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16 dicembre 2023 6 16 /12 /dicembre /2023 07:40

Though I'm past one hundred thousand miles
I'm feeling very still
And I think my spaceship knows which way to go
Tell my wife I love her very much she knows
Ground Control to Major Tom
Your circuit's dead, there's something wrong
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you?

Space Oddity, David Bowie

sedia nella pioggia (foto di Maurizio Crispi)

Sto viaggiando
Devo andare in treno 
in una località della Scozia

 

Sono molto eccitato 
per questo viaggio 
da lungo tempo organizzato

 

Vado dunque in stazione ferroviaria
Ho tutte le credenziali di viaggio
Ho tanti diversi biglietti
per coprire diverse tratte in successione
L’ultimo dei biglietti mi consente di arrivare sino ad un luogo 
che si chiama Dauno
(almeno, così mi pare di ricordare)
La sequenza delle località da attraversare é quella giusta
Tuttavia mi manca giusto il biglietto
per raggiungere la mia meta finale,
percorrendo l'ultima delle tratte
(e arrivando alla quale
dovrò subito partire 
per un giro organizzato all inclusive,
per il quale ho già tutte le credenziali)

 

Ci sono lunghe discussioni
con gli addetti della biglietteria
per cercare di ricostruire 
quale sia questa località 
e per poter staccare il biglietto
che mi consenta di viaggiare
sino alla misteriosa meta finale

Anche altri passeggeri sfaccendati 
e passanti senza fretta
si uniscono alla discussione
e ognuno vuol dire la sua
Frugo nel mio zaino da viaggio
attrezzatissimo, ma ingombro
all’inverosimile di questo e di quello
tirando fuori alla fine dell'indaginosa ricerca
una dettagliatissima mappa
che, dispiegata, è davvero enorme
(e potrebbe rappresentare il mondo intero)
Tutti la consultano
Ma questa località non salta fuori 
Sembra che sia stata rimossa
del tutto
dalla carta geografica 
e dal prontuario degli orari delle partenze e arrivi
ma anche dalla mente mia 
e di tutti quanti

 

Luci e ombre di un quasi natale (foto di Maurizio Crispi)

È una situazione davvero paradossale
So che devo andare in un certo posto
ma non posso fare il biglietto 
per coprire l’ultima tratta
perché non ne ricordo il nome
e nessun altro lo sa 
anche coloro che dovrebbero saperlo
Si crea così una situazione di stallo
e di enorme confusione
con conversazione collettiva 
che non porta a nessuna verità ultima,
perché tutti parlano lingue diverse
come dopo la torre di Babele

 

In fondo, è così la nostra vita
Non sappiamo quale sia la nostra meta ultima
Non sappiamo come dovremo fare per raggiungerla
E nessun altro ci può dire quale sia
e nemmeno rammentarci il suo nome
La meta ultima è ineffabile
e innominabile 
Nessuno sa quale essa sia o dove sia
Non è scritta su nessuna carta
Forse, potremo saperlo
solo arrivandoci
ma sarà sempre posta
al termine d’un ulteriore segmento di viaggio
non pianificabile, forse nemmeno immaginabile

 

In verità, credo che questa meta finale
senza nome di cui nessuno
sembra avere conoscenza o memoria
sia l’essenza stessa 
del Mistero che ci attende a fine corsa

 

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15 dicembre 2023 5 15 /12 /dicembre /2023 07:10
Pegaso

Notte opaca

 

E non ricordo i sogni

 

Incubazione fallita
Per questa volta
non potrò essere oniromante

 

Rimango contrariato
se non ci sono sogni da raccontare
e da scrivere

 

Mi sento come un viaggiatore
che ritorna da un suo viaggio
in terre lontane ed esotiche
e non ha nulla da riferire
di ciò che ha visto 
perché tutto ha dimenticato
o perché, semplicemente,
mentre viaggiava
la sua mente dormiva,
i suoi occhi erano ciechi,
le sue orecchie sorde
la sua bocca muta
Dopo ogni notte,
al mio risveglio,
vorrei poter dire: 
Ecco dove sono stato!
Ecco cosa mi è successo!
Ho fatto cose insolite
(a volte un po’ bizzarre)
Ho incontrato genti diverse
Ho incontrato coloro
che non sono più 
e ho parlato loro 
come fossero vivi
e loro mi hanno parlato
Ho imparato qualcosa di nuovo
su me stesso

 

Dicendo questo mi sentirei
come Elio Aristide o quell'Artemidoro di Daldi,
che furono tra i primi cartografi del sogno
e dei suoi reami
misteriosi e controversi

 

La notte, talvolta, è avara dei suoi doni
e bisogna sapere attendere
il momento più propizio
per tornare ad essere 
vagabondo delle stelle e dei ricordi

 

Ho messo una musica 
in sottofondo
per lenire la mia veglia
senza il ricordo fertile
di tracce oniriche
e per lasciare liberi
i miei pensieri di vagare
alla ricerca d’un filo da acciuffare
per poterlo tirare pian piano
portando alla luce
ciò che rimane nascosto 

 

Se non sono oniromante,
cercherò d'essere almeno cercatore di tracce

 

Non prendetemi sul serio

 

Butto giù una parola, 
senza sapere cosa voglio scrivere
Le altre seguono
una appresso all’altra,
come in un rosario
per una sorta di predestinazione
E non sono più io che decido
cosa debba prendere forma intellegibile
o se debba dar vita ad un'insalata mista

 

In fondo scrivere 
è come buttare giù in frasi
la traccia di un sogno che emerge al risveglio
Non si sa mai dove si va a parare
Si tira fuori un filo 
che sporge da una trama ordinata 
e lo si comincia a tirare piano piano 
per non spezzarlo prima del tempo
Il filo rappresenta la rottura 
in quella trama ordinata 
ed é il novum che emerge con prepotenza,
portando con sé la meraviglia 
oppure l’orrore, 
ma anche la gioia e il dolore 

 

Adesso che é finita la musica 
ho anche finito di scrivere,
per oggi

 

Vedremo domani

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14 dicembre 2023 4 14 /12 /dicembre /2023 08:03
Al posto della Libreria Sciuti di un tempo (foto di Maurizio Crispi)

Qui su tre vetrine (o luci, come si dice oggi), in via Sciuti a Palermo, si affacciava la Libreria Sciuti (ingresso al 91/F), una storica attività in questa parte della città.
I titolari, assillati dalle ristrettezze sempre crescenti in cui versa il mercato librario a causa della spietata concorrenza di Amazon e di altri venditori online ma anche per motivi connessi con la necessità, oggi, per chi esercita questo mestiere, di reinventarsi radicalmente allo scopo di potere attrarre un pubblico sempre più distratto, hanno dovuto abbandonare la partita, con grande dolore loro e degli affezionati clienti.

L’ultimo atto si è consumato, in silenzio e quasi senza che nessuno se ne accorgesse.
Nella fase di smobilitazione, con le scaffalature prima gremite di libri e ora sempre più desolatamente vuote, più volte mi sono ritrovato a parlare con Alessandro Cusimano e con Massimo, da sempre il mio preferito referente quando mi ritrovavo a ordinare dei volumi, e a discorrere del futuro della libreria, se avrebbe riaperto i battenti, dove e quando.

Mi sono ritrovato spesso, nel corso di queste conversazioni, spesso fortemente emozionali, a dover trattenere lacrime e singulti, perché vedevo dissolversi - con questa progressiva smobilitazione - un pezzo della mia vita che si è esteso nell'arco di diverse decenni.

Ho voluto intendere nel corso di queste chiacchierate che essi nel dover chiudere fossero stati assillati da richieste esose da parte dei proprietari dell'immobile, a cui non avevano più potuto far fronte, ma non è così, in realtà: questa è stata indubbiamente una mia narrazione personale che forse si è originata da loro non detti di cose a cui dare parola sarebbe stato imbarazzante e faticoso.

