delle prime pagine


Vedi anche su questo blog: Passaggi. In fuga verso la fine del Millennio (5° capitolo). Cimiteri

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19 dicembre 2012 3 19 /12 /dicembre /2012 19:51

Francesco a 4 anni con Fred figlio di Zeudi (1997)

 

Quello che segue è un lungo racconto che, a più riprese, sentii l'esigenza di scrivere per raccontare della morte del mio secondo pastore tedesco (una femmina il cui nome era Zeudi) e del modo in  cui dovetti fronteggiare il tema della morte e del morire con mio figlio allora bimbo di pochi anni. Attraverso una serie di passaggi successivi, racconto anche il percorso di elaborazione che mio figlio si ritrovò a compiere davanti a quella che fu per lui in asssoluto la prima perdita con cui confrontarsi.
Ho ritrovato questo file, in un CD su cui avevo fatto una copia di backup di salvataggio dei documenti word del PC sul quale frequentemente lavoravo. Una scoperta felice, per alcuni versi, perchè in alternativa avrei dovuto ricopiare l'intero documento dalla copia stampata.

 


1. Un cane muore. E' Zeudi il mio secondo pastore tedesco.

 

2. Prima, nella notte, un altro cane distante ha abbaiato a lungo e ha uggiolato la sua inquietudine,  mentre con le unghie robuste  cercava  di scalfire una porta che lo tratteneva. E' Fred, figlio di Zeudi, che nelle ultime fasi della malattia di Zeudi portavo a casa, mentre Zeudi la tenevo in un garage non lontano, poichè soffriva di un misterioso blocco intestinale, intervallato da fasi di dissenteria incontrollabile.

 

3. Il cane  si  è spento  in solitudine in una notte afosa d’inizio estate, adagiato su di un fianco, nient’altro che  nudo cemento come giaciglio.

Una ciotola d’acqua fresca poggiata accanto.

Quando sono arrivato, la canuzza  era già rigida.

Sembrava dormiente, se non fosse stato per  quel  silenzio totale, innaturale.

Il ventre già gonfio.

I muscoli atrofici  provati dalla denutrizione della lunga malattia.

E’ crollata a terra vicino alla saracinesca del box,  che a tutti gli effetti è stato la sua ultima casa, quasi alla ricerca di un ultimo fiotto di aria pura.

Questa volta, il pavimento del garage è pulito, non  punteggiato di  escrementi.

E non c’è  alcun cattivo odore, quel tanfo  pesante che a volte mi accoglieva quando  aprivo la porta del garage.

Mi pare che la povera Zeudi abbia deciso di andarsene  quasi in punta di  zampe senza dare fastidio a nessuno,  e  che - per  questo motivo - nella sua ultima notte non ha sporcato  il pavimento del garage - contrariamente a quanto accadeva di solito negli ultimi tempi con effetti che per  me erano sempre di esasperazione e fastidio.

La povera Zeudi, che ha vissuto una vita canina piena di abbandoni e segregazioni  immotivate, specie nei suoi ultimi anni, ora giace per terra,  senza vita, morta, forse è proprio il caso di usare  questa parola così temuta.

Penso al turbamento di un bambino quando saprà di questa morte.

Mi chiedo come potrà rappresentarsi l’evento innominabile.

Penso che per prima cosa dovrò evitargli di vedere direttamente il corpo di Zeudi senza vita.

Non so bene cosa fare.

Penso che in qualche modo dovrò coprirla, dissimularla.

Mi guardo in giro e mi decido ad usare una vecchia cerata abbandonata in un angolo polveroso.

Ce l'avvolgo per  celare  le sue forme, sigillando poi l’involto  con  diversi giri  più volte intersecati,  di un  nastro adesivo da imballaggio grigio-perlaceo che ho trovato in un cassetto, dopo aver rovistato qua e là.

Alla fine quello che risulta dalla mia fatica è un fagotto irregolare tutto sigillato dal nastro adesivo,  che non consente di identificare  alcuna forma perturbante.

Temo che  con questo caldo e con l’avvio troppo  precoce dei processi  di trasformazione della morte l’addome  possa gonfiarsi ancora.

Mi fermo a contemplare l’involto.

“Un lavoro ben fatto” - penso tra me e me. In questi casi, rivolgere il penseiro a dettagli pratici, è una protezione efficace da temepeste emozionali e dalla percezione di un dolore intenso. Spengo la luce e me ne vado, chiudendomi la porta alle spalle.

Corro nel caldo afoso per più di due ore e, intanto, penso a Zeudi. 

La penso mentre giace  nella frescura ombrosa del garage interrotta soltanto dalla lama di luce che  entra perentoria raso terra  dall’imperfetta chiusura della saracinesca. 

Negli ultimi  tempi, quando la sera lasciavo Zeudi per la notte,  tenevo sempre la lampadina del garage accesa nell’illusione  che così sentisse meno la solitudine.

Mi chiedo dove sia; forse c’è un posto  dove vanno i cani morti,  una specie di campi elisi dei cani e di  tutti  quegli  animali  che in vita hanno alleviato la solitudine degli uomini.

E intanto  il  corpo infagottato  e informe sta abbandonato sul pavimento freddo di un garage, al buio.

 

Zeudi con i suoi tre cuccioli - 19904. Più tardi,  bisognerà provvedere  al trasporto  di Zeudi verso il luogo della sua sepoltura che sarà nel giardino della casa di Capo Zafferano, dove più tardi abbiamo in programma di andare per passarci la domenica.

Ma, quando ci ritroviamo assieme prima della partenza, Francesco vede il fagotto e mi interroga più volte, angustiato.

“Papà, ma Zeudi è morta?” ( mi chiedo  cosa  possa significare questa parola per lui)

“Sì, Francesco”

“Papà, voglio vedere Zeudi!”

