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11 gennaio 2021 1 11 /01 /gennaio /2021 06:26
Foto di Maurizio Crispi

C'è una guerra: una spedizione navale è in partenza per riconquistare l'isola non lontana che è stata invasa dai nemici.
E vedo sfilare le navi da guerra, una appresso all'altra, in formazione.
Ma, nello stesso tempo, scorgo delle navi nemiche che, in lunga fila, stanno arrivando verso la terraferma.
Si prepara un grande scontro, definitivo.
Queste navi - mi ritrovo a pensare - non sono certo espressione degli armamenti più moderni: sembrano piuttosto una flottiglia messa assieme alla buona, con i navigli più disparati e in diverso stato d'uso. Una specie di armata brancaleone del mare, insomma.
O anche, passando ai toni dell'epopea, mi pare di vedere la flottiglia delle più disparate - a vela o a motore - imbarcazioni civili che partirono dalle coste di Albione per salvare l'armata inglese chiusa nella sacca di Dunkerque.
Vengo incaricato di raggiungere un grande cargo ormeggiato a poca distanza della costa, privo di tutto le sovrastrutture.
L'uomo al comando mi spiega che quel cargo, ormai ridotto ad un guscio vuoto, è utilizzato come deposito per scorte di acqua potabile e di carburante che saranno preziosi per l'esito della guerra in atto.
Il mio compito è di raggiungerlo con una piccola imbarcazione e di presidiarlo, soprattutto per evitare che, mollati gli ormeggi, se ne vada alla deriva sino ad incagliarsi o ad affondare.
Sugli ordini non si discute.
Quando arrivo non c'è nessuno a bordo.
Nessuna traccia di vita.
Preso atto di ciò, mi addormento e mi risveglio, dopo un lungo sonno, per scoprire che sono trascorsi ben undici giorni.
Non ho memoria di nulla. Non so bene cosa sia successo nel frattempo.
La guerra a quanto pare è finita: infatti, il cargo ora è ormeggiato quietamente ad un lungo molo.
Vorrei mettere qualcosa sotto i denti perchè avverto i morsi della fame dopo tanti giorni di letargo.
Ma ci sono solo delle merendine industriali.
Dopo, scendo dalla nave e comincio a costruire un muro a secco con delle grosse pietre.
Per quanto mi sforzi continuo a non ricordare nulla del mio passato.
Il passato è passato, pensiamo al futuro adesso - mi dico.

Ho camminato per le strade
Negozi chiusi e smantellati.
Vetrine vuote.
Saracinesche perennemente abbassate, con cumuli di rifiuti spinti dal vento davanti.
Cartelli di vendesi o di affittasi oppure di cessione dell'esercizio commerciale.
Passanti in maschera.
Cani in maschera.
Anche i gatti con la maschera, ma loro indossano anche un respiratore da palombaro.
E' questa la guerra, forse.
La guerra contro un nemico invisibile e dai molti volti.
Ci siamo cascati.
A forza di smantellare il pianeta siamo arrivati al punto di non ritorno.
E se - a dispetto dei facili ottimismi - il virus diventasse sempre più letale, attraverso successive mutazioni?
Stiamocene a casa a coltivare il nostro piccolo orticello.
Prendiamo un libro e leggiamo.
Oppure dormiamo.
Facciamo come il dormiglione di Woody Allen oppure come quel Rip Van Winkle (la nota creazione letteraria di Washington Irving) che, dopo essersi addormentato, si risvegliò ben vent'anni dopo, avendo saltato a pie' pari la rivoluzione americana e i primi anni della nuova repubblica.

 

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28 dicembre 2020 1 28 /12 /dicembre /2020 08:05
Deserto d'acqua, disegno di copertina Karel Thole, edizione originale

La notte ancora ancora indugia
e non trascolora nel giorno
Le vie sono deserte,
bagnate della pioggia di prima
mucchi di foglie morte intrise d'acqua
pozze profonde di oscurità
e ogni tanto l'ombrello di luce di un lampione
il natale appena trascorso sivede
in luci tremolanti che addobbano alcuni balconi
in alberetti di natale tristanzuoli
e altri addobbi luccicanti
negli atri dei palazzi
e su in alto nei balconi
e dalle finestre bagliori azzurognoli che trascolorano
nel rosa e nel verde
auto in corsa rade
lanciano lame di luce
che accendono l'asfalto di riflessi
La vuota retorica si disperde come polvere nel vento