In realtà, la causa principale di questa chiusura (in verità, una morte annunciata) è stato il cambiamento dei tempi e il restringersi sempre più grave dei profitti, con la necessità - come ho detto - di doversi reinventare, cosa peraltro non facile e che come mostra Shaun Bythell, nel suo "Una Vita da Libraio", richiede enormi enormi energie e una non indifferente creatività organizzativa, sconfinando in attività che non sono esattamente connesse con la vendita di libri ma che fanno cultura, commercio, aggregazione e, per questo, non bastano le semplici e tradizionali, canoniche, presentazioni di libri con annesso firma-copie: la stessa causa che, in definitiva, ha portato alla decisone dei conduttori della Libreria Sciuti di non riaprire più in altri locali ubicati in zona (e in questo caso, sì, venivano davvero avanzate richieste di pigioni assolutamente esose); oltretutto, nella nostra realtà, per l'avvio o il riavvio di un'attività commerciale qualsivoglia sono enormi gli intralci burocratici e innumerevoli le norme da applicare, i certificati da richiedere, le specifiche tasse da pagare: non è come in altri paesi europei dove tutte queste procedure sono semplificate al massimo e, soprattutto, sono meno costose.

Foto Carmelo Di Rosalia

A giugno scorso (2023) la Libreria Sciuti ha chiuso i battenti, alla fine del doloroso sgombero e ancora per diverso tempo è rimasta l'insegna a sormontare le vetrine, come testimonianza del passato.

Il vicino negozio di arredi s'è espanso ad occupare i locali che furono della Libreria Sciuti.

Sono state rapidamente cancellate tutte le tracce che possano far dire che qui c’era una libreria “storica” della mia (della nostra città) con una necessaria azione di restyling e di omologazione alle vetrine già preesistenti del negozio di arredi che si espandeva già lungo tutto il marciapiedi.

Ancora di più - con la cancellazione delle ultime tracce - mi sento affranto e dispiaciuto.
Sono stato da sempre cliente affezionato di questa libreria che era a pochi passi da casa e per me, oltretutto, comodissima da raggiungere per soddisfare qualsiasi ghiribizzo librario mi saltasse in mente.
Qui potevo sempre entrare a dare un’occhiata alle novità, a ordinare i libri che andavo selezionando per i miei approfondimenti, ad acquistare quelli da dare in regalo, a scambiare quattro parole con i titolari e i dipendenti, circostanze che, a volte, si trasformavano in vivaci conversazioni e scambi di idee.
Ora, è tutto finito.

Ma è una storia che si ripete
Come è successo prima e come, sicuramente, succederà ancora
Per esempio, come non menzionare la scomparsa della Libreria L'Aleph in via Vincenzo di Marco, condotta dal mitico Lorenzo Giordano e soppiantata da un emporio cinese, o - ancora prima - con la storicissima Libreria Flaccovio in via Ruggero Settimo, che è persino nei miei ricordi di infanzia, perché mi ci portava mio padre, al cui posto s’è insediato un venditore di intimo femminile e che, negli anni del dopoguerra sino certamente alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, è stata un centro pulsante della intellighenzia culturale di Palermo e della Sicilia, per non parlare di tante altre librerie cittadine (e mi viene in mente la Libreria Ciuni, collocata di fronte al Teatro Massimo) e di tanti altri storici esercizi invasi e metarmofizzati in attività di tipo diverso che sono effimere e che, soprattutto , non hanno tradizione alcuna e un mondo di cultura alle loro spalle.

 

Questi casi che ho menzionato sono vividi esempi di un mondo che scompare, che viene cancellato sistematicamente senza che si faccia nulla per serbarne tracce per una futura memoria collettiva e senza che si reagisca.

Siamo diventati torpidi e indifferenti.

La civiltà dello spettacolo in cui tutto passa ed è effimero, senza un reale valore, ci ha abituati a questo.

Non voglio essere o apparire sterilmente nostalgico o dare l'idea di essere uno che si piange addosso e guarda continuamente al passato, rimuginando e rimpiangendo ciò che non è più; e che è disgustato dal modo in cui il mondo sta cambiando velocemente, troppo velocemente persino.

Se fossimo in altri paesi con una maggiore vocazione culturale e un’attitudine a conservare le tracce del passato e a farle vivere nella memoria individuale e collettiva, nei luoghi che hanno ospitato queste tre librerie verrebbero affisse delle targhe in bronzo o in marmo per fissare il ricordo e così tramandarlo.

Ed è quello che io propongo agli amministratori distratti di una città che si avvia a vivere una crescente condizione di “non luogo”, senza conoscenza delle proprie radici storiche e culturali e senza memoria collettiva
 

Salvatore Cangelosi. La città e i Libri. Avventure di un libraio

Salvatore Cangelosi, La Città e i Libri. Avventure di un libraio, Torri del Vento Edizioni (Collana I Capperi), 2014

Il volume è arrichito dalla prefazione di Marcello Bonfante. Vi si parla di pezzi di storia delle librerie di Palermo e vi si chiariscono anche i rapporti "di parentela" per così dire tra Libreria Ciuni e la Libreria Sciuti

Andrebbe sicuramente letto per chi ha desiderio di consolidare ulteriomente le radici delle proprie memorie

(risguardo di copertina) Alla fine degli anni settanta, un giovane monrealese si impiega, per puro caso, in una libreria, senza sapere che quel lavoro diventerà tutta la sua vita. Attraverso le vetrine delle librerie in cui negli anni lavorerà, Cangelosi vedrà una città in continuo cambiamento, incontrerà volti noti e meno noti, stringerà la mano a scrittori più o meno famosi, ma soprattutto inizierà a conoscere se stesso. Un'autobiografia scritta come un romanzo di formazione, una prosa asciutta e ponderata frutto di anni di frequentazioni intellettuali e di meditate letture.

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12 dicembre 2023 2 12 /12 /dicembre /2023 10:37
Il mondo dietro di te (La Nave di Teseo, 2023 - Dettaglio della copertina

Non ci sono sogni
e nemmeno segni

E' stata una notte di sonno
come quello d'un ghiro,
avvoltolato nelle coperte,
ma senza avere riposo vero

 

Ora, sveglio,
cado preda d'una crisi di starnuti
e mi lacrimano gli occhi

 

Prendo un libro
Il mio occhio vaga
distratta-mente
sulla pagina scritta
senza trarne profitto o gioia

 

Scrollo e ri-scrollo
Commento e annoto
Chioso, scrivo, rilancio e condivido
E' il lavoro della notte
o all’alba prima del sorgere del sole

 

Ieri ho visto, assieme,
le foglie ingiallite sugli alberi
fluttuare nel vento
per poi cadere in una lenta danza,
i tappeti di foglie cadute a terra
e, nello stesso tempo, 
le fioriture anticipate del nespolo
e quelle tardive - fuori stagione - delle lantane
Assieme, in un’insolita combinazione,
l’autunno, l’inverno e la primavera

 

Prima vi erano certezze
Ora è tutto mischiato
Ogni cosa sfuma in un altra
È sempre più difficile dire:
Sono qui!
Oppure, sono lá!
Più difficile collocarsi con esattezza
nel flusso delle cose
Più difficile decodificare gli eventi naturali
È tutto più ambiguo,
più incerto, 
più mescolato,
più disorientante

 

Forse sono questi i segni
d’un mondo che cambia,
della scomparsa dei ritmi naturali
(quelli che ci hanno insegnato essere
naturali e immutabili)
della natura impazzita,
ma anche le avvisaglie della caduta,
imminente e improcrastinabile

 

Alcuni dicono che siamo
già pienamente immersi
in un flusso di estinzione

 

Ciò che temiamo 
sta già accadendo,
ovvero quella che dicono essere
la sesta estinzione di massa

 

E, forse, adesso potrò dormire tranquillo
un ultimo sonnellino ristoratore,
prima della fine

 

Mi è cresciuta la barba
e dovrò radermi
Lo stesso vale per le unghie
Forse questo è un segno non ambiguo
del fatto che sono ancora vivo
Eppure anche questo segno è bifronte
Dicono che i peli e la barba
- come anche le unghie -
continuino a crescere
ancora per un po’ 
dopo la morte celebrale

 

Su questo,
dovrò lavorarci su

Dal film Il Mondo dietro di te

Il mondo dietro di te (film e romanzo) In questo thriller apocalittico basato sul romanzo Leave the world behind di Rumaan Alam, seguiamo la storia di una famiglia che si ritrova ad assistere “da lontano” alla fine del mondo mentre è in vacanza. Con loro ci sono anche gli Scott, proprietari della casa che hanno affittato in una località di mare vicino a New York City. Via via succedono cose sempre più strane che convincono il gruppo che sia in corso un cyber-attacco negli Stati Uniti, forse addirittura un colpo di Stato volto a innescare una guerra civile.