“Zeudi è qua dentro tutta avvolta in questa coperta".

“Ma dove sono gli occhi, voglio vedere gli occhi!.

“Qua, Franceschino, vedi qua c’è la testa, qua il culetto qua le gambe...”  (  e intanto gli indico le diverse parti del corpo del Zeudi)

“Zeudi è tutta coperta, perché adesso deve partire per un viaggio; andrà in mezzo alle stelle e avrà bisogno di questa coperta per non avere freddo" - aggiungo, per rassicurarlo.

 

5. Vado in auto da solo, con Zeudi, per quest’ultimo viaggio.Gli altri vengono tutti nell'altra auto, compreso il figlio di Zeudi.

Penso a quello che fanno gli altri con i propri cani morti.

Li abbandonano in mezzo alla strada.

Oppure li buttano impietosamente dentro un cassonetto.

Oppure li portano al canile municipale per farli incenerire.

O ancora quelli che ne conoscono l’esistenza chiamano la speciale squadra  dell’AMIA addetta a questo compito, ma  - già - quasi nessuno ne conosce l’esistenza.

No, Zeudi, come Petra prima, avrà una sua sepoltura.

E’ l’unica cosa a cui poter pensare adesso che è morta. Una cosa dovuta, anche se quest’atto sarà comunque una ben magra restituzione  dopo l’interminabile solitudine a cui la poverina è stata condannata in questi suoi ultimi  mesi  e che ha subito con dignità e con infinita pazienza.

Durante il tragitto, rompo il silenzio di tanto in tanto, rivolgendo delle frasi a Zeudi  che giace impacchettata nel fondo del portabagagli,  pur essendo consapevole  che è un interlocutore ormai muto: alle mie parole, infatti, non si alza dal retro, drizzando le orecchie intenta nell’ascolto e non ansima accaldata, scuotendo -con questo suo ansimare - la macchina nei momenti di sosta.

 

6.  Ho già in mente  il posto in cui, a Capo Zafferano,  mi dedicherò a fare lo scavo,  ed è lì  che, non appena arrivato, trasporto a fatica  il fagotto inerte, deponendolo con cura  nella chiazza d’ombra ai piedi di un  pino.

L’ora del  giorno è afosa: la montagna sassosa incombe su di noi, il cielo di un blu elettrico solcato da alcuni gabbiani  così alti da  apparire niente più che puntolini neri sullo sfondo azzurro, così distanti che è ben difficile associarvi  i loro inquieti richiami.

Penso che non si possa più perdere tempo.

Racimolo dal capanno degli attrezzi  gli strumenti indispensabili e attacco a lavorare.

Rimuovo una prima coltre  di terreno soffice  mescolato alle ceneri dei numerosi fuochi accesi  sempre in questo punto per eliminare d’inverno  foglie e rami secchi  e arrivo allo strato duro e arido sottostante,  di terra rossa mescolata a sassi,  con la zappa rimuovo la crosta a zolle e poi le spezzo, facendo levare nugoli di polvere.

Il sudore mi scorre copioso sulla schiena, mi scende negli occhi e li fa bruciare, la polvere mista a cenere che si leva dallo scavo mi si appiccica presto addosso.

Continuo a procedere malgrado  che la fatica, in mancanza di attrezzi più adatti, si faccia sempre  più dura:   intanto, vado pensando al lavoro sfibrante  in corsa contro  il tempo per costruire  una sepoltura adeguata all’altro cane  tanti anni fa, in campagna e sento riemergere vivido il dolore cupo che avvertivo crescere dentro di me man mano che scavavo.

Sentivo, allora, questo mio dolore e la dura fatica che mi infliggevo come una forma di giusta espiazione per non non essere riuscito ad allontanare la morte da  Petra  e forse per tutte le inevitabili trascuratezze e disattenzioni di cui  mi ero potuto rendere responsabile. E man mano che andavo avanti  dovevo inghiottire  lacrime amare  non più piante negli ultimi anni.

Ma questa volta la terra è relativamente morbida: non ci sono rocce da estirpare e nemmeno uno strato indurito da rompere a colpi di piccone.

Alla fine,  in nemmeno un’ora, sono riuscito ad approntare proprio ai piedi del muretto a secco  e accanto all’oleandro  da sempre stento una fossa di circa quaranta centimetri di profondità, lunga sessanta e larga cinquanta.

Raddrizzandomi a fatica sulla schiena dolente e valutando ad occhio le misure,  ho pensato che  potesse andar bene.

Raccolgo Zeudi - o meglio il fagotto informe in cui si è trasformata (rendendomi conto per l’ultima volta di quanto pesi il suo corpo inerte) e,  rattristato,  la depongo  con cautela sul fondo della fossa.

Comincio a ricoprirla strato a strato.

Alla fine con il rastrello elimino tutti i residui di rami secchi e quelli incombusti che, prima, in questo punto erano  mescolati allo strato superficiale del terreno.

Sempre con il rastrello, pareggio il suolo e delimito  la zona di terreno smosso di fresco con una fila di grosse pietre che erano ammucchiate vicino.

E così, il  triste lavoro è compiuto.

Mi  soffermo a contemplare  la sepoltura, mentre il sudore continua a scorrere copioso.

Sono contento di aver finito.

 

 

7.  Francesco ritorna dal mare, accompagnato dalla mamma.

Non mi chiede niente di Zeudi, anche quando si trova a passare dal punto dove, andando via, mi aveva visto lavorare allo scavo.

Ma, d’un tratto, mentre è in piedi vicino al muretto a secco,  le cui pietre più esterne sono tenute assieme da  manciate di malta friabile,  diventa lamentoso:

“Mamma, mi è entrata la sabbia nell’occhio”  (e non aggiunge altro ).