Ho sognato che mi recavo in auto al Parco della Favorita
Lì era tutto mutato,
come se non ci avessi messo piede da tempo.
Trovo un sottopasso di cui non ho memoria
e imbocco poi uno sterrato prima non esistente
e aperto dalle auto
a forza di percorrerlo.
Ho un appuntamento con la mia famiglia
ma non trovo nessuno
In questo scenario così cambiato
non riesco a muovermi a mio agio
Scendo dall'auto:
ora, davanti a me, c'è un grande palazzo
Ne varco l'immenso portale
e salgo lungo uno scalone di dimensioni regali
Incongruamente,
ho un tubo dell'acqua in mano
e l'acqua scorre a fiotti
Chiedo informazioni, ma nessuno mi da risposte
Da un ufficio viene fuori un tipo
piccolo ed insignificante
radi capelli con riporto megagalattico
imbrillantinati
baffetti minuscoli taglio stile Hitler
Mi saluta affabilmente
dando mostra di conoscermi da lungo tempo
ma non mi sovviene chi sia
Per me è un perfetto sconosciuto,
l'ometto
L'acqua continua a scorrere e a ruscellare
giù per le scale
Mi rendo conto di non potere più stare lì
in queste condizioni
E scendo trascinando con me il tubo per innaffiare
che adesso sembra peso come piombo
Esco fuori su di un grande prato
e vado alla ricerca del rubinetto
per chiuderlo

Dissolvenza

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18 dicembre 2020 5 18 /12 /dicembre /2020 12:51
Teatro anatomico

(il frammento di un sogno) Ero all'Università, in un'aula ad anfiteatro e una platea gremita. In basso al centro delle file di banchi semicircolare, il professore di psichiatria con la testa pelata ed un camice bianco indosso teneva una lezione dotta,
Io, appollaiato  su di uno degli scranni più alti, a dispetto del silenzio reverente generale, non facevo che interloquire ed interrompere l'eloquio dell'oratore.
I miei interventi si trasformavano presto in una specie di gara tra me e l'oratore, in cui io cercavo in ogni modo di prevalere ed averla vinta.


A partire da questo piccolo frammento, mi sono ricordato di una volta quando andavo all'università, al secondo anno. C'era un assistente fascistoide che teneva alcune lezioni di fisiologia e aveva i capelli tagliati come un nazi. Faceva antipatia a tutti.
Io stavo seduto in alto, perchè era nel mio stile tenermi sempre defilato e dissi qualcosa al mio collega seduto ad un posto di distanza. Questo mio collega era uno timorosissimo dell'autorità e zelante negli studi, ma una persona buonissima d'animo.
L'assistente fu disturbato dalle mie parole bisbigliate e disse: "Lei, cosa ha da dire, perchè disturba?".
Io feci ostentatamente finta di nulla (allora ero barbuto e con i capelli abbastanza lunghi). Replica della stessa domanda di prima, ma con tono irato adesso.
Io sempre con ostentazione mi guardai alle spalle, come a dire "Magari quello sta parlando con uno dietro di me di cui ignoro la presenza".

Ma non c'era nessuno, ovviamente, e lo sapevo benissimo
Scrollai le spalle. E rimasi seduto in silenzio.
Arrivò a questo punto l'intimidazione ingiuntiva: "Lei all'ultimo banco, si alzi ed esca dall'aula!".
Di nuovo, io mi guardai alle spalle per indicare che sicuramente l'assistente così villano e con quei toni autoritari da operetta non stava certamente parlando con me. Intanto, il mio collega timoroso da morire, prendeva le distanze da me e, senza farsene accorgere si spostava di alcuni posti, cercando di defilarsi (una forma di distanziamento sociale protettivo).
A quel punto, in una sorta di braccio di ferro improvvisato, l'assistente sbottò: "Se lei non esce immediatamente dall'aula, me ne vado io".
Silenzio di tomba da parte di tutti e immobilità da parte mia.

Non mossi un muscolo, la cosa non mi riguardava.
A quel punto, l'assistente disse:"Va bene. Allora me ne vado!". E ci lasciò in asso, prendendo la via della porta e sbattendola con fragore.
Alla fine, tutti si congratularono con me, per aver sconfitto l'autoritarismo impersonato da quel docente.
Solo il mio collega, il mio vicino di posto, era contrito: "Maurizio, mi hai rovinato - mi disse - adesso, quello agli esami si ricorderà di me!".