Tra le stranezze c’è anche il comportamento della natura che circonda la casa. Più volte i membri della famiglia vedono dei cervi nel giardino sul retro: prima solo un paio, quindi a centinaia. L’apice di questa linea narrativa viene raggiunto quando Amanda e Ruth vengono circondate nel bosco. Gli animali non sembrano aggressivi, si limitano ad avvicinarsi a loro, fin quando le due donne non iniziano a gridare per spaventarli. Ma cosa significa tutto questo? Abbiamo la risposta del regista, nonché creatore di un’altra opera molto cinica come Mr. Robot.
Durante un’intervista con Netflix’s Tudum, il regista Sam Esmail ha infatti spiegato il significato di quelle scene, che ovviamente è molto simbolico. Ha detto: 

I cervi sono creature pacifiche. Trasformare quella dolce immagine in qualcosa di inquietante, minaccioso, quasi un avvertimento, ho pensato che fosse davvero interessante. Questo è il trucco di questo film. Abbiamo sempre cercato di prendere le cose che non abbiamo mai considerato una minaccia per poi ribaltarle.

Non è l’unico riferimento alla natura contenuto nel film: anche i fenicotteri si comportano in modo strano, cementando la sensazione che qualcosa di terribilmente storto stia accadendo nel mondo. Una possibile interpretazione potrebbe essere collegata al tema del cambiamento climatico e dei pericoli che la natura sta correndo per via delle azioni dell’uomo: l’avvertimento dei cervi potrebbe quindi essere una sorta di suggerimento su cosa bisognerebbe fare per fermare la fine del mondo, ovvero tornare ad avere un rapporto più intimo con l’ambiente naturale. Peccato che la risposta delle due protagoniste sia inutilmente aggressiva…

Nel romanzo di Rumaan Alam, inoltre, i personaggi scoprono che la prossima generazione di quel branco di cervi è nata col pelo bianco e che i loro movimenti e percorsi migratori sembrano simboleggiare il modo con cui il mondo sta cambiando rapidamente attorno all’umanità, in un modo che non possono controllare o cambiare. Anche qui, il simbolismo si spreca. Il bello di Il mondo dietro di te, come specificato anche dall’autore del libro, è che non fornisce tutte le risposte ma lascia che sia lo spettatore a interpretare determinati eventi.

 

Leggi anche: Il mondo dietro di te: le principali differenze tra il film Netflix e il romanzo originale

Foto: Netflix

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12 dicembre 2023 2 12 /12 /dicembre /2023 07:17

Queste riflessioni sono state originariamente pubblicate su FB (Meta) l'11 dicembre 2021, a corredo della foto che potete vedere subito sotto.
Riporto quelle brevi riflessioni con qualche adattamento e soltanto poche modifiche rispetto al testo originario

Maurizio Crispi

Le mie letture mattutine dell'11 dicembre 2021

Le mie letture mattutine dell'11 dicembre 2021

Molti libri in contemporanea, di ciascuno poche pagine alla volta, senza fretta. Un boccone alla volta. Le parole vanno masticate e assaporate come chicchi d'uva o altre pietanze prelibate
Faccio la prima colazione e mangio libri
Poi, durante il giorno (ed anche nella notte) leggo altri libri, sempre con lo stesso criterio che è quello di giocare su tanti tavoli contemporaneamente
In ogni stanza di casa mia c’è un angolo preposto alla lettura (direbbero gli Inglesi: un cosy corner) e collocato vicino ci sta un mucchietto (o mucchione, a seconda dei casi, altri direbbero una catasta) di libri lettura
Il principio è che i libri in lettura non mi seguono da una stanza all’altra
Ma sono piuttosto loro che mi attendono in ogni stanza preposta alla lettura
Ci sono anche dei libri che tengo in auto, per le attese
E dei libri "da zaino"
Ciò è anche possibile, poiché ho un panorama di letture e gusti piuttosto variegato, in cui saggi di vario genere o raccolte di racconti fanno da intermezzo
A volte i libri, più che letti da cima a fondo, vanno guardati e sfogliati, in modo tale da acquisire dimestichezza con il loro contenuto, con una lettura a volo d’uccello di prefazioni e postfazioni varie e dell’indice anche
Sono un lettore ingordo?
O forse mi piacciono la varietà e la differenziazione?
Non so
Mi chiedo come io sia arrivato a questo punto
Adesso che ho 74 anni continuo ad essere assillato dal pensiero che non ho più abbastanza tempo per leggere tutti i libri che vorrei leggere, anche se so che non ci riuscirò mai del tutto

D'altra parte, è Umberto Eco - scrittore, erudito e grande bibliofilo - a dire che non è necessario leggere per intero, da cima a fondo, ognuno dei libri che si possiedono.

È sciocco pensare che si debbano leggere tutti i libri che si comprano, come è sciocco criticare chi compra più libri di quanti ne potrà mai leggere. Sarebbe come dire che bisogna usare tutte le posate o i bicchieri o i cacciavite o le punte del trapano che si sono comprate, prima di comprarne di nuove. Nella vita ci sono cose di cui occorre avere sempre una scorta abbondante, anche se ne useremo solo una minima parte. Se, per esempio, consideriamo i libri come medicine, si capisce che in casa è bene averne molti invece che pochi: quando ci si vuole sentire meglio, allora si va verso "l’armadietto delle medicine" e si sceglie un libro. Non uno a caso, ma il libro giusto per quel momento.

Ecco perché occorre averne sempre una nutrita scelta! Chi compra un solo libro, legge solo quello e poi se ne sbarazza, semplicemente applica ai libri la mentalità consumista, ovvero li considera un prodotto di consumo, una merce. Chi ama i libri sa che il libro è tutto fuorché una merce.»

Umberto Eco (1932-2016)

Umberto Eco (1932-2016) nella sua biblioteca privata

Umberto Eco (1932-2016) nella sua biblioteca privata

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8 dicembre 2023 5 08 /12 /dicembre /2023 08:43

Anche a Natale
cosa vedono i miei occhi?
Munnizza
Munnizza natalina,
anziché pasquale o ferragostana
Robe abbandonate
per incuria dei raccoglitori
ma anche per incuria dei cittadini
Sono incurie che si incontrano
e si rinforzano a vicenda
Ci si deve lamentare,
è ovvio
Ma occorre anche
che ciascuno di noi
prima di proferire verbo
con lamenti e alti lai
si faccia un bell’esame di coscienza
Facciamolo a Natale
quando lo scambio e il delirio dei doni
portano a deliri complementari di munnizza

Maurizio Crispi (oggi)

La nota che segue è stata scritta il 6 dicembre 2022, quindi un anno addietro circa e posso confermare che da allora non è cambiato nulla. E dunque ciò che scrissi allora è tuttora attualissimo

La nota che segue è stata scritta il 6 dicembre 2022, quindi un anno addietro circa e posso confermare che da allora non è cambiato nulla. E dunque ciò che scrissi allora è tuttora attualissimo

Monnezza a Palermo (foto di Maurizio Crispi)

A volte capita di trovarsi a percorrere una via dalla quale non si passa per molto tempo.