 

 

io con Fred e Zeudi - 19948. Più tardi ancora,  Francesco, mentre mangia la sua cena vuole scendere di nuovo nel posto di Zeudi.

Mi chiede qualcosa: “Papà, ma dov’è Zeudi ora?".

“Ecco - gli rispondo io - Zeudi è là  (indicando il punto della sepoltura) adesso ha una sua casetta sottoterra,  ma nello stesso tempo è andata nel cielo, in un posto in mezzo alle  stelle dove ci sono tanti altri  cani e ci guarda da là sopra. Ti ricordi del papà di Simba? Anche lui  quando muore  va  nel cielo, tra le stelle, e da lì parla a Simba. Simba guarda in alto tra le stelle e vede Mufasa che lo guarda e gli parla”.

Sembra rasserenato da questa mia risposta  e non mi chiede altro.

Me ne vado.

Franceschino rimane.

Mentre io sono via, prende  un  leone di plastica, scava un fosso nella terra vicino a Zeudi, e  lo seppellisce: “Ecco, il leone ora è morto  e lo metto nella sua casa” - mi dice mentre lo ricopre di terra.

Ma dopo un po’ ci ripensa, ri-scava  nello stesso punto e raccoglie il leone.

“Ora me lo riprendo, però”.

 

9.  Ancora  più avanti, quando è già notte, Francesco si risveglia di colpo: ma è solo il suo corpo ad essere sveglio,  il suo cervello forse sta ancora dormendo.

E’ in preda alla paura.

Si lamenta.

Lo stringo a me. Gli carezzo piano la schiena come faccio di solito per rasserenarlo.

“Papà - grida - mi è entrata la sabbia negli occhi. Papà, non mi carezzare se no mi entra la sabbia negli occhi!”.

E’ profondamente angosciato,  scalcia,  a tratti il suo corpo si irrigidisce,  per un attimo mi sembra che non ci sia nulla che possa placare questa sua ansia.

Penso alla sua domanda  della mattina sugli occhi di Zeudi e poi ancora al suo improvviso lamentarsi della sabbia del muretto che gli andava negli occhi proprio dopo avere visto che Zeudi non c’era più; penso alla sua ansia nell’immedesimare sé stesso con Zeudi: come saranno adesso gli occhi di Zeudi, adesso che Zeudi è sepolta nella terra, non  saranno forse tutti  invasi  dalla terra-sabbia? 

Perchè  mai - mi chiedo - le mie carezze gli fanno entrare  la sabbia negli occhi. 

Qualche volta Francesco, sentendo la ruvidezza delle mia mani, mi fa: “Papà, hai  fatto il lavoro delle foglie?". 

Tempo fa, mi  aveva chiesto, toccandomi le mani e sentendone la ruvidezza: “Papà, perchè hai le mani così dure?”.

Io allora gli avevo spiegato che quel giorno  ero stato nel giardino  di  Capo Zafferano a raccogliere con le mani nude le foglie secche da bruciare;  da allora qualsiasi lavoro manuale  che fa diventare le mani ruvide è  per lui  il  lavoro delle foglie.

Le mani ruvide che hanno fatto il lavoro delle foglie sono le stesse mani che hanno seppellito Zeudi nella terra ed  il contatto con queste mani suscita in lui la sensazione vivida della sabbia negli occhi.

E’ evidente che Francesco sta lavorando per elaborare quanto è successo, ma c’è un costo che deve pagare.

Solo molto tempo dopo, a fatica, si riaddormenta.

All’indomani, Francesco non risponde alle domande che gli vengono rivolte su quello che è accaduto ieri.

“Francesco, dove siamo stati ieri?”

“...” ( silenzio )

“Francesco, che cosa abbiamo fatto ieri?”

“...” ( silenzio )

 

10.  E nel silenzio  finisce appunto la cronaca della morte di Zeudi.

 

 

11. Molte settimane dopo, quando ormai l’estate volge  al termine  e i venti dell’autunno  hanno cominciato a far sentire il loro soffio triste, siamo ancora tutti a Capo Zafferano.

Nel  riquadro di pietre che adesso delimita la sepoltura di Zeudi c’è adesso piantata una piccola quercia di pochi centimetri soltanto, con la speranza che  possa diventare un giorno una pianta forte e rigogliosa.

Francesco è fuori nel giardino intento a giocare.

Ad un certo punto corre verso di noi in agitazione.

“Mamma, mamma! - grida - Presto, vieni a vedere, c’è Zeudi fuori dal cancello e vuole entrare! Mamma, perchè l’abbiamo chiusa fuori?”.

“Ma, Francesco, non è possibile; Zeudi non c’è più, Zeudi è andata a fare un viaggio in un posto lontano”.

“Mamma Zeudi c’è! Io ti ho detto: l’ho vista! Vieni a vedere, forza! E’ viva, è  viva!”

A questo punto, la mamma accorre.

Guardano assieme al di là dell’inferriata, e dall’altro lato un po’ nascosto tra le fronde c’è un cane,  sì,  ma non  è Zeudi, è  soltanto un altro cane.

Ma è un apparizione fuggevole: nemmeno il tempo di vederlo e questo cane si è subito dileguato  nella vegetazione fitta, lasciando nell’ambiguità qualsiasi percezione.

Ma per Francesco, da qualche parte Zeudi è ancora viva. Perchè è stata mandata via, perchè viene tenuta fuori dal cancello?

 

 

 12.  Alcuni mesi  dopo Francesco mi osserva attentamente mentre preparo da mangiare per Fred.

Sto usando  una ciotola di plastica gialla - quella che prima più frequentemente usavo per Zeudi.

Francesco non manca di notarlo e mi dice: “Papà, ma stai usando la ciotola di Zeudi! Perchè la usi?”.

