Quello che segue è un lungo racconto che, a più riprese, sentii l'esigenza di scrivere per raccontare della morte del mio secondo pastore tedesco (una femmina il cui nome era Zeudi) e del modo in cui dovetti fronteggiare il tema della morte e del morire con mio figlio allora bimbo di pochi anni. Attraverso una serie di passaggi successivi, racconto anche il percorso di elaborazione che mio figlio si ritrovò a compiere davanti a quella che fu per lui in asssoluto la prima perdita con cui confrontarsi.
Ho ritrovato questo file, in un CD su cui avevo fatto una copia di backup di salvataggio dei documenti word del PC sul quale frequentemente lavoravo. Una scoperta felice, per alcuni versi, perchè in alternativa avrei dovuto ricopiare l'intero documento dalla copia stampata.
1. Un cane muore. E' Zeudi il mio secondo pastore tedesco.
2. Prima, nella notte, un altro cane distante ha abbaiato a lungo e ha uggiolato la sua inquietudine, mentre con le unghie robuste cercava di scalfire una porta che lo tratteneva. E' Fred, figlio di Zeudi, che nelle ultime fasi della malattia di Zeudi portavo a casa, mentre Zeudi la tenevo in un garage non lontano, poichè soffriva di un misterioso blocco intestinale, intervallato da fasi di dissenteria incontrollabile.
3. Il cane si è spento in solitudine in una notte afosa d’inizio estate, adagiato su di un fianco, nient’altro che nudo cemento come giaciglio.
Una ciotola d’acqua fresca poggiata accanto.
Quando sono arrivato, la canuzza era già rigida.
Sembrava dormiente, se non fosse stato per quel silenzio totale, innaturale.
Il ventre già gonfio.
I muscoli atrofici provati dalla denutrizione della lunga malattia.
E’ crollata a terra vicino alla saracinesca del box, che a tutti gli effetti è stato la sua ultima casa, quasi alla ricerca di un ultimo fiotto di aria pura.
Questa volta, il pavimento del garage è pulito, non punteggiato di escrementi.
E non c’è alcun cattivo odore, quel tanfo pesante che a volte mi accoglieva quando aprivo la porta del garage.
Mi pare che la povera Zeudi abbia deciso di andarsene quasi in punta di zampe senza dare fastidio a nessuno, e che - per questo motivo - nella sua ultima notte non ha sporcato il pavimento del garage - contrariamente a quanto accadeva di solito negli ultimi tempi con effetti che per me erano sempre di esasperazione e fastidio.
La povera Zeudi, che ha vissuto una vita canina piena di abbandoni e segregazioni immotivate, specie nei suoi ultimi anni, ora giace per terra, senza vita, morta, forse è proprio il caso di usare questa parola così temuta.
Penso al turbamento di un bambino quando saprà di questa morte.
Mi chiedo come potrà rappresentarsi l’evento innominabile.
Penso che per prima cosa dovrò evitargli di vedere direttamente il corpo di Zeudi senza vita.
Non so bene cosa fare.
Penso che in qualche modo dovrò coprirla, dissimularla.
Mi guardo in giro e mi decido ad usare una vecchia cerata abbandonata in un angolo polveroso.
Ce l'avvolgo per celare le sue forme, sigillando poi l’involto con diversi giri più volte intersecati, di un nastro adesivo da imballaggio grigio-perlaceo che ho trovato in un cassetto, dopo aver rovistato qua e là.
Alla fine quello che risulta dalla mia fatica è un fagotto irregolare tutto sigillato dal nastro adesivo, che non consente di identificare alcuna forma perturbante.
Temo che con questo caldo e con l’avvio troppo precoce dei processi di trasformazione della morte l’addome possa gonfiarsi ancora.
Mi fermo a contemplare l’involto.
“Un lavoro ben fatto” - penso tra me e me. In questi casi, rivolgere il penseiro a dettagli pratici, è una protezione efficace da temepeste emozionali e dalla percezione di un dolore intenso. Spengo la luce e me ne vado, chiudendomi la porta alle spalle.
Corro nel caldo afoso per più di due ore e, intanto, penso a Zeudi.
La penso mentre giace nella frescura ombrosa del garage interrotta soltanto dalla lama di luce che entra perentoria raso terra dall’imperfetta chiusura della saracinesca.
Negli ultimi tempi, quando la sera lasciavo Zeudi per la notte, tenevo sempre la lampadina del garage accesa nell’illusione che così sentisse meno la solitudine.
Mi chiedo dove sia; forse c’è un posto dove vanno i cani morti, una specie di campi elisi dei cani e di tutti quegli animali che in vita hanno alleviato la solitudine degli uomini.
E intanto il corpo infagottato e informe sta abbandonato sul pavimento freddo di un garage, al buio.