Queste vie che si vedono come per le prima volta (anche se sono già conosciute) inducono una sensazione di estraneità e derealizzazione, come se all’improvviso si fosse divenuti stranieri in terra straniera. 
E quelli che colpiscono sono certi tratti di marciapiede abbandonati e negletti, perché magari non costeggiano le abitazioni ma soltanto le mura perimetrali di ville o giardini private.
Tratti di strada che in sé possiedono una valenza quasi romantica e che invece sono diventati ricettacolo di spazzatura varia, di merde di cane, di piatti di plastica lasciati per terra dalle gattane per nutrire i “loro” gatti, resti di bici rubate, macerie, incarti McDonalds (espressione del consumismo gastronomico dei poveri che però sono anche incivili), per non parlare degli alberi che adornano la via del tutto inselvatichiti, e ancora vecchie scarpe e scarponi, indumenti vari abbandonati anziché essere conferiti negli appositi contenitori oppure misteriosamente vuotati proprio dalle loro viscere.

Si cammina in mezzo a tutte queste brutture che a volte sono anche maleodoranti, costretti ad una vera e propria gimcana, e ci si chiede perché tutto questo debba accadere in una città che vorrebbe definirsi civile ed europea ed invece é da bollino rosso su tutta la linea. Una città che ha sempre avuto la vocazione per la lurdìa: basta andarsi a leggere le magistrali pagine di Goethe in Sicilia, risalenti a oltre 200 anni fa, proprio relative al modo in cui i nostri concittadini di quel tempo smaltivano i rifiuti solidi e, per di più, nelle vie prinicipali - come il Cassaro - dove massimo, anche a quel tempo, avrebbe dovuto essere il decoro.

E sì che siamo costantemente spremuti con il tributo sulla munnizza: dove vanno a finire questi soldi?

Come vengono spesi?

Vorrei proprio che qualcuno venisse a raccontarmelo.

Le foto che pubblico qui sono state scattate lungo la via Vincenzo di Marco (PA) una via che, essendo in parte sfuggita alla massiccia speculazione edilizia, ha un suo carattere un po’ retro e malinconico.
Ed invece il passante occasionale (come è capitato a me l’altro giorno) deve fare i conti con brutture e inestetismi, con la puzza e il degrado.

Il bello è che, se dal lato di chi amministra l’incuria é totale, da parte dei cittadini che abitano nelle casette e nei condomini che si affacciano lungo questa via, vi deve essere sicuramente indifferenza e assuefazione, o anche - forse - il non vedere perché oggigiorno sono sempre di meno quelli che camminano a piedi, o il non voler vedere, il fare finta di di niente, rendendosi selettivamente ciechi.

In mezzo a questo tripudio di monnezza e di degrado troneggiano beffardi i monopattini e le bici elettriche che posteggiati in maniera selvaggia ed incurante degli elementari diritti di chi cammina a piedi divengono essi stessi monnezza.

Vorrei una città più pulita e con la sua bellezza restaurata e senza questi infernali aggeggi di locomozione che alcuni dicono essere liberata e sostenibile, ma che a mio avviso aggiungono bruttura a brutture. 

L’unica cosa per difendersi da questi assalti di degrado è alzare lo sguardo verso il cielo (il che non è distogliere lo sguardo, badate bene). 

Ma un modo di cercare una risposta nel divino ineffabile ed immanente che ci sovrasta.

Ma dal cielo non arriva mai alcuna risposta

Il cielo, pur bello, con i suoi colori e con le sue nubi cangianti, pur ritemprando l’animo, è un rimedio che dura poco perché il volo della mente e dello sguardo dopo qualche istante si esaurisce e ritorna al livello del suolo per farci scoprire che la monnezza é sempre li, inamovibile (eterna, si potrebbe dire) a farci riflettere che viviamo in un mondo estremamente precario in cui il confine tra civilizzazione e totale inciviltà di modi é estremamente labile ed evanescente.

Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi
Foto di Maurizio Crispi

Foto di Maurizio Crispi

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3 dicembre 2023 7 03 /12 /dicembre /2023 17:36
Crispi bifronte (foto di Francesco Crispi)

Dicembre, dicembre!

 

Mese critico,
mese in cui si prepara il passaggio
da un anno all’altro

 

Il mese di Giano Bifronte

 

Il mese del transito e del passaggio 

 

Non penso tanto alle feste
che si succedono e ci travolgono, no!
Non penso tanto agli slogan
triti e ritriti,
alle parole vuote,
alle frasi fatte ripetute per abitudine, no!
Nemmeno penso alla commercializzazione spinta
o al potlach dei doni e dello sperpero

 

Penso solo alla corsa dei giorni
che si fa sempre più veloce e frenetica
mentre siamo sospinti in avanti
come a dover cercare di continuo
un nuovo centro di gravità,
catturati da un gorgo o da un vortice
che ci fa girare come trottole
sempre più veloci 
sempre più veloci
verso la fine dei giorni
e verso la rinascita

 

Pensiamo sempre ad una possibile rinascita 

 

Pensiamo (ci auuguriamo) sempre che dopo le rapide
potremmo di nuovo navigare
in acque più chete e tranquille
ma soltanto sino alle turbolenze successive

 

E così andiamo avanti 
sentendoci come pagliuzze
che ruotano e vorticano
in un mondo velocizzato, ultrasonico

 

Dicembre questo è diventato

 

Vogliamo soltanto la pace
e il riposo

 

Siamo forsennati, invece,
e vorremmo poter tornare
al tempo lento delle origini
e poterci concentrare
in modo intimo e meditativo
sul ricorrere ciclico
della morte e della rinascita

 

(la foto di "Crispi bifronte" è di Francesco Crispi)

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25 novembre 2023 6 25 /11 /novembre /2023 12:43
Maria Patrizia Salatiello, 1972, Capo Gallo (Foto di Maurizio Crispi)

Mia cugina, Maria Patrizia Salatiello, amava molto la Palestina e la causa della Palestina. Ricordo che quando eravamo ancora studenti di Medicina mi prestò un libro di liriche scritte da poeti palestinesi da cui era rimasta molto colpita. Quel libro tardai a leggerlo e così, alla fine, rimase saldamente insediato tra i miei libri.

La sua passione per la Palestina si estrinsecò in numerose viaggi in Palestina e a Gaza City, di cui il primo avvenne nel 1997 (se non vado errato). Successivamente, prese corpo il progetto di portare aiuto alle martoriate vicissitudini dei Palestinesi con le sue competenze professionali e si sviluppò a partire dal 2011 un percorso di studio sull'impatto delle bombe, degli attentati e delle continue azioni di guerra e di oppressione da parte degli Israeliani  sui bambini e quindi sulle forme che in essi prendeva la Sindrome Postraumatica da Stress. L'avvio di questo progetto avvenne dietro invito da parte del CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud) e si concretizzò in numerosi viaggi e permanenza presso le strutture sanitarie di Gaza City dove si raccoglievano i bambini vittime di tali traumi. Lo studio e l'osservazione avvennero con il tipico strumentario dei neuropsichiatrici infantili con competenze psicoterapeutiche e prese corpo successivamente in un volume dal titolo "Essere bambini a Gaza: il Trauma infinito" (Edizioni Frenis Zero, 2016) che oltre ad essere un apprezzato saggio scientifico su di un tema poco attenzionato che è quello dei bambini sottoposti a traumi di guerra è anche diario e resoconto di viaggio, assieme appassionato e dolente.

Lo studio-memoir di Maria Patrizia Salatiello andrebbe sicuramente riletto oggi, poiché con gli eventi recenti di cui siamo testimoni indignati è ritornato ad essere tremendamente attuale.
E mi dispiace che pochi tra gli addetti ai lavori - a livello pubblico - se ne siano ricordato (anche soltanto menzionandolo) e abbiano voluto esprimere un grazie per questo potente contributo ante litteram alla strage dei bambini palestinesi.