Gli rispondo, cercando di dargli un  perchè plausibile;  ma per me, in verità,  non c’era nessun motivo era semplicemente capitato così.

Prendendo spunto da questa frase, gli chiedo: “Francesco, ma dov’è adesso Zeudi?”.

Francesco ci pensa su un attimo e quindi con molta certezza mi risponde: “Zeudi è in cielo”, ma poi ci ripensa e aggiunge: “Ma è anche nella sua casa di sabbia a Capo Zafferano”.

Io non replico più nulla e il discorso si ferma a questo punto. 

 

13. Quasi un anno dopo siamo ancora una volta a Capo Zafferano e Francesco vuole la mia compagnia per andare a vedere il posto di Zeudi.

Lo accompagno volentieri.

Quando arriviamo Francesco si lamenta con me del fatto che io non ho messo nessuna piantina all’interno del recinto di  pietre che delimita la tomba. In effetti, il terreno appare brullo e spoglio  e, d’altra parte, le pioggie lo hanno appiattito considerevolmente, mentre prima la terra smossa di fresco appariva grassa  e rigonfia.

Si vedono soltanto in prossimità della bordura di pietre due stente piantine di geranio rampicante al limite della consunzione.

Accanto alla sepoltura di Zeudi c’è una piccola grotticella, poco più che una cavità in una grande roccia scoscesa da sempre presente nel terreno.

In passato, per fare giocare altri bambini, attorno all’imboccatura di questa piccola cavità naturale,  mi ero dato da fare per costruire  un muro di pietre attrezzato con delle piccole feritoie in modo da delimitare  l’ingresso di un vero e proprio fortino.

Questa costruzione, fatta per gioco assieme a quei bambini, era stata il passatempo fugace di un’estate.

Ma poi trascorso quel tempo, il lavoro era rimasto a mezzo, come tante altre cose della mia vita..

Pini e fichi d’india sono cresciuti rigogliosi attorno a questo abbozzo di costruzione  il cui ingresso adesso appare parzialmente ostruito dal fogliame e dalle pale di fico d’india cadute.

Mentre  cercavo di liberare  il passaggio per ripristinare l’agibilità del piccolo fortino, Francesco mi dice  perentorio: “... e qua dentro abita Zeudi”.   

Poi girandosi  verso  il riquadro di pietre aggiunge: “Ma anche là sta Zeudi,  nella sua casa di sabbia!”.

 

14.  Che  la cronaca della morte di Zeudi e di questi successivi eventi  possano servire  un giorno a Franceschino per rompere il silenzio imposto dall’oblio, consentendogli  di far rivivere per un poco Zeudi,  e per  ricostruire la memoria di un evento della sua infanzia.

 


E' accaduto il 15 giugno 1997.

 

Transiti-e-passaggi-4172.JPG

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17 dicembre 2012 1 17 /12 /dicembre /2012 07:04

sliding_doors_by_dariocorno.jpeg

 

 

Qualche giorno addietro, in una bella giornata di sole (un dono dopo le pioggie e i venti freddi del fine settimana precedente) correvo con il cane...

Improvvisamente, è venuta fuori dal giardinetto di un Asilo nido privato una tipa, vestita di colori vivaci intonati con la giornata (giubbino marrone chiaro, pantaloni di velluto a coste aderenti in arancione pastello, ma intonato con l'altro capo, stivaletti), sportivamente senza borsa.

Biondissima, naturale.

Per pochi istanti mi sono sentito fortemente attratto da questa combinazione di colori così solare e da questa avvenenza (almeno quella che io percepivo) e mi sarebbe piaciuto soffermarmi un attimo a parlare con lei.

 

Ci siamo ritrovati assieme, quasi spalla a spalla, ad aspettare che il rosso del semaforo virasse al verde.

Attaversata la strada io ho svoltato a destra, mentre lei ha proseguito dritto.

Ho riflettuto anche questa volta al fatto che ci sono tantissime circostanze della vita in cui due destini entrano in rotta di collisione e che, poi, prima di collidere divergono.

Così come in altre circostanze vi sono occasionali e fugaci contatti e, analogamente, ciascuno prosegue per la sua strada, lasciandosi alle spalle quell'incontro mancato.

 

Autentiche sliding doors... dissincronie che attivano distopie e sogni ucronici...

 

Chissà quante storie come questa ciascuno di noi potrebbe raccontare!

Ogni tanto, quando ci si sofferma a pensare a tutti gli incontri mancati della nostra vita e a quante volte il corso degli eventi avrebbe potuto subire un cambio di rotta, magari soltanto a partire da una semplice parola scambiata, ci si chiede: "E se, a questo punto, le cose fossero andate così, cosa sarebbe accaduto dopo? Quale piega avrebbe preso la mia vita?".

Gli incontri mancati, i frutti che non abbiamo mai raccolto, le pietanze che non abbiamo mai mangiato fanno parte della nostra vita, tanto quanto gli incontri avvenuti.

E sono una miriade di più di ciò che è accaduto veramente...

Ciò nondimeno entrano a far parte di quello sterminato bagaglio di cose della nostra vita rimaste soltanto come mera potenzialità che ci portiamo sulle spallle e che entrano a far parte del sentimento della nostalgia.

Per questo, gli incontri manati meriterebbero sempre di essere trascritti e ricordati: in fondo siamo ciò che siamo anche a causa di ciò che non abbiamo vissuto. 

 

 

 

Io non sono di qui. Non appartengo a questa terra dove sono nato; e nella vita si  impara, impara chi vuole imparare, che nessuno appartiene alla terra dov’è nato, dove l’hanno messo al mondo. Che nessuno è di nessun posto. Alcuni cercano  di mantenere l’illusione e si costruiscono nostalgie, sensi di possesso, inni e bandiere. Tutti apparteniamo ai luoghi dove non siamo stati prima. Se esiste nostalgia, è per le cose che non abbiamo mai visto, per le donne con cui non abbiamo mai dormito e per gli amici  che ancora non abbiamo mai avuto, per i libri non letti, per i cibi nella pentola non ancora assaggiati. Questa è la vera e unica nostalgia.