4. Più tardi, bisognerà provvedere al trasporto di Zeudi verso il luogo della sua sepoltura che sarà nel giardino della casa di Capo Zafferano, dove più tardi abbiamo in programma di andare per passarci la domenica.
Ma, quando ci ritroviamo assieme prima della partenza, Francesco vede il fagotto e mi interroga più volte, angustiato.
“Papà, ma Zeudi è morta?” ( mi chiedo cosa possa significare questa parola per lui)
“Sì, Francesco”
“Papà, voglio vedere Zeudi!”
“Zeudi è qua dentro tutta avvolta in questa coperta".
“Ma dove sono gli occhi, voglio vedere gli occhi!.
“Qua, Franceschino, vedi qua c’è la testa, qua il culetto qua le gambe...” ( e intanto gli indico le diverse parti del corpo del Zeudi)
“Zeudi è tutta coperta, perché adesso deve partire per un viaggio; andrà in mezzo alle stelle e avrà bisogno di questa coperta per non avere freddo" - aggiungo, per rassicurarlo.
5. Vado in auto da solo, con Zeudi, per quest’ultimo viaggio.Gli altri vengono tutti nell'altra auto, compreso il figlio di Zeudi.
Penso a quello che fanno gli altri con i propri cani morti.
Li abbandonano in mezzo alla strada.
Oppure li buttano impietosamente dentro un cassonetto.
Oppure li portano al canile municipale per farli incenerire.
O ancora quelli che ne conoscono l’esistenza chiamano la speciale squadra dell’AMIA addetta a questo compito, ma - già - quasi nessuno ne conosce l’esistenza.
No, Zeudi, come Petra prima, avrà una sua sepoltura.
E’ l’unica cosa a cui poter pensare adesso che è morta. Una cosa dovuta, anche se quest’atto sarà comunque una ben magra restituzione dopo l’interminabile solitudine a cui la poverina è stata condannata in questi suoi ultimi mesi e che ha subito con dignità e con infinita pazienza.
Durante il tragitto, rompo il silenzio di tanto in tanto, rivolgendo delle frasi a Zeudi che giace impacchettata nel fondo del portabagagli, pur essendo consapevole che è un interlocutore ormai muto: alle mie parole, infatti, non si alza dal retro, drizzando le orecchie intenta nell’ascolto e non ansima accaldata, scuotendo -con questo suo ansimare - la macchina nei momenti di sosta.
6. Ho già in mente il posto in cui, a Capo Zafferano, mi dedicherò a fare lo scavo, ed è lì che, non appena arrivato, trasporto a fatica il fagotto inerte, deponendolo con cura nella chiazza d’ombra ai piedi di un pino.
L’ora del giorno è afosa: la montagna sassosa incombe su di noi, il cielo di un blu elettrico solcato da alcuni gabbiani così alti da apparire niente più che puntolini neri sullo sfondo azzurro, così distanti che è ben difficile associarvi i loro inquieti richiami.
Penso che non si possa più perdere tempo.
Racimolo dal capanno degli attrezzi gli strumenti indispensabili e attacco a lavorare.
Rimuovo una prima coltre di terreno soffice mescolato alle ceneri dei numerosi fuochi accesi sempre in questo punto per eliminare d’inverno foglie e rami secchi e arrivo allo strato duro e arido sottostante, di terra rossa mescolata a sassi, con la zappa rimuovo la crosta a zolle e poi le spezzo, facendo levare nugoli di polvere.
Il sudore mi scorre copioso sulla schiena, mi scende negli occhi e li fa bruciare, la polvere mista a cenere che si leva dallo scavo mi si appiccica presto addosso.
Continuo a procedere malgrado che la fatica, in mancanza di attrezzi più adatti, si faccia sempre più dura: intanto, vado pensando al lavoro sfibrante in corsa contro il tempo per costruire una sepoltura adeguata all’altro cane tanti anni fa, in campagna e sento riemergere vivido il dolore cupo che avvertivo crescere dentro di me man mano che scavavo.
Sentivo, allora, questo mio dolore e la dura fatica che mi infliggevo come una forma di giusta espiazione per non non essere riuscito ad allontanare la morte da Petra e forse per tutte le inevitabili trascuratezze e disattenzioni di cui mi ero potuto rendere responsabile. E man mano che andavo avanti dovevo inghiottire lacrime amare non più piante negli ultimi anni.
Ma questa volta la terra è relativamente morbida: non ci sono rocce da estirpare e nemmeno uno strato indurito da rompere a colpi di piccone.
Alla fine, in nemmeno un’ora, sono riuscito ad approntare proprio ai piedi del muretto a secco e accanto all’oleandro da sempre stento una fossa di circa quaranta centimetri di profondità, lunga sessanta e larga cinquanta.