Lo sto facendo qui io, in questo mio blog; mettendo assieme in un collage materiali vari reperiti attraverso il web.

 

Maria Patrizia Salatiello, Essere bambini a Gaza: il trauma infinito, Frenis Zero

Maria Patrizia Salatiello, Essere bambini a Gaza: il trauma infinito, Frenis Zero

Questa breve nota scrissi nel novembre 2012

Un pensiero di solidarietà e di vicinanza alla decina di Italiani, impegnati in progetti di cooperazione internazionale che, in questo momento, si trovano all'interno della Striscia di Gaza, sottoposta ai violenti bombardamenti degli Israeliani.
Tra questi, la palermitana Maria Patrizia Salatiello, secondo un'articolo comparso oggi sul Giornale di Sicilia.
Gli Italiani sono al momento ospitati in un "posto relativamente sicuro" assieme a molti altri operatori internazionali.
Ma in questo momento critico, mentre uomini donne e bambini palestinesi continuano a morire, nessuno può dirsi "veramente" al sicuro.

Maurizio Crispi

Gaza sotto attacco nel novembre del 2012 (dal web)

(Questo scrisse Maria Patrizia Salatiello il 6 luglio 2016 nel momento del "varo" del suo libro) Alla fine di ottobre del 2011 sono tornata a Gaza, una terra che amo tantissimo, dopo una dolorosa lontananza durata undici anni. 
Sono stata invitata dal CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud) a partecipare a un progetto in sostegno dei bambini che avevano subito gravissimi traumi dopo l’attacco israeliano chiamato “Piombo fuso” e che tanti morti aveva fatto fra la popolazione, soprattutto fra i bambini. 
Da allora sono tornata almeno una volta all’anno e in questo periodo vi sono stati altri due attacchi, “Margine protettivo” nel novembre 2012 e “Colonna difesa” a fine luglio 2014. Quest’ultimo è stato il più sanguinoso, il più distruttivo, il più angosciante e ha lasciato nella popolazione e nei bambini, ma anche negli operatori, ferite indelebili.
L’attacco è iniziato poco dopo che io avevo appena lasciato la Striscia.
Per me, per tutti quelli che sono legati a Gaza e alla sua popolazione, sono stati giorni d’angoscia.
Mi chiedevo cosa potevo fare, certo tanta controinformazione, ma e poi?
Così ho cominciato a scrivere. Per sentirmi più vicina ai bambini e ai colleghi palestinesi nella speranza di fare per tutti loro qualcosa di utile che sarebbe rimasto nel tempo.
Ne è nato un saggio scientifico, che ho voluto intitolare: “Essere bambini a Gaza: il trauma infinito”, perché la peculiarità dei traumi da guerra nella Striscia è, purtroppo, quella di non cessare mai.
Nel mio libricino parlo delle conseguenze che i traumi di guerra hanno sulla vita emotiva dei bambini in generale e sui bambini di Gaza in particolare, del concetto di trauma e di trauma da guerra, dei sintomi iniziali negli adulti e nei bambini, della loro evoluzione, degli studi scientifici, in particolare di quelli effettuati a Gaza, della loro metodologia, delle modalità d’intervento e di cura.
Ma il libro è anche un lungo racconto, che narra di me, di Gaza, dei suoi bambini, che amo chiamare i miei bambini. E’ una storia che inizia tanto tempo fa, una storia fatta di passione, di momenti che mi hanno aiutato a crescere, ma anche di sofferenza, di difficoltà, di angoscia.
Il CISS (Cooperazione internazionale Sud Sud, mi ha chiesto di scrivere una paginetta per le sue newsletter, la sto condividendo con voi.

Maria Patrizia Salatiello, Essere bambini a Gaza

"Questo libro è un saggio scientifico sulle conseguenze che i traumi di guerra hanno sulla vita emotiva dei bambini in generale, e sui bambini di Gaza in particolare. Ne consegue che vi si parlerà del concetto di trauma e di trauma di guerra, di PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress), dei sintomi iniziali negli adulti e nei bambini, della loro evoluzione, degli studi scientifici, in particolare di quelli effettuati a Gaza, della loro metodologia, delle modalità d'intervento e di cura. Sarà dato ampio spazio alla metodologia utilizzata da me e dai miei collaboratori nella nostra ricerca, di cui si darà ragione. Ma questo libro è anche un lungo racconto, che narra di me, di Gaza, dei suoi bambini, che amo chiamare i miei bambini. E' una storia che inizia tanto tempo fa, una storia fatta di passione, di momenti che mi hanno aiutato a crescere, ma anche di sofferenza, di difficoltà, di angoscia" (dall'introduzione di Maria Patrizia Salatiello)

 

L'autrice è docente di Neuropsichiatria infantile all'Università di Palermo, membro della Società psicoanalitica italiana e della International Psychoanalytical Association.
Nata a Palermo, l'8 marzo 1950, ci ha lasciato all'inizio del 2023.

Il testo che segue è un estratto di uno scritto più ampio che è stato successivamente pubblicato come capitolo in un libro collettivo per le Edizioni Frenis Zero, curato da Ambra Cusin e Giuseppe Leo.

Maria Patrizia Salatiello è docente di Neuropsichiatria infantile all'Università di Palermo e membro della Società psicoanalitica italiana e della International Psychoanalytical Association,

"Infanzia a Gaza" di Maria Patrizia Salatiello

(Maria Patrizia Salatiello) Nel lontano Natale del 1997 entrai per la prima volta a Gaza. Era da tempo che desideravo andarvi per lavorare con i bambini e allora ne ebbi finalmente la possibilità Devo dare ragione di questo mio desiderio che mi ha condotto a una lunghissima esperienza con questa terra martoriata.

La diaspora palestinese aveva portato a Palermo una piccola comunità palestinese, di cui feci conoscenza e con alcuni dei giovani che la componevano divenni molto amica. In particolare con Mohammad Mansur, che studiava psicologia. La nostra amicizia divenne anche collaborazione professionale, poiché egli entrò ben presto a far parte della cerchia di specializzandi con i quali tenevo un gruppo di supervisione clinica sulla diagnosi in Neuropsichiatria infantile.

In particolare con tre di essi e con Mohammad iniziammo una ricerca al Cep, uno dei quartieri più degradati di Palermo, dove iniziammo a lavorare con i bambini che avevano subito dei traumi. Era lo stesso lavoro che Mohammad aveva in animo di fare in Palestina, quando vi fosse tornato dopo la laurea. Non era assolutamente il caso che lui vi andasse prima, c’era il rischio che gli israeliani non lo facessero più rientrare in Italia e non avrebbe più potuto laurearsi.

La ricerca era possibile grazie alla organizzazione non governativa con la quale collaboravo, il CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud).

Dopo alcuni mesi feci il mio primo viaggio in Palestina, un viaggio conoscitivo che ebbe però subito l’effetto di un pugno nello stomaco.

Ero partita con l’Associazione per la pace, di cui era presidente Luisa Morgantina, che poi divenne eurodeputato e il cui impegno per la Palestina dura tuttora.

Era un viaggio di gruppo del tutto “alternativo”, che mi diede modo di conoscere la realtà della Cisgiordania e di Gaza. Fu una full immersion nella realtà di questa terra martoriata e l’ho appena definita un pugno nello stomaco. Sono cresciuta nell’orrore della Shoah, leggendo i libri di Primo Levi e il diario di Anna Frank, ma era pur vero che attraverso gli appassionati racconti di Mohammad avevo imparato ad amare la Palestina. All’inizio del viaggio il mio animo era come diviso in due, ma ben presto cominciai a toccare con mano la terribile situazione dei palestinesi, la cui vita, nelle grandi e nelle piccole cose, era resa un inferno dalle persecuzioni israeliane, che accomunavano Gaza e la Cisgiordania, anche se la situazione della Striscia era più pesante. La violazione continua dei diritti umani, l’esproprio delle terre, gli innumerevoli check point che rendevano gli spostamenti difficilissimi, i raid notturni nelle case, quando i soldati entravano per eseguire arresti indiscriminati, che nella migliore delle ipotesi portavano e portano alle cosiddette detenzioni amministrative, che consistono nel tenere in carcere una persona a tempo indeterminato, senza che venga formulata un’accusa e senza un processo.