PIT II [1]

 

[1]  Paco Ignacio Taibo IIOmbre nell’ombra, EST Marco Tropea Editore, 1996.

 

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5 luglio 2012 4 05 /07 /luglio /2012 19:17
Per-sempre-insieme-riquadro.jpg
"Io e tu per sempre insieme"...
Per quanto riguarda la forma, io avrei scritto - più correttamente - "te"...
Per il resto va bene.
Per quanto concerne il contenuto del messaggio, é da apprezzarne l'ottimismo...
Secondo me, queste formule sono come dei mantra propiziatori in un mondo che non offre alcuna certezza, in cui tutto é fluido e mutevole.
Se vogliamo, hanno una valenza apotropaica o  sono utilizzati come una formula scaramantica.
Forse chi realizza questi messaggi, pur essendo consapevole della loro impermanenza (la prima pioggia e l'usura determinata dal continuo passaggio delle ruote delle automobili li cancelleranno in un breve volgere di tempo), li considera anche come un baluardo protettivo rispetto alle derive temporali.
In fondo, nulla é cambiato.
Prima si incidevano frasi simili sulla corteccia di alberi secolari ubicati in luoghi che soltanto i due innamorati/amanti conoscevano e che, magari, tornavano a visitare a distanza di anni per rinnovare le loro promesse...
Oggi, la privatezza di quel gesto viene soppiantata d platealitá ed ostentazione: occorre che tutto il mondo sappia perchè il messaggio sia più vero e più "pesante" (forse anche maggiormente vincolante)...
Ciò che soprende è che il più delle volte gli amori così dichiarati sono già finiti nel momento in cui la parla scritta viene depositata in un luogo pubblico e in questo modo sottratta alla fatica di una personale elaborazione interiore.

 

Vedi anche
I messaggi d'amore dipinti per terra: deperibili, megalomanici e ostentati, all'insegna della "liquidità" delle relazioni.

Foto di Maurizio Crispi: Villa Sperlinga (Palermo), via Francesco Scaduto.

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5 luglio 2012 4 05 /07 /luglio /2012 14:18

crepuscolo - Foto di Maurizio Crispi

 

 

La sera é dolce

 

Tre gatti giocano

a rimpiattino tra i tavoli

Un rondone solca il cielo vespertino

con un volo pigro

Una coppia di anziani

in abbigliamento andante,

da viaggio,

cena poco più in lá

Lei grassoccia alquanto, sciatta,

ma con sandali civettuoli,

almeno nelle intenzioni,

mangia vorace

E i due intanto

parlottano fitto

con la confidenza tipica

delle relazioni di lungo corso

Tre musulmani in jellabah,

ieratici,

recitano silenziosi

le preghiere prescritte della sera,

il volto e il corpo orientati verso la Mecca,

lontana, ma sempre presente dentro di loro

 

I gatti

Il rondone

I due anziani

I tre musulmani in preghiera

Io

 

Tutte vite di passaggio

casualmente intrecciate

 

E poi dopo quell'istante

ognuno si smarrirà di nuovo

nella sua viandanza

mentre si spengono

le ultime braci

cupo rosseggianti

di un sole che muore

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20 giugno 2012 3 20 /06 /giugno /2012 14:05

banana-skin-copia-1.jpg

 

 

Una buccia di banana
di un bel giallo vivido
se ne sta
abbandonata  sulla sabbia

E' stata buttata lì
con gesto incurante
da un Marsia divoratore di banane

Dopo un giorno  è ancora là,
alquanto triste e desolata
Nessuno l'ha rimossa
S'è un po' annerita
e ha cominciato a prosciugarsi
sotto i raggi della canicola

Dopo tre giorni,
non si è mossa di un sol centimetro,
ancora più nera e grinza,

è molto corrucciata

Immobile ancora lì,

 di un'immobilità funerea
dopo cinque lunghi giorni,

sempre più scura e rattrappita

Il dardeggiare del sole
la sta trasformando
in una tavoletta
raggrinzita e dura
come cuoio conciato

Ogni giorno le passo accanto
e ne osservo la metamorfosi

Signori,
abbiate pietà di queste

povere spoglie mortali

Raccoglietele e seppellitele

Non dimenticate, però,
di lasciare nel luogo dell'inumazione
a mo' di lapide
una bianca pietra calcarea delle Terre magre,
in modo che l'amico Riccio,
passando per quel luogo,
la possa ricordare
e che la Chiocciolina
lemme lemme
possa strisciare
sulla liscia superficie del sasso
e lì fermarsi a ricordare
 

 

 

Una  possibile conclusione che lascia spazio alla speranza (che mi è stata suggerita da qualcuno  (a me caro) che ha letto questo storiella in anteprima: "Potrebbe accadere che il Riccio e la Chiocciolina raccolgano la splendida buccia di banana essiccata e facciano una stuoia sulla quale sdraiarsi per contemplare le stelle.

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5 giugno 2012 2 05 /06 /giugno /2012 17:52

DSC01431.JPGTutti mi chiedono perchè io indulga a fotografare animali morti in cui mi imbatto sul ciglio della strada, oppure scene di degrado metropolitano, come ad esempio un mucchio di cantalupi prossimi alla putrefazione.
Ci sono alcuni che si sentono disturbati dalla crudezza di queste immagini, forse.
Altri le considerano antiestetiche.
Altri ancora si sentono offesi ed oltraggiati.
Ma perchè?