Comunque, anche io, quando a Luglio arrivò la sessione di esami di fisiologia, mi premurai di tagliarmi barba e baffi e di accorciarmi i capelli... una forma di mascheramento protettivo, insomma, giusto per arrivare all'esame in incognito. Non si sa mai...

Dedico questo ricordo alla memoria del mio amico e collega di allora che, alcuni anni, fa ci ha lasciato prematuramente.

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16 dicembre 2020 3 16 /12 /dicembre /2020 13:51
Gioconda con mascherina (murales)

Ho sognato questo. Mi sentivo infastidito da una pellicina rotta sul bordo di un dito che, mentre dormivo e mi agitavo nel sonno, s'impigliava sempre nelle lenzuola. Il leggero attrito della pelle dura e sporgente mi risvegliava di continuo.
Molto istintivamente - per porre termine al fastidio - mi portavo il dito alla bocca per rimuovere quella pellicina con i denti, come faccio di solito da sveglio.
Ma niente, mi accorgevo che indossavo la mascherina.
Che seccatura, pensavo, pure di notte!
E la rimuovevo per poter riuscire nel mio intento.
Però, con angoscia, mi accorgevo che non avevo più la bocca: mi tastavo la faccia con le dita con frenesia e, al suo posto, soltanto pesce [pelle] liscia e giovane: nessuna traccia, nemmeno in forma di cicatrice residua, della rima buccale.
Dissolvenza...


Questo sogno mi ha portato molti pensieri.
Innanzitutto, ho pensato alla storia di Dr. Strangelove (in Italiano, il dott. Stranamore) divenuto cult negli anni Sessanta grazie al film cult di Stanley Kubrick con la magistrale interpretazione di Peter Sellers, il cui sottotitolo faceva "Come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la Bomba"(la sceneggiatura fu ispirata dal romanzo di Peter George, Red Alert, del 1958, meno fortunato), cui fece da contrappunto proprio in quegli anni il magistrale poema del poeta americano beat (underground) Gregory Corso ("Bomb"), i  cui versi, proprio per esorcizzare lo spettro della bomba atomica, sono scritti in modo tale da configurare nel loro sviluppo verticale in un foglio piegato a fisarmonica innumerevoli volte il temuto fungo atomico (AAVV, a cura di Fernanda Pivano, Poesia degli ultimi americani, Feltrinelli Le Comete, 1964).
 