Raddrizzandomi a fatica sulla schiena dolente e valutando ad occhio le misure, ho pensato che potesse andar bene.
Raccolgo Zeudi - o meglio il fagotto informe in cui si è trasformata (rendendomi conto per l’ultima volta di quanto pesi il suo corpo inerte) e, rattristato, la depongo con cautela sul fondo della fossa.
Comincio a ricoprirla strato a strato.
Alla fine con il rastrello elimino tutti i residui di rami secchi e quelli incombusti che, prima, in questo punto erano mescolati allo strato superficiale del terreno.
Sempre con il rastrello, pareggio il suolo e delimito la zona di terreno smosso di fresco con una fila di grosse pietre che erano ammucchiate vicino.
E così, il triste lavoro è compiuto.
Mi soffermo a contemplare la sepoltura, mentre il sudore continua a scorrere copioso.
Sono contento di aver finito.
7. Francesco ritorna dal mare, accompagnato dalla mamma.
Non mi chiede niente di Zeudi, anche quando si trova a passare dal punto dove, andando via, mi aveva visto lavorare allo scavo.
Ma, d’un tratto, mentre è in piedi vicino al muretto a secco, le cui pietre più esterne sono tenute assieme da manciate di malta friabile, diventa lamentoso:
“Mamma, mi è entrata la sabbia nell’occhio” (e non aggiunge altro ).
8. Più tardi ancora, Francesco, mentre mangia la sua cena vuole scendere di nuovo nel posto di Zeudi.
Mi chiede qualcosa: “Papà, ma dov’è Zeudi ora?".
“Ecco - gli rispondo io - Zeudi è là (indicando il punto della sepoltura) adesso ha una sua casetta sottoterra, ma nello stesso tempo è andata nel cielo, in un posto in mezzo alle stelle dove ci sono tanti altri cani e ci guarda da là sopra. Ti ricordi del papà di Simba? Anche lui quando muore va nel cielo, tra le stelle, e da lì parla a Simba. Simba guarda in alto tra le stelle e vede Mufasa che lo guarda e gli parla”.
Sembra rasserenato da questa mia risposta e non mi chiede altro.
Me ne vado.
Franceschino rimane.
Mentre io sono via, prende un leone di plastica, scava un fosso nella terra vicino a Zeudi, e lo seppellisce: “Ecco, il leone ora è morto e lo metto nella sua casa” - mi dice mentre lo ricopre di terra.
Ma dopo un po’ ci ripensa, ri-scava nello stesso punto e raccoglie il leone.
“Ora me lo riprendo, però”.
9. Ancora più avanti, quando è già notte, Francesco si risveglia di colpo: ma è solo il suo corpo ad essere sveglio, il suo cervello forse sta ancora dormendo.
E’ in preda alla paura.
Si lamenta.
Lo stringo a me. Gli carezzo piano la schiena come faccio di solito per rasserenarlo.
“Papà - grida - mi è entrata la sabbia negli occhi. Papà, non mi carezzare se no mi entra la sabbia negli occhi!”.
E’ profondamente angosciato, scalcia, a tratti il suo corpo si irrigidisce, per un attimo mi sembra che non ci sia nulla che possa placare questa sua ansia.
Penso alla sua domanda della mattina sugli occhi di Zeudi e poi ancora al suo improvviso lamentarsi della sabbia del muretto che gli andava negli occhi proprio dopo avere visto che Zeudi non c’era più; penso alla sua ansia nell’immedesimare sé stesso con Zeudi: come saranno adesso gli occhi di Zeudi, adesso che Zeudi è sepolta nella terra, non saranno forse tutti invasi dalla terra-sabbia?
Perchè mai - mi chiedo - le mie carezze gli fanno entrare la sabbia negli occhi.
Qualche volta Francesco, sentendo la ruvidezza delle mia mani, mi fa: “Papà, hai fatto il lavoro delle foglie?".
Tempo fa, mi aveva chiesto, toccandomi le mani e sentendone la ruvidezza: “Papà, perchè hai le mani così dure?”.
Io allora gli avevo spiegato che quel giorno ero stato nel giardino di Capo Zafferano a raccogliere con le mani nude le foglie secche da bruciare; da allora qualsiasi lavoro manuale che fa diventare le mani ruvide è per lui il lavoro delle foglie.
Le mani ruvide che hanno fatto il lavoro delle foglie sono le stesse mani che hanno seppellito Zeudi nella terra ed il contatto con queste mani suscita in lui la sensazione vivida della sabbia negli occhi.
E’ evidente che Francesco sta lavorando per elaborare quanto è successo, ma c’è un costo che deve pagare.
Solo molto tempo dopo, a fatica, si riaddormenta.
All’indomani, Francesco non risponde alle domande che gli vengono rivolte su quello che è accaduto ieri.