Si tratta di scene che fanno parte del nostro panorama quotidiano, in realtà.
Molti distolgono lo sguardo e fanno finta di non vedere.
Molti desiderano vivere in una condizione di tranquillità dello spirito, in cui la quiete e la normalità quotidiane non siano per nulla disturbate.
Sembrerebbe che la volontà di molti sia orientata a mantenere a tutti i costi un equilibrio perfetto, in cui le immagini della fine siano bandite, per evitare il loro impatto destabilizzante sulle certezze della vita che si vorrebbe fossero per sempre.

I nostri antenati erano abituati alla morte e al morire che facevano parte integrante del vivere.
Per loro la morte era strettamente intersecata con il vivere: e, oltre alle certezze del vivere, c'era costantemente la certezza della morte.
La religiosità e il bisogno di trascendenza sono nate in realtà proprio da questa stretta coabitazione di vita e di morte.
La morte era ominosa ed incombente, ma era - in realtà - un fatto della vita.
Non poteva esserci la vita senza la morte.
In un recente romanzo (opera prima di Giacomo Papi, I primi tornarono a nuoto, pubblicato da Einaudi, 2012) si ipotizza che, per motivi misteriosi (che la Scienza non è capace di spiegare), i morti - tutti i morti - ritornano ad ondate in una progressione geometrica.
DSC01440I morti risorti sono fisicamente perfetti (anche se hanno l'età cronologica che avevano al momento del decesso), ma i loro tessuti (persino i loro denti) sono giovani e vigorosi. L'unica differenza è che i risorti non possono procreare.
Al crescere del numero dei redivivi, si crea immediatamente una competizione tra i vivi e i risorti: si attiva una vera e propria lotta per uno spazio vitale che si fa sempre più ristretto, visto che i risorti sono centinaia di milioni se non miliardi (considerando i morti di tutte le epoche storiche sin dagli albori dell'Umanità): e, in questa lotta, da parte dei risorti si attiva una feroce persecuzione contro le donne (non solo simbolo della fertilità, ma anche concreta estrinsecazione della capacità di procreare) e dei pargoli da poco nati. Le donne, siano esse incinte o in età fertile, vengono sterminate.

Questo l'incipit del romanzo: «I primi tornarono a nuoto la notte del secondo giorno. A sciami, nelle ore disabitate, entrarono in acqua dai porti addormentati, dai moli senza nome, dalle anonime rive di melma ed erba dimenticate sulla terraferma, e nuotarono lenti in mezzo alla laguna illuminata e oscurata a intermittenza dalla luna e dalle nuvole, uscirono dal mare come granchi o come rane, arrampicandosi sui pali, sulle barche ormeggiate, sulle scale intagliate nella pietra e invasero le isole. Per molte ore nessuno li vide». (Giacomo Papi, I primi tornarono a nuoto, Einaudi, 2012)
DSC01428Akunin in un suo libro (Le città senza tempo. Storie di cimiteri, Frassinelli, 2006) riflette che, se soltanto si considerano le grandi metropoli (quelle che hanno una storia millenaria, come Roma, Londra o Parigi) sono più i morti che le hanno popolate e che vi sono sepolti che non i vivi che le abitano in atto. E si chiede Akunin se non sarebbe legittimo pensare che queste città debbano appartenere più ai morti che si sono affastellati nel corso dei secoli che non ai vivi che le abitano. C'è da domandarsi se tutti questi morti non sprigionino una qualche forma di energia che si espande a partire dei loro luoghi di sepolutra e se non siano persistenti - presenti ed attive - tracce del loro passaggio.

Morire è una necessità dalla quale non si può eludere in alcun modo e immaginare di procrastinare oltre il lecito (e il naturale) il tempo in cui ci è dato di vivere è semplicemente follia.
Non ha senso favorire la domanda crescente di un maggiore tempo di vita: occorre piuttosto lasciare che ci siano un naturale avvicendamento e un ricambio generazionale, in modo da assicurare un equilibrio tra le vite che si spengono e quelle che cominciano.
Se così non fosse, come prospetta il metafisico romanzo di  Papi saremmo velocemente condannati all'estinzione per sovrappolazione. Detto crudamente: diventeremmo troppi per avere di che mangiare e per dividere sempre più magre risorse.
La morte prenderebbe il sopravvento per la mancanza di un naturale avvicendamento.

Primi-tornarono-a-nuoto.jpgIndugiare sulle immagini di morte, quando la morte altro non è che un transito da uno stato all'altro, è un modo per ricordarsi dell'impermanenza e della corrruttibilità.
Un'immagine è efficace in tal senso, in quanto estrapola da scenari di vita una possibile rappresentazione della morte e del passaggio da uno stato ad un altro: e questo può aiutare a riflettere e a prendere consapevolezza sul fatto che non vivremo in eterno, che siamo a predestinati a morire.
Questa è una certezza ineludibile,  anche se non possediamo la conoscenza del modo e del tempo in cui ciò avverrà.
E non dico, ovviamente, che si debba vivere cupamente, recitando come una litania "Memento mori", come facevano certi monaci di clausura (i Trappisti), votati al silenzio, ma autorizzati a pronunciare incontrando un altro confrate la fatidica frase, scavando così giorno per giorno la fossa che, da morti,li avrebbe accolti. Oppure come icona di riflessione sul tema della morte, possiamo pensare al fiociniere Queequeg che in Moby Dick sale a bordo, portandosi a spalla la bara dentro cui un giorno vorrebbe essere sepolto (dentro la quale si mette anche a dormire) e che, poi, quando il Pequod naufraga, colpito dalla furia assassina ed ominosa del grande Capodoglio bianco diventa il provvidenziale salvagente che porta Ismael in salvo.
Se riflettiamo sugli scenari di morte, saremo un po' più pronti ad accettare la fine quando verrà, ma sempre pensando alla pienezza della vita.
La società odierna, profondamente orientata all'edonismo, è troppo materialista per esprimere una riflessione profonda sulla morte e sul morire o anche un'accettazione consuetudinaria sulla nostra fragilità e sul nostro esssere transeunti.
Se si ha la consapevolezza della morte con la convinzione (tranquillamente accettata) che ogni giorno potrebbe essere l'ultimo, ogni giorno di vita che ci è dato sarà vissuto con pienezza e, quando quel momento fatidico verrà, non dovremo angustiarci perche "...non c'è più tempo", oppure perche "...non abbiamo fatto questo o quell'altro".
Benchè nessno potrà mai dire, in tutta sincerità, di essere pronto per il passaggio dentro una dimensione di ineffabile mistero, volgendo di tanto uno sguardo non terrorizzato ad un'immagine della fine, forse, potremo dire di essere almeno un po' più pronti.