Come succede nel caso del film di Stanley Kubrick e nella poesia di Corso, alla fine, nel rapporto con un manufatto ostile (l'epitome del Male, si potrebbe dire), non resta altro da fare che smettere di preoccuparsi e di odiarlo, semplicemente accettandolo e facendolo rientrare tra le cose che fanno parte del nostro ambito esperienziale, sino al punto da amarlo, paradossalmente (se si odia la bomba allora si devono odiare tutti gli altri manufatti costruiti dall'Uomo).
La bomba è dentro di noi, alla fine, sembrano indicare i versi di Corso, e non possiamo che amarla come parte della nostra natura.
E, in definitiva, è anche così nei confronti della pandemia attuale: Coronavirus (la "bomba" virale se pensiamo alle foto "esplose" del virus con tutte quelle punte minacciose che servono da aggancio con la superficie cellulare) e Covid-19, in questi dieci mesi, abbiamo finito con l'introiettarli in noi, cosicchè essi sono entrati a far parte del nostro immaginario individuale e collettivo, assieme a tutti gli oggetti di scena che vi sono correlati, come ad esempio i ventilatori polmonari per le terapie intensive, ma soprattutto le mascherine ed altri dispositivi di protezione individuali che, dell'evento pandemico, rappresentano - in forma di gadget - l'esperienza più universalmente accessibile da parte di tutti.
Mi è anche venuto in mente un libro letto parecchi anni fa. Si tratta di un saggio il cui Autore (professore universitario di tutt'altra disciplina), dopo aver tentato invano di smettere di fumare e basandosi in ciò su tutti quelli che si elencano solitamente tra gli aspetti negativi e pericolosi per la salute del tabagismo, ha deciso di fare una vera e propria rivoluzione copernicana, facendo il seguente ragionamento: "Forse se riuscirò ad enumerare tutte le ragioni per le quali mi piace fumare, alla fine - avendo più consapevolezza dei meccanismi della mia addiction - smetterò".
Da questo tentativo (un vero è proprio brain storming colto) è nato il suo libro che però in exergo non dice se il suo autore abbia, alla fine della sua poderosa compilazione, effettivamente smesso di fumare.
Ma anche qua viene fuori l'argomentazione discussa prima. Se una cosa non la puoi sconfiggere solo perchè la vedi come l'incarnazione del male, allora non ti resta che riconoscere che è dentro di te, amarla e forse soltanto così, depotenziarla.
Per quanto riguarda l'utilizzo delle mascherine che, in tempi di Covid assieme alle regole del distanziamento, rappresenta l'aspetto più emblematico e palese della pandemia in corso, potremmo dire - e qui sconfiniamo un po' nella narrazione ironica - una quantità di belle cose.
Proviamo ad elencarle.
E' diventato possibile sbadigliare in pubblico senza doversi preoccupare di coprirsi la bocca con la mano..
Con la mascherina correttamente indossata, si può eruttare in pubblico in piena libertà (silenziosamente si intende, ma i maleducati anche fragorosamente) senza timore che le proprie esalazioni gastriche raggiungano il nostro prossimo.
Si è sicuramente distolti dall'infilarsi in pubblico le dita nel naso per scavare gallerie ed estrarre minerali pregiati. Si potrebbe anche dire che coloro i quali tengono il naso fuori dalla mascherina sono degli impenitenti scavatori. In fondo, cos'è il tampone se non una forma estrema di scaccolamento, se vogliamo metterla così? Ma, negli scavatori che indossino correttamente la mascherina le attività di scavo giornaliere sono drasticamente ridotte.
Del pari, in tutte le situazioni pubbliche, si èprotetti dalportarsi le mani alla bocca nelcaso dei morsicatori e masticatori compulsivi di unghie.
L'uso della mascherina impedisce anche a coloro che ne hanno l'abitudine di masticarsi la punta dei capelli e, dunque, è un'ottimo strumento di prevenzione del tricobezoar.
L'uso della mascherina protegge il prossimo da coloro che soffrono di "fiatella", ovverossia di alito pesante, oppure per usare il termine scientifico, di "alitosi" di cui erano affetti - secondo documentate fonti - diversi fascinosi attori hollywoddiani, come ad esempio Clark Gable.
La mascherina nasconde forme sgraziate di naso, bocca e mento, mentre mette in risalto in maniera netta e decisa gli occhi, rendendoli profondi e pieni di fascino.
E poi si potrebbe anche dire: "Volti coperti, liberi pensieri...".

Rimane tuttavia il fatto che, quando cammino per strada e incrocio tutte quelle persone, uomini e donne, con la mascherina sul volto, a volte sono preso da una sorta di vertigine e da una sensazione di estraniamento,come se fossi piombato all'improvviso nel cuore di un pianeta alieno. Una sensazione tantomaggiore se mi trovo a confrontarmi con qualcuno che indossapesanti e grandi occhialoni scuri da sole.


Stranger things...

Volti coperti liberi pensieri

 

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20 novembre 2020 5 20 /11 /novembre /2020 13:38
L'assurdo universo della città-ospedale

Ho sognato che ero all'interno di una città-ospedale enorme e labirintica.


Sembrava che questa struttura si estendesse per ogni dove, con corridoi interminabili su cui si aprivano porte che conducevano dentro sale di degenza grandi e piccole.

Ero lì perché dovevo andare in un posto ben preciso - ma quale fosse adesso non lo ricordo più.
Non riuscivo però ad arrivare mai: anche quando, per coprire distanze maggiori, mi imbarcavo sui bus navetta che circolavano di continuo.
Dovunque, attraversando spazi aperti e cortili vedevo giacere scompostamente e in pose strane i corpi ignudi di uomini e donne, ancora vivi, ma palesemente abbandonati alla loro sorte.
Dentro l’immenso ospedale c’erano anche le scuole di ogni ordine e grado. Ogni tanto mi imbattevo nelle scolaresche: e arrivavo persino alla scuola di mio mio figlio. Anche qui dovevo fare qualcosa, di sicuro parlavo con le sue maestre e poi me ne andavo.
La mia peregrinazione non aveva mai fine e mi sembrava che non sarei mai riuscito a venire fuori da questo assurdo universo

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2 novembre 2020 1 02 /11 /novembre /2020 06:04

Questa notte, dopo lungo tempo, ho sognato mio padre. Camminava lungo il corridoio di casa, vestito di tutto punto in giacca e cravatta come quando si vestiva per andare al teatro, il volto atteggiato in un'espressione tesa e concentrata.
L'ho salutato pieno di gioia (poiché era da tanto che non mi visitava in sogno), ma lui ha proseguito il suo cammino, come se fosse troppo preoccupato per soffermarsi a rispondere. Cose più urgenti e gravi attiravano totalmente la sua attenzione, pensavo.
Io, nel sogno, ero allo stesso tempo bambinetto di pochi anni e adulto di molto più anziano di lui.