“Francesco, dove siamo stati ieri?”
“...” ( silenzio )
“Francesco, che cosa abbiamo fatto ieri?”
“...” ( silenzio )
10. E nel silenzio finisce appunto la cronaca della morte di Zeudi.
11. Molte settimane dopo, quando ormai l’estate volge al termine e i venti dell’autunno hanno cominciato a far sentire il loro soffio triste, siamo ancora tutti a Capo Zafferano.
Nel riquadro di pietre che adesso delimita la sepoltura di Zeudi c’è adesso piantata una piccola quercia di pochi centimetri soltanto, con la speranza che possa diventare un giorno una pianta forte e rigogliosa.
Francesco è fuori nel giardino intento a giocare.
Ad un certo punto corre verso di noi in agitazione.
“Mamma, mamma! - grida - Presto, vieni a vedere, c’è Zeudi fuori dal cancello e vuole entrare! Mamma, perchè l’abbiamo chiusa fuori?”.
“Ma, Francesco, non è possibile; Zeudi non c’è più, Zeudi è andata a fare un viaggio in un posto lontano”.
“Mamma Zeudi c’è! Io ti ho detto: l’ho vista! Vieni a vedere, forza! E’ viva, è viva!”
A questo punto, la mamma accorre.
Guardano assieme al di là dell’inferriata, e dall’altro lato un po’ nascosto tra le fronde c’è un cane, sì, ma non è Zeudi, è soltanto un altro cane.
Ma è un apparizione fuggevole: nemmeno il tempo di vederlo e questo cane si è subito dileguato nella vegetazione fitta, lasciando nell’ambiguità qualsiasi percezione.
Ma per Francesco, da qualche parte Zeudi è ancora viva. Perchè è stata mandata via, perchè viene tenuta fuori dal cancello?
12. Alcuni mesi dopo Francesco mi osserva attentamente mentre preparo da mangiare per Fred.
Sto usando una ciotola di plastica gialla - quella che prima più frequentemente usavo per Zeudi.
Francesco non manca di notarlo e mi dice: “Papà, ma stai usando la ciotola di Zeudi! Perchè la usi?”.
Gli rispondo, cercando di dargli un perchè plausibile; ma per me, in verità, non c’era nessun motivo era semplicemente capitato così.
Prendendo spunto da questa frase, gli chiedo: “Francesco, ma dov’è adesso Zeudi?”.
Francesco ci pensa su un attimo e quindi con molta certezza mi risponde: “Zeudi è in cielo”, ma poi ci ripensa e aggiunge: “Ma è anche nella sua casa di sabbia a Capo Zafferano”.
Io non replico più nulla e il discorso si ferma a questo punto.
13. Quasi un anno dopo siamo ancora una volta a Capo Zafferano e Francesco vuole la mia compagnia per andare a vedere il posto di Zeudi.
Lo accompagno volentieri.
Quando arriviamo Francesco si lamenta con me del fatto che io non ho messo nessuna piantina all’interno del recinto di pietre che delimita la tomba. In effetti, il terreno appare brullo e spoglio e, d’altra parte, le pioggie lo hanno appiattito considerevolmente, mentre prima la terra smossa di fresco appariva grassa e rigonfia.
Si vedono soltanto in prossimità della bordura di pietre due stente piantine di geranio rampicante al limite della consunzione.
Accanto alla sepoltura di Zeudi c’è una piccola grotticella, poco più che una cavità in una grande roccia scoscesa da sempre presente nel terreno.
In passato, per fare giocare altri bambini, attorno all’imboccatura di questa piccola cavità naturale, mi ero dato da fare per costruire un muro di pietre attrezzato con delle piccole feritoie in modo da delimitare l’ingresso di un vero e proprio fortino.
Questa costruzione, fatta per gioco assieme a quei bambini, era stata il passatempo fugace di un’estate.
Ma poi trascorso quel tempo, il lavoro era rimasto a mezzo, come tante altre cose della mia vita..
Pini e fichi d’india sono cresciuti rigogliosi attorno a questo abbozzo di costruzione il cui ingresso adesso appare parzialmente ostruito dal fogliame e dalle pale di fico d’india cadute.
Mentre cercavo di liberare il passaggio per ripristinare l’agibilità del piccolo fortino, Francesco mi dice perentorio: “... e qua dentro abita Zeudi”.
Poi girandosi verso il riquadro di pietre aggiunge: “Ma anche là sta Zeudi, nella sua casa di sabbia!”.
14. Che la cronaca della morte di Zeudi e di questi successivi eventi possano servire un giorno a Franceschino per rompere il silenzio imposto dall’oblio, consentendogli di far rivivere per un poco Zeudi, e per ricostruire la memoria di un evento della sua infanzia.
E' accaduto il 15 giugno 1997.