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13 aprile 2012 5 13 /04 /aprile /2012 07:21

Panchine alla Villa accanto allo stadio, Palermo - Foto di Maurizio Crispi

 

Quante belle panchine...

 

Alcune allegre,

altre tristi

quelle malinconiche

e quelle ridenti

le solitarie  e le affastellate in gregge

bianche, grigie, verdi, marrone e rosse

di legno, di pietra, di ferro, di ceramica

o d'acciaio

 

Panchine per la sosta

Panchine per il riposo

Panchine d'amorosi sensi

Panchine per la lotta

e panchine conviviali

Panchine con il cuore

e panchine parlanti

Panchine per ridere

e panchine per piangere

Panchine d'amore

e panchine d'odio

(quello però soltanto un pizzico,

giusto perché le panchine non sono buoniste)

Panchine multiple

e panchine monoposto

Panchine abborracciate

e panchine vintage

 

Alcune già note

risorgono a nuova vita

Altre ignote

balzano all'attenzione

di noi pacati panchinari

 

E intanto il mondo scorre

mentre noi lo contempliamo sereni

imbarcati sulla nostra panchina preferita

come fosse un tappeto volante

in viaggio verso la magia di terre lontane

 

Ci mancano solo,

per completare il quadro,

la panchina della passione,

la panchina pasqualina

e, per finire,

anche quella sepolcrale

 

Ho fatto un sogno poco fa:

ed ero seduto su di una panchina

 

Mentre me ne stavo lì tranquillo

a ruminar pensieri,

arrivava Martin Luther King

s'accomodava a me vicino

e diceva:

I had a dream tonight...

I saw all the people

white&black

red&yellow,the rich&the poor

sitting on a single bench,

everyone talking

one language

everyone laughing

 

Panchine del Giardino Inglese, palermo - Foto di Maurizio Crispi

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12 aprile 2012 4 12 /04 /aprile /2012 20:34

 glicine.jpg

 

Mentre camminavo verso il tramonto
e il vento fresco ed umido mi intirizziva,
ho aspirato con gioia
il profumo sontuoso dei glicini

E' il segno inequivocabile dell'entrata della Primavera,
Ancora più della fioritura dei mandorli

Eppure, come sempre, quel sentore
così penetrante e dolce
m'intristisce assai,
rendendomi malinconico

Forse, è perchè come tutti i profumi naturali ricchi, densi e dolci
contiene in sé il germe della morte e del degrado,
avvicinandosi pericolosamente all'odore della decomposizione
Questa fioritura è dunque qualcosa che prelude all'arrivo dell'Autunno
e all'inelluttabile decadenza che fa seguito
ala sua entrata

Intanto, nel cielo vespertino, scorgo
ancora alte le prime rondini.
Intrecciano voli incerti ed esitanti
E come se facessero la conta:
Siamo tutte arrivate?
Ci saranno dei dispersi e dei caduti
dopo il lungo viaggio?
Devono essere arrivate da poco

dal lontano Sud in cui si rifugiano d'Inverno
Improvvisano voli,
ma non sono i voli gioiosi e matti dell'Estate
Anche quelli tuttavia - pur così spensierati -
preludono ad una dipartita
Di lì a poco, infatti, dopo quel carosello di voli forsennati,
prenderanno di nuovo le vie del cielo
per raggiungere i luoghi dello svernamento
E poi, nell'anno nuovo, faranno ritorno
in un ciclo che si ripete da sempre,
quasi eterno

Adesso, i rondoni sembrano smarriti
svolazzano,
stanchi dopo tanto viaggiare
e ancora incerti sul da farsi,
combattuti tra il desiderio di continuare ad andare
e l'impulso atavico a ristare nei luoghi della loro nascita

Il giorno di primavera
volge al tramonto ed imbrunisce,
lasciando dentro di me
una scuro alone di malinconia,
quello della vita che si è rigenerata,
ma il cui declino è già iniziato
Anche se ho la certezza che la Luce ritornerà al prossimo ciclo,
il dolore di vedere l'embrione della morte in ciò che nasce
rimane per me sempre grande

 

E' stato un giorno perfetto

Ho visto la perfezione e la bellezza
nella pacata compostezza d'un sasso di fiume
nel volo dei gabbiani nel cielo azzurro
e in quello incerto ed esitante delle prime rondini,
stremate dal lungo viaggio

E non si può che essere pensosi
davanti al mistero
di veder legate assieme la Vita e Ultime Cose

 