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24 febbraio 2020 1 24 /02 /febbraio /2020 07:45
Foto di Vincenzo Marino

Siamo nel cortile di casa, io e mio fratello.
Lo sollevo per metterlo in auto, ma anziché seguire la solita routine che è quella di farlo sedere nel sedile anteriore, entro in macchina direttamente assieme a lui, al posto di guida. Così mi ritrovo con lui in grembo, mentre devo manovrare e guidare.
Non ci riesco bene, mi sento impacciato.
Dopo, siamo fuori dall'auto. Lui in carrozzina. Io spingo.
Spingo il trabiccolo con foga, animato da un’energia e da un vigore che non so da dove vengano: no, invece, lo so. E’ la stessa forza di quando lo spingevo nella sua carrozzina su e giù per il corridoio di casa, a folle velocità e con il rischio - molto concreto - di ribaltamento in curva (è capitato, sì, é capitato, sempre durante le assenze di mia madre).
In questo assetto, usciamo dal cortile a fare una corsa.
Ma a questo punto sono disorientato: non so dove siamo. Mi mancano i punti di riferimento abituali.
A prima vista mi sembra di essere in una grande città, con punti di interesse storico e architettonico.
Ma di certo non è Palermo.
Le mie gambe girano veloci.
La carrozzina prende velocità.
Scenari metropolitani continuamente cangianti ci sfilano davanti agli occhi.
La carrozzina di tanto in tanto sobbalza 
Tu-Tum. Tu-Tum
Da un certo punto in poi, la pavimentazione stradale è di grossi sampietrini.
Per evitare che una delle ruote anteriori si inceppi in una una sporgenza, prendo ad andare tenendole sollevate.
Viaggiamo alla grande.
Antichi monumenti, chiese, teatri, rovine, sfilano davanti ai nostri occhi in una fantasmagoria di forme e di colori.
Improvvisamente la strada si fa inclinata di lato e, quindi, ad un certo punto perdiamo stabilità e ci ribaltiamo di fianco. Mo fratello si abbatte, assieme alla carrozzina, e rimane rannicchiato per terra appoggiato in quella posizione, senza dire una parola o emettere un solo suono. Semplicemente in attesa.
Le ruote della carrozzina per un po’ continuano a girare vorticosamente, cigolando lievemente.
Poi si fermano.
Fine della corsa.
Ma non c’è ansia, né dolore.
Il senso della meraviglia mi pervade, ma anche la struggente sensazione di qualcosa che è irrimediabilmente finito e che mai più tornerà.

 

Vado in dissolvenza

(24 gennaio 2020)

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2 febbraio 2020 7 02 /02 /febbraio /2020 06:04

Tutto ha inizio da un appuntamento in un luogo solitario, in natura.
Mi vedo con questa donna che non incontro da tanto tempo.
Abbracci appassionati, baci.
Il desiderio che monta.
Rapimento ed estasi.
Saliamo in auto per spostarci in un posto più riparato dove dare corso al nostro bruciante desiderio.
La strada scende verso un paesaggio costiero di bellezza ineguagliabile
Rapidi e frequenti tornanti e, ad ogni tornante, il mare scintillante si fa più vicino.
Viaggio speditamente per bruciare il tempo.
Una guida che non è la mia solita.
Ad ogni curva, taglio per mantenere velocità e assetto.
Poi ad un nuovo tornante, quando sono lì per impostare la traiettoria, all'improvviso il volante si blocca e non risponde più al mio tocco.
L'auto prosegue dritta perla sua traiettoria in un inebriante salto nel blu.
Il senso di impotenza è sopravanzato dalla meraviglia.

Dissolvenza

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31 gennaio 2020 5 31 /01 /gennaio /2020 11:56

Un giorno Gabriel mi ha chiesto: Papà, ma tu quando muori?
Sono un po' basito. Farfuglio qualcosa, poi gli dico: Spero non subito...
Replica di Gabriel: Domani? Dopodomani?
Io: Non so... Ma di certo vorrei il più tardi possibile!
Gabriel: Allora, tu morirai tra un milione di anni!