Per questo dicevo che il viaggio per me fu come un pugno nello stomaco. Non riuscivo a credere che un popolo che aveva tanto sofferto, in un modo così disumano, potesse a sua volta diventare persecutore di un altro popolo.

Verso la metà del mio soggiorno entrai a Gaza, con Benedetta, la cooperante del CISS e potei prendere contatto con i colleghi del Mental Health Center, una grossa ong palestinese finanziata soprattutto dai paesi scandinavi. Alcuni psicologi di questa organizzazione stavano lavorando al follow up dei bambini che avevano partecipato alla prima intifada e che presentavano quella che le classificazioni internazionali chiamano PTSD. La sindrome post traumatica da stress era stata inquadrata nosograficamente sui reduci della guerra del Vietnam, la maggior parte degli studi erano stati sempre fatti sugli adulti e quindi le ricerche del Mental Health sui bambini erano pioneristiche.

Come eravamo rimasti d’accordo tornai con i miei allievi ai primi di luglio del 1998, portavamo con noi “i ferri del mestiere”, la scatola con i giochi che utilizzavo nelle sedute di osservazione con i bambini.

Atterrammo a Tel Aviv, dove subimmo i minuziosi controlli della Security israeliana, costituita da giovanissimi agenti, ben addestrati, che facevano anche degli estenuanti interrogatori, le domande più frequenti, ripetute più e più volte, volgevano su quale fosse la nostra destinazione, cosa eravamo venuti a fare e così via.

L’interrogatorio poteva durare anche un’ora. Così fu in tutti i miei viaggi in Palestina, ma imparai ben presto a restare calma, a non perdere la pazienza.

Prendemmo un taxi e arrivammo al valico di Erez. Con Benedetta lo avevo oltrepassato in macchina, questa volta invece fu molto più complicato. Arrivati al check point dovemmo scendere dal taxi e i  nostri bagagli furono passati al metal detector. Facemmo poi un tragitto a piedi e al check point palestinese trovammo ad attenderci Taisir, un ingegnere che stava lavorando alla potabilizzazione delle acque all’interno di un progetto del CISS finanziato dall’Unione Europea. Taisir ci fu collaboratore e amico per tutto il nostro soggiorno a Gaza. Mentre percorrevamo in macchina la strada che ci portava alla casa del CISS, nella quale avremmo alloggiato mi guardai intorno. C’erano bambini ovunque, Gaza è la terra dei bambini, che sono numerosissimi. E queste immagini dei ragazzini sono nella mia mente indissolubilmente legati alla Striscia, assieme al mare, di un azzurro tanto simile a quello della mia Sicilia. Ma erano anche evidenti i segni dell’estrema povertà. A Gaza c’erano pochissime possibilità di lavoro e così uomini e donne andavano a lavorare in Israele, c’era però bisogno di un permesso particolare, la carta verde e poi bisognava mettersi in coda al check point all’alba e tornare la sera tardi.

Adesso la situazione è peggiorata, Gaza è sigillata, i suoi abitanti non possono né entrare né uscire e riescono a sopravvivere soltanto grazie all’UNRWA, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi.

Io e i miei giovani colleghi imparammo ben presto a conoscere questa tristissima realtà, ma anche la fierezza di un popolo che continuava a lottare.

Trascorsi un mese a Gaza, lavorando con gli psicologi palestinesi. Mettemmo innanzitutto a confronto le nostre metodologie, quella testologica, utilizzata dall’equipe diretta dal dottore Samir Quota e la mia basata sull’osservazione in assetto di gioco.

La cosa interessante fu che i colleghi palestinesi, in particolare proprio Samir, s’interessarono moltissimo alla nostra metodologia e l’applicarono anche loro nel lavoro con i bambini.

Molto interessante fu l’incontro con un ragazzino di undici anni, Mohammad, che quando aveva soltanto sei anni aveva partecipato alla prima Intifada, durante la quale si era trovato in due situazioni traumatiche, all’interno delle quali era stato brutalmente picchiato dai soldati israeliani.

I due eventi erano rimasti impressi nella sua mente con la qualità delle immagini visive, che si snodavano nella sua mente come le sequenze di un film, interferendo pesantemente con la sua capacità di attenzione e concentrazione. Così, pur essendo abbastanza bravo a scuola, faceva una fatica terribile a seguire le spiegazioni degli insegnanti.

Era la prima volta che mi trovavo di fronte a un caso così evidente di PTSD in un bambino, ma avrei imparato a conoscerla bene nelle mie ultime quattro missioni.

C’è però un importante fattore che differenzia i traumi subiti dai bambini durante la prima intifada e quelli dovuti alle tre terribili operazioni militari di questi ultimi anni. I bambini che sfidavano i soldati israeliani tirando pietre erano soggetti attivi di queste esperienze e questo in un certo senso, li proteggeva dagli effetti del trauma.

I ragazzini che ho visto nelle mie quattro missioni sono stati soggetti passivi dei bombardamenti e questo li ha resi più vulnerabili.

Il lungo soggiorno non fu soltanto di lavoro, trascorrevamo il pomeriggio e la sera con Taisir, che ci mostrava con orgoglio il suo lavoro alla potabilizzazione dell’acqua e ci faceva partecipi delle difficoltà che stava incontrando per completare la messa in opera degli ultimi metri di tubazione. Gli israeliani facevano di tutto per intralciare e ritardare i lavori. Eppure il progetto era importantissimo, l’acqua di Gaza è pesantemente inquinata ed è anche salmastra.

Trascorrevamo la sera al ristorante, in riva al mare, discutendo animatamente per ore, c’era una grande comunione di idee, ma anche delle differenze culturali, sulle quali i miei giovani colleghi spesso diventavano intransigenti, mentre io amavo invece sottolineare gli elementi di comunanza.

L’estate successiva tornai a Gaza da sola. Volevo continuare la mia collaborazione con il Mental Health, certo, ma il mio scopo principale era riuscire ad avere un progetto con il CISS capofila e me stessa come responsabile scientifico. Avevo bene in mente quali dovessero essere modalità e finalità di questo progetto.

Mohammad si era appena laureato con me come relatore con una tesi in cui metteva a confronto i traumi dei bambini del Cep con quelli di Gaza.

Nell’ultimo capitolo della sua tesi di laurea scriveva: “Ogni volta che vedevo bambini, ogni volta che ascoltavo le mamme, ogni volta che leggevo le loro storie, mi si ripeteva nella mente una domanda, una sola domanda: che fare?

Questa domanda ne implica tante altre e bisogna ben formulare le domande per darsi delle risposte e bisogna capire le richieste che sia i bambini sia le mamme pongono per riuscire ad aiutarli, cioè per dare una risposta all’interrogativo: che fare?

Quasi tutti i bambini palestinesi e siciliani che ho visto hanno subito un trauma e quasi tutti i loro traumi sono causati da perdite, non necessariamente fisiche.

La morte, l’arresto o le ferite gravi delle figure di attaccamento, non elaborate dal bambino stesso e non contenute da chi si prende cura di loro, rimangono congelate nella loro mente.  E poi, anche dopo anni, risalgono in superficie e causano al bambino una sofferenza indicibile.

L’obbiettivo di questo studio sin dall’inizio non è stato quello di “studiare” i bambini che hanno subito violenza, ma quello di aiutarli a superare i loro traumi e di farli crescere in un ambiente sano che dia loro cure, amore e sicurezza….

…un intervento realmente trasformativo deve essere a tutto campo. Innanzitutto non si può prescindere da un mutamento radicale della situazione socioeconomica e politica, sia nelle realtà occidentali, sia in Palestina.