6 aprile 2012, Palermo

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2 aprile 2012 1 02 /04 /aprile /2012 17:05

big-fish.jpgBig Fish. Storie di una vita incredibile (Tim Burton, USA, 2003): nel bel film di Tim Burton (tratto dal'omonimo romanzo di David Wallace, Tropea) dopo molti anni di allontanamento e di totale silenzio un figlio si riavvicina al padre anziano e forse morente.
Edward Bloom è solito narrare, fra lo stupore di chi lo circonda, storie fantastiche e assurde riguardanti la sua vita: dall'incontro con un gigante alto cinque metri, a quello con una strega con un occhio di vetro, fino al celebre racconto del pesce incatturabile, preso proprio nel giorno della nascita del figlio epoi fuggito con il suo anello nuziale nella pancia. Suo figlio William, però, non apprezza questa sua presunta mancanza di serietà e per questo con il tempo si è allontanato da suo padre.
Il motivo della rottura, a suo tempo, era stato dovuto al fatto che William, divenuto più grande, non sopportasse più di sentire le reiterate narrazioni di quelle storie (peraltro meravigliose e che da piccolo lo affascinavano) in cui il padre era stato coinvolto da giovane.
Non sopportava più che il padre si esibisse pubblicamente (e tutte le occasioni erano buone per farlo)  in performance da "ballista", sentendosi umiliato da questi gratuiti show di fantasia a briglia sciolta, spacciate per reali accadimenti.
Eppure, staccatosi dal padre ed emigrato in Europa, era divenuto scrittore.
Tornando a casa dei genitori con Edward ammalato e forse in punto di morte, Will -attraverso ricordi e dialoghi - intraprende un personale viaggio alla scoperta della vita del padre per cercare di dividere la realtà dalla fantasia. Il padre Edward trae vita dal raccontare delle sue storie e, anche adesso, con incrollabile energia, le ripropone (anche adesso, come quando era più giovane).
Will, peraltro, peraltro è piccato che la moglie incinta sia affascinata da queste storie e che le ascolti avidamente. Tutto ciò lo porterà a scoprire il gusto del racconto e a rendersi conto con emozione che le storie raccontate dal padre hanno più verità di quanta se ne potesse immaginare.
Il padre ha una fede incrollabile che non morirà nel suo letto, magrado l'evidenza della sua vita.
"Non è così che uscirò di scena, lo so - gli dice - l'ho visto nel riflesso dell'occhio di vetro della strega. Io ho guardato, come gli altri miei, e non è così che finirò".
Il fim è profondo e commovente, ha a che vedere con la meraviglia del raccontare storie e con la scarsa importanza che le storie del proprio repertorio di ricordi siano vagliate con il setaccio della verità storica accaduta e documentate: quel che conta è la loro verosimiglianza psicologica e il fatto che gli elementi del reale si mescolino in una miscela in cui ciò che conta è la loro accettabilità emozionale e che, in generale, garantiscano e preservino una rappresentazione coerente del mondo vissuto e attraversato...
In questo senso, le storie del proprio passato possono diventare mitologia e, nello stesso tempo, servono per disegnare in qualche misura il proprio futuro e la propria transizione.

big-fish (1)Se ciascuno di noi potesse vedere nell'occhio finto della strega il proprio futuro e soprattutto la scena della propria fine, questo sarebbe rilevante veramente nell'influenzare i propri anni futuri in attesa del proprio fatidico momento?
E' difficile rispondere.
In una recente antologia nata da una raccolta di racconti raccolti quasi per gioco attraverso un sito web, si ipotizza che da una certa in poi, i cittadini di un'ipotetica società futura possano conoscere il tipo di morte che li attende: e tanti autori (di successo, ma anche alle prime armi) si sono cimentati in molteplici soluzioni a questo paradosso (da quelle più tragiche a quelle più grottesche): si tratto della racolta di racconti "La macchina della morte. Notizie da un mondo in cui le persone sanno di che morte morire" (a cura di Ryan North, Matthew Bennardo, David malki, Guanda, 2012).
Certo è che mano mano che si va avanti nella propria esistenza, ci si interroga sempre più sovente sulla fine.
A me capita di farlo, ovviamente.
Ipotizzo possibili scenari, ma non trovo risposte.
Nel panorama a me vicino conosco soltanto pochi possibili modi del morire.
La morte brusca ed improvvisa di un padre nel pieno delle forze che ha cessato di vivere forse senza nemmeno rendersi conto che era giunto il momento.
La morte seguita ad un progressivo (e rapido) venire delle forze di mia madre, sempre lucida sin quasi alla fine, e  che, quando ha visto che il corpo era rimasto dietro indietro ed era divenuto un fardello, ha fatto sì che la sua forte volontà mollasse la presa.
Sì è addormentata, consapevole che quello sarebbe stato l'ultimo suo sonno.
Le morti dei miei nonni paterni e della nonna e della prozie materne, entrame in età avanzate per "esaurimento" e "senescenza", ma senza una causa specifica.
I più essendo mentalmente lucidi con un corpo che ad un certo punto ha cominciato a declinare rapidamente o, a volte, precipitosdamente, dopo una vita longeva ed operosa.
Non ho altri esempi: troppo poco sono stato a contatto con le morti ospedaliere o con le morit causate da malattie devastanti, dolorose o inabilitanti, per avere disponibili altri modelli.
Ma i due che ho visto mi sembrano ragionevoli e praticabili.
Nessuno però può sapere in anticipo quale sarà il modo della propria fine.
Una cosa però mi piacerebbe: finire con un guizzo finale, con uno sberleffo, con una firma da mattacchione: una fine che più che da tragedia abbia le qualità della commedia.
Un bel finale sarebbe per me come quello de "La Giara" di Pirandello.
Con quella bellissima frase-suggello: "E l'ebbe vinta Zi' Dima".
Se le storie che si sono  costruite e raccontate continueranno ad essere tramandate,  si sarà conquistato un posto tra quelli che l'hanno avuta vinta sull'oblio della morte.
 

 

Big fish. Storie di una vita incredibile
 

Il finale di Big Fish
 

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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