Tutto è connesso. Mi sono ricordato di un frammento di dialogo tra mia madre ultranovantenne e la signora Maria, da oltre 30 anni impiegata presso di noi come governante. 

Mi racconta la signora Maria che un giorno, quando già si era improvvisamente indebolita, la mamma le disse: Eh, Maria! Presto partirò per un lungo viaggio. E, dopo una pausa, aggiunse: E mi devi promettere che quando io sarò partita ti prenderai cura dei miei figli. La signora Maria, per sdrammatizzare, le disse: Ma, signora Irene, un viaggio per dove? Dove se ne vuole andare?

E la mamma replicò: Sarà un viaggio verso un paese molto, molto, lontano.
Ma non aggiunse altro. Fu una delle poche volte in cui la mamma parlò della sua fine, ma non con me.
Fu la signora Maria a riportare questa breve conversazione.
Altre volte, quando si rendeva conto che la sua efficienza si andava incrinando (soprattutto nell'essere di supporto a mio fratello), la mamma ci diceva che avrebbe voluto essere portata al Polo Nord ed essere lasciata ad addormentarsi lì fuori, nella landa desolata dei ghiacci, nel freddo e al buio, come un tempo usavano fare gli Inuit (gli Eschimesi) anziani che, quando si rendevano conto che stavano per diventare decrepiti ed incapaci di avere un ruolo attivo nella vita del gruppo familiare, si allontanavano a piedi trai i ghiacci della Groenlandia, dove poi aspettavano la morte4 per assideramento. Aveva letto tanto prima il Romanzo "Il paese delle Ombre lunghe" (del dimenticato, oggi, Hans Ruesch) che io le avevo passato e dalla cui narrazione la mamma era rimasta molto colpita.

Mia mamma, Irene Salatiello Crispi

C'era molta serenità in questi suoi discorsi, una serenità che nulla aveva a che vedere con la sicurezza di ciò che ci attende nell'Aldilà che la Fede cristiana fornisce circa la promessa di una vita eterna. Non entrava mai nel merito del "dopo", anche se sono convinto che la mamma, pur nella laicità della sua visione, avesse comunque la percezione che sarebbe entrata nel "Mistero" (un mistero insondabile, per la verità) e, in questo processo di transizione, non chiedeva mai aiuto a nessuno, confidando esclusivamente su se stessa, così come aveva fatto nella sua vita operosa affrontando tutte le piccole e grandi battaglie quotidiane.

E la notte seguente ho sognato.  

 

Mi ritrovavo a tentare di estirpare una tenace pianta grassa. Sembrava fosse viva e le sue radici, grosse come arti, si spingevano dentro la terra avviticchiandosi ad altri tronchi vicini.

Con la sua resistenza, manifestava una forte volontà di sopravvivenza.
Poi, quando con uno sforzo estremo riuscivo ad eradicarla, la pianta divelta prendeva a muovere il moncone delle radici come fruste, divincolandosi dalla mia presa. E avevo la sensazione che stesse diventando con questo moto minacciosa, capace di sopraffarmi: una vaga ma crescente sensazione di pericolo, quasi fossi alle prese con una belva.
E questo frenetico movimento continuava fino a che non recidevo quelle grosse radici pulsanti con una forbice da giardinaggio, incontrando una resistenza all'azione delle lame non di certo lignea ma come di carne viva.

 

Oliver Sacks, Gratitudine, Adelphi

Il giorno dopo, al risveglio, ho afferrato da un piccolo cumulo di libri non ancora letti “Gratitudine” di Oliver Sacks e nel giro di poche ore soltanto, grazie alla sua esilità, l’ho letto.
Esilità materica per via delle sue poche pagine, ma non certamente incosistenza di pensiero e di emozioni come tutte le opere di Sacks, del resto.
Il piccolo volume raccoglie quattro suoi scritti autobiografici, composti nel periodo che decore dal compimento dei suoi ottant'anni, evento seguito quasi immediatamente da quello infausto dell'identificazione di una grossa metastasi epatica di un melanoma all’occhio di cui aveva sofferto anni prima, alla morte.
Si tratta di pagine che disegnano sentieri già da lui già percorsi ma che hanno allo stesso tempo la valenza un commiato dalla vita e di un rapido, intenso, bilancio del suo percorso vitale, in cui ciò che domina, più che la nostalgia per ciò che egli si accinge a lasciare, è il sentimento di gratitudine per ciò che egli ha potuto fare, per le tracce che è riuscito ad imprimere e, soprattutto, per ciò che ha ricevuto dagli altri. Tutte cose per le quali provare un sentimento di gratitudine che, in nessun modo, potrà essere offuscato dal rammarico di fronte alla vita che fugge via.
Sacks scrive dalla vetta dei suoi ottant'anni: è un’età che ancora non mi appartiene e che non so se raggiungerò; in ogni caso. le sue parole mi hanno offerto fecondi spunti di riflessione.