Nella piena consapevolezza di quanto sia lungo e difficile il percorso che conduce a un reale cambiamento di queste realtà, si deve comunque iniziare a intervenire sia sui bambini, sia sulle loro famiglie. Utilizzo come termine che designa, in senso concreto e metaforico, lo strumento di lavoro necessario: “Centri polivalenti per l’infanzia e le loro famiglie”.

Se è pur vero infatti che alcuni bambini palestinesi e del CEP hanno bisogno di interventi psicoterapeutici individuali o di gruppo, è altrettanto vero che la complessità dei loro problemi è tale che richiede modalità di lavoro che devono avere come principali caratteristiche la poliedricità e la capacità di mutare continuamente strategia, adattandola ai bisogni propri di ogni singolo bambino”.

Il mio rimase soltanto un sogno, io non riuscì ad accedere ad alcun progetto e mi rimase dentro una grande amarezza.

Certo, l’anno dopo ebbi la grande soddisfazione di essere invitata a un congresso internazionale a Gaza, al quale presentai una relazione dal titolo: “Women of Sicily, women of Palestine”.

Tornai in Palestina nel 2001 e andai in Galilea dove incontrai Mohammad. Era infine tornato a casa, una decisione difficilissima, che aveva preso dopo un lungo anno di riflessione.

Lo andai a trovare anche nel 2006 e trovai un professionista molto preparato nel campo dei traumi, ma entrare a Gaza era ormai diventato impossibile.

Dapprima la seconda Intifada, molto più dura della prima, poi l’ascesa al potere di Hamas fecero sì che Israele sigillasse la Striscia.

Fu una lontananza dolorosa, intrisa di una profonda nostalgia, anche se cercavo di tenermi sempre informata di quello che accadeva a Gaza e anche in Cisgiordania.

E vennero, nel dicembre 2008, i giorni terribili della guerra, l’operazione che gli israeliani hanno chiamato Piombo fuso e che ha fatto più di mille e cinquecento morti, di cui un terzo bambini.

Non appena i bombardamenti cessarono e gli israeliani riaprirono il valico di Erez Mohammad riuscì a entrare a Gaza, a dare sostegno alle persone traumatizzate. Mi chiese a lungo di andare con lui, ma, sia pure con dolore, rifiutai. Sarebbe stato velleitario, senza un’organizzazione italiana alle spalle.

Malgrado fossi certa di aver preso la decisione più saggia ero piena di sensi di colpa che portai con me a lungo.

Due anni dopo ricevetti da Salvo Maraventano, il responsabile del Ciss per la Palestina, la richiesta di partecipare a un progetto che si occupava dei bambini di Gaza, che erano stati gravemente traumatizzati dai bombardamenti e dall’invasione terrestre dell’esercito israeliano.

E così, infine, sono tornata a Gaza.

Se nel lontano 1997 ero rimasta colpita da Erez, questa volta ho trovato la situazione molto più complicata, più grave, controlli minuziosissimi in entrata e ancora di più in uscita. Soltanto i cooperanti internazionali possono entrare e pochissimi palestinesi ne possono uscire, per lo più per motivi gravi di salute. Gli abitanti di Gaza non possono più andare a lavorare in Israele. Si arriva al valico e bisogna posteggiare la macchina, poi a piedi ci si avvicina a un enorme edificio in cemento armato e acciaio. Prima di entrare c’è una guardiola, dove bisogna consegnare i passaporti e attendere, quanto non è dato sapere, dipende dal poliziotto di turno. Infine si viene chiamati e il passaporto è restituito, magari assieme a domande del tipo: “Do you have a weapon?”. “No, I don’t have”.

Si entra e uno per volta si viene interrogati dal poliziotto o dalla poliziotta, domande su domande, ma dipende moltissimo dal personale di turno, alcuni sono più gentili e meno inquisitori. E poi il primo tornello, una porta d’acciaio che non si sa quando si aprirà. Ed infine il lunghissimo camminamento, uno, due, forse tre chilometri, con la rete metallica ai lati e il tetto di lamiera. Nella mia prima missione l’ho fatto a piedi, trascinando stancamente il trolley. Poi per fortuna l’ambasciata turca ha provveduto delle macchinette elettriche.

L’altra triste novità i due check point palestinesi, chiamati arba arba e kamsa kamsa (quattro quattro e cinque cinque), uno di Fatah, uno di Hamas, e se nel primo si limitano a controllare il passaporto, nel secondo aprono e perquisiscono i bagagli, alla ricerca di carne di maiale o di alcolici, nulla di tutto ciò deve ormai entrare a Gaza.

E infine ho visto Youssif, il coordinatore palestinese del progetto, rientrato da poco dall’Italia, che ci attendeva con la macchina. Ci siamo diretti verso l’ufficio del CISS, l’aria era mite, molto più mite che nella West Bank, guardavo, contenta e triste insieme, fuori dal finestrino, contenta perché ero di nuovo lì a fare qualcosa per i bambini, triste per la situazione in cui intuivo avrei lavorato.

La macchina camminava per le strade di Gaza ed io ritrovavo le vie che mi erano familiari, i bambini a centinaia, i ragazzini che andavano a scuola. Non v’erano più macerie e si vedevano un sacco di cantieri edili aperti, ma le scuole erano ancora insufficienti e vi erano doppi e tripli turni.

E così ho iniziato la prima delle quattro missioni che ho fatto sino ai primi di giugno del 2014.

E’ stata un’esperienza davvero interessante, lo staff degli psicologi e degli animatori era piena di entusiasmo, anche se dovevano sobbarcarsi un lavoro molto duro. I bambini che seguivano erano tantissimi, alcuni di essi li ho visti anche io utilizzando sempre l’osservazione in assetto di gioco. Gli psicologi avevano scelto per me i casi che più li mettevano a dura prova, affinché io li potessi consigliare. Ma per me le consultazioni hanno avuto anche lo scopo di cercare di trasmettere il mio modo di lavorare con i bambini. Le sedute di osservazione venivano discusse tutti assieme e questi erano momenti fecondi di riflessione. 

Il mio lavoro si è potuto svolgere soltanto grazie a Youssif, il coordinatore palestinese del progetto, che aveva trascorso alcuni anni della sua vita in Italia, dapprima studiando e poi lavorando. Lì si era sposato e aveva avuto la prima figlia. Youssif mi ha sempre fatto da interprete, durante tutte e quattro le mie missioni e le sue traduzioni erano impeccabili non soltanto per la sua ottima conoscenza dell’italiano, ma soprattutto perché ha da subito capito lo spirito del mio modo di lavorare e ha rivelato una grandissima capacità di immedesimarsi con i bambini, che ha saputo tradurre seguendone i moti dell’animo.

Sono tornata ad agosto 2012, la situazione a Gaza pareva tranquilla, ho lavorato alacremente ma poi è accaduto qualcosa che ha fatto sì che io entrassi a contatto con i bambini e con tutto il popolo di Gaza “dal di dentro”. Una notte infatti gli israeliani hanno bombardato la città, proprio mentre ero lì. Boati spaventosi, che hanno fatto tremare i vetri della casa che mi ospitava. In apparenza non ho subito uno shock particolare, la notte ho dormito tranquillamente e altrettanto tranquillamente mi sono svegliata. Ma non era così, ho reagito mettendo in atto il meccanismo di difesa della negazione. Me ne sono accorta il giorno dopo, lavorando con i bambini, che mi hanno permesso di entrare in contatto con la mia paura, la mia angoscia.

Non era previsto che dovessi tornare a Gaza molto presto, ma eravamo riusciti, io, Salvo, Valentina, Youssif, ad avere approvata una relazione a un congresso internazionale sull’educazione, organizzato dall’Università di Gaza e da una Università del Massachusetts, che doveva tenersi nel novembre del 2012.