 

Oliver Sacks

Oliver Sacks, nato a Londra in una famiglia di fisici e scienziati - il più giovane di quattro fratelli di una coppia ebrea -, è stato neurologo e scrittore.
In Gran Bretagna frequenta il Queen's College a Oxford dove consegue Bachelor of Arts nel 1954 in fisiologia e biologia. Presso la stessa università, nel 1958, intraprendendo un Master of Arts, ottiene una laurea in medicina e chirurgia, che gli permette di esercitare la professione di medico.
Lascia l’Inghilterra per trasferirsi prima in Canada e poi negli Stati Uniti nel 1965. Professore di Neurologia clinica presso l’Albert Einstein College of Medicine e di Neurologia alla New York University School of Medicine ha iniziato la sua attività di divulgazione scientifica descrivendo le sue esperienze neurologiche con i pazienti negli anni Settanta e pubblicando anche su The New Yorker e The New York Review of Books articoli di carattere medico- scientifico. Il suo libro più conosciuto è Risvegli, dal quale è stato tratto il film con Robin Williams e Robert De Niro, e a cui sono seguiti i racconti altrettanto noti di altri suoi casi clinici Su una gamba sola e L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Tra gli altri suoi libri L’isola dei senza colore, Emicrania, Un antropologo su Marte, Allucinazioni, editi in Italia da Adelphi. Feltrinelli ha pubblicato Diario di Oaxaca nel 2004.
Oliver Sacks è morto a New York il 30 agosto 2015.
"La fortuna mi ha abbandonato" aveva scritto in una lettera a febbraio sul New York Times annunciando il cancro al fegato "Ora spetta a me decidere come vivere i mesi che mi restano. Devo vivere nel modo più ricco, profondo e produttivo che posso".
Tra le sue ultime dichiarazioni:
"E ora, in questo frangente, in cui la morte non è più un concetto astratto, ma una presenza — una presenza fin troppo vicina e a cui non puoi dire di no — mi sto di nuovo circondando, come feci quando ero ragazzo, di metalli e minerali, piccoli emblemi di eternità."
"Qualche settimana fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto il cielo intero «spolverato di stelle» (per dirla con Milton); un cielo come questo, pensavo, si può vedere solo su altipiani elevati e desertici, come quello di Atacama in Cile. Questo splendore celeste mi ha fatto improvvisamente capire quanto poco tempo, quanta poca vita, mi siano rimasti. La mia percezione della bellezza del paradiso, dell’eternità, era per me inseparabilmente mescolata con un senso di transitorietà — e di morte. Ho detto ai miei amici, Kate e Allen: «Mi piacerebbe vedere di nuovo un cielo come questo mentre muoio». «Ti porteremo fuori con la sedia a rotelle», mi hanno risposto."

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26 dicembre 2019 4 26 /12 /dicembre /2019 09:23
Peak Experience

 

 

 

 

 

1.
Ci distribuiscono dei moduli da compilare
Si tratta di banali moduli con i dati anagrafici, luogo e data di nascita,cose così.
Siamo in un centro di addestramento per ufficiali in congedo.
Quindi siamo tutti piuttosto attempati. Ingrigiti.
E stiamo tutti stretti in un aula scolastica come quelle delle scuole di tanti anni fa, i banchi di legni scomdi e con la seduta bassa.
Non c’è posto per le gambe.
Alla consegna dei moduli compilati debitamente veniamo congedati e ci viene detto di tornare di lì a qualche giorno.

 

2.
Sono a casa con mia madre e mio fratello. Seduti a tavola, conversiamo di cose banali, ma io sono contento perchè è da tanto tempo che non li vedo.
Ma sono a disagio. ho la sensazione di aver dimenticato qualcosa e non ho fatto nessun nodo al fazzoletto  come memento.
Improvvisamente il ricordo affiora alla memoria: devo tornare al centro di addestramento.
Mi congedo in fretta da mamma e Salvatore.
Loro mi sembrano aggrondati del fatto che io abbia tanta fretta di lasciarli.
Ma io insisto dicendo loro che non psso assolutamente trattenermi.
Mi chiedono dove io debba andare tanto di fretta e io taccio ostinatamente, come se la mia destinazione fosse un segreto di stato.
Poi, vedendo le loro facce turbate, sbotto: “Sì - dico quasi gridando - sono stato convocato per un aggiornamento al Centro di addestramento per ufficiali in congedo e sono in terribile ritardo!”.
Sembrano preoccupati nel sentire la mia destinazione.
Esco dalla stanza ed inforco la mia bicicletta.
E via

3.
Arrivo al compound. Scendo dalla bici e, portandola con me, mi metto ad aspettare davanti al banco della reception.
C’è molto movimento, un via vai continuo di gente indaffarata. Ma in vista nessuno dei miei colleghi di qualche giorno prima.
Dopo una lunga attesa in cui nessuno sembra prendermi in considerazione, alla fine mi decido a chiedere.
Mi dicono di attendere. Ma nessuno sembra sapere nulla, in un primo momento.
Ed io sempre in piedi con la mia bici al fianco.
Arriva uno che sembra essere dai modi autoritari un ufficiale e mi fa cenno di seguirlo.
Ed io vado con lui, seguendolo a passi veloci, poiché lui mi ha subito girato le spalle e si è incamminato quasi repentinamente.
Ho lasciato indietro la bici alla reception, poggiata sul suo cavalletto laterale.
Torno indietro di corsa per recuperarla, ma non la trovo più.
Ritorno trafelato nella direzione che avevo preso al seguito della mia guida.
Naturalmente l’ho perso di vista, ma poi lo ricatturo con lo sguardo.
Si dirige verso una spiaggia, di un luogo che sembra ameno. Una spiaggia rocciosa, affollata quasi che fosse la propaggine di una location ricreativa più che un centro di addestramento.
Da un lato il declivio conduce verso un greto di fini ciottoli, grigia, dove vedo l’ufficiale ritto come un fuso intento in conversazione con una donna vestita in abiti ottocenteschi, da gran dama.
Io, deciso ad impressionarlo, scelgo la via più impervia e mi inerpico superando una serie di massi scoscesi e rivestiti di muschio verde e soffice.
Vado avanti, superando un ostacolo appresso all’altro, sino ad arrivare al culmine della salita.
Aggiro l’ultimo masso e, anziché trovarmi sull’altro lato di un pendio, come sarebbe stato lecito attendersi, vedo che c’è soltanto un precipizio da mozzare il fiato soltanto a cercare di guardare in basso.
Un vero e proprio strapiombo che più non si può.
Vedo ancora l’uffiiciale sulla spiaggia e la sua sagoma ridotta alle dimensione di una formica.
Comprendo che sarà proprio questa la prova d’addestramento per cui sono stato chiamato, quella cruciale.
C’è un’altissima e pericolante intelaiatura metallica appoggiata alla roccia.
La discesa la devo effettuare utilizzando le barre orizzontali come punto d’appoggio per le mani, mentre per i piedi devo via via trovare dei punti idonei sulla parete di roccia.
Il percorso è irto di difficoltà soprattutto perché mi imbatto in travi metalliche che, volutamente, sono state allentate e in pietre traballanti, appena fissate con il cemento ancora fresco. Trappole e trabocchetti per spingermi al fallimento.
Bisogna avere occhio, ogni tanto guardo verso il fondo e vedo i miei piedi pencolare sull’abisso, come se fossi il personaggio di un videogioco in soggettiva.
E sono lì, su questa parete attrezzata come se stessi facendo un sorta di free unclimbing, ma senza essere in alcuna modo assicurato con delle cime. Oppure potrei essere uno di quegli eroi spericolati e adrenalinici cultori del bungee jumping.
Ogni tanto una pietra instabile rotola giù, ma io riesco sempre a riprendermi e a ripristinare la presa. E non arrivo mai a sentire il tonfo quando il sasso arriva al fondo.
Riuscirò mai ad arrivare fino alla base dell'abisso?
Quando il mio addestramento potrà dirsi concluso?

Doomande che rimarranno insolute, perche vado in dissolvenza.

 

(Palermo, 17.12.2019)

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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