Ed è stato in quei giorni che ho vissuto lo stridente contrasto fra la voglia di una vita “normale” dei palestinesi e la terribile realtà della guerra.

Quando sono arrivata la situazione fra Gaza e Israele era pesantissima. A Khan Younis, un ragazzino era stato ucciso da un colpo di mortaio israeliano. La risposta di Hamas era stata la solita, lancio dei razzi Qassam, ordigni artigianali che non hanno mai fatto vittime, ma si temeva la risposta di Israele. Sono entrata lo stesso a Gaza, ho partecipato al Congresso, che ha avuto un’ottima riuscita e si è concluso con una festa molto bella, un pranzo che non finiva più, una grande torta, piccoli fuochi d’artificio, uno spettacolo con dei ragazzi che hanno ballalo la Dabka, la danza popolare palestinese. Certo, tutte e due le notti precedenti c’erano stati degli sporadici bombardamenti, ma avevo imparato sulla mia pelle che quella era la normalità della vita a Gaza.

Il giorno dopo si è scatenato l’inferno. Gli israeliani hanno compiuto un omicidio mirato, colpendo con un missile la macchina del capo dell’ala militare di Hamas, che ha risposto moltiplicando il lancio dei Qassam.

La risposta di Israele è stata gravissima. Hanno iniziato a bombardare giorno e notte per dieci giorni e io ero lì, chiusa a casa con i cooperanti e Michele Giorgio, il corrispondente del quotidiano il Manifesto per la Palestina.

La mente umana è strana, come strana è stata la mia reazione, la notte dormivo malgrado il rumore assordante delle bombe a cui si è aggiunto il cannoneggiamento delle navi della marina militare israeliana.

Quando siamo riusciti a uscire da Gaza, appena passato il valico di Erez, i ragazzi piangevano. Si sentivano in colpa per essere in salvo, mentre tutti i nostri amici palestinesi, Youssif per primo, gli psicologi, gli animatori, tutti i bambini di cui ci eravamo fatti carico, erano rimasti lì, sotto le bombe, rischiando la vita e che, anche quando fossero sopravvissuti, avrebbero avuto una ulteriore riattivazione dei traumi.

E’ passato più di un anno e mezzo prima che potessi tornare a Gaza, l’Unità Territoriale Locale del nostro consolato a Gerusalemme ha tardato un tempo infinito a rifinanziare il progetto, proprio quando i ragazzini ne avevano più bisogno.  

Erano gli ultimi giorni di maggio del 2014 quando sono rientrata a Gaza e ho trovato una città bellissima. I palestinesi erano riusciti a sgombrare tutte le macerie e a ricostruire tutti i palazzi che erano stati distrutti dai bombardamenti. Avevano abbattuto il muro di cinta del porto e lo avevano ampliato, La sera le famiglie con i loro numerosi bambini, passeggiavano sul lungomare e si fermavano nei chioschetti del porto a mangiare il gelato.

Ma, come avevo pensato, l’ultimo attacco israeliano aveva aggravato al situazione dei bambini. Ho fatto delle consultazioni difficilissime con delle bambine gravemente traumatizzate. Sono andata via nella certezza di potere tornare presto ed invece pochi giorni dopo la mia partenza è iniziato il più terribile degli attacchi israeliani, l’operazione “Margine protettivo”.

E’ stato un massacro ed ancora una volta sono stati i bambini a pagare il più alto tributo di morte e mutilazione.

Non sono ancora tornata a Gaza, la ong di cui sono consulente non vuol lasciarmi andare e io me ne dolgo perché sono certa che potrei essere di aiuto ai bambini, ma anche agli operatori, che saranno anche loro profondamente traumatizzati.

Il mio pensiero va soprattutto alla mia ultima missione, quella prima di quest’ultimo inferno, quando la situazione mi  era parsa stranamente più tranquilla.

Ho già detto però come sia stata la mia missione più difficile da un punto di vista lavorativo. Ho visto tre ragazzine, una di esse, Maram, la conoscevo bene, poiché l’avevo incontrata di già durante tutte e tre le altre missioni. Con le altre due è stato il primo incontro, drammatico in entrambi i casi. Sono bambine con un trauma gravissimo e soprattutto una di esse appare essere senza speranza.

Proprio di essa vorrei narrare, poiché la sua storia e il materiale emerso durante le sedute di osservazione danno bene l’idea della sofferenza dei bambini di Gaza.

Iman è una ragazzina di dieci anni che vive con la sua numerosissima famiglia (sono tredici fratelli e sorelle, alcuni dei quali sposati e con figli), in un povero sobborgo. Le loro condizioni economiche sono molto brutte.

Durante Piombo fuso si rifugiano in una scuola dell’UNRWA, gli israeliani promettono una tregua di un paio di ore e così la ragazzina e i suoi vanno a casa a prendere dei vestiti. Malgrado la tregua cade un missile, che uccide molte persone, alcuni dei quali sono suoi familiari. Iman vede con i suoi occhi la cuginetta Fatima fatta a pezzi e i pezzi del suo corpo sparsi per la strada, Lei viene ferita a una gamba, resta del tutto cosciente e ricorda la vista del suo osso bianco.

Dopo questo terribile episodio Iman è sempre spaventata, la notte non riesce a dormire da sola, urla e piange mentre sta dormendo, si sveglia e prega più di una volta per notte perché ha paura di morire, di giorno non gioca con gli altri bambini, è come se fosse fragilissima. Le immagini del trauma sono sempre nella sua mente. Durante il primo incontro con lo psicologo la ragazzina appare molto stressata e annoiata, è evidente sul suo viso la gravità del trauma e la pressione che ella vive. Cerca di non parlare dell’incidente che ha vissuto. E’ da tanto che non sorride. Durante l’osservazione nella ludoteca si nota che non partecipa a nessun gioco, sta lontana dagli altri bambini.

 


 


 

Bene. Sono soddisfazioni. Oggi prima di pranzo, sono entrata nel sito internet della International Psychoanalitical Association e vi ho trovato il programma definitivo del Congresso che si terrà a fine aprile a Sidney in Australia. Fra i quindici relatori international ho trovato il mio nome e cognome e il titolo del lavoro: War trauma in children. Sono felice per ma anche per Gaza e i suoi bambini che riuscirò a fare conoscere e amare a un pubblico internazionale di psicoanalisti.

Maria Patrizia Salatiello

(Maria Patrizia Salatiello, a fine 2019) Sto tentando un azzardo incredibile che, con tutta probabilità, resterà un sogno. Sto scrivendo un "paper" da presentare a un congresso internazionale di Psicoanalisi che si terrà a Sidney a maggio nel 2020. Credo che questo azzardo resterà  una delle tante mie  fantasie. Ecco comunque l'incipit: 
War trauma in children: the neverending story
Iman, la sua storia.
Iman è una ragazzina di dieci anni che vive con la sua numerosissima famiglia, tredici fratelli e sorelle, alcuni dei quali sposati e con figli, in un povero sobborgo. Le loro condizioni economiche sono molto brutte. Ha appena cinque anni quando Israele lancia il suo sanguinoso attacco alla striscia di Gaza che farà milletrecento ventitré morti di cui quattrocento quarantasei bambini. La incontro a maggio del 2014. Le dico chi sono e cosa faccio. Le chiedo cosa desidera fare e mi risponde che vuole parlare. M. P. “Raccontami”. I. “La notte faccio brutti sogni e poi li dimentico, alcuni però li ricordo. Ho sognato che mamma e tutta la famiglia erano morti e io restavo da sola”. M. P. “E’ proprio un sogno molto brutto”. I. “Sì”. M. P. “L’hai raccontato a qualcuno?” I. “A mamma e alla dottoressa, l’ho raccontato allo stesso modo, adesso vorrei parlare di mia cugina Fatima, è stata fatta a pezzi da un missile, io l’ho vista e poi ho visto la mia gamba ferita e l’osso bianco uscito di fuori”. Questo ricordo di ben cinque anni fa torna di continuo alla memoria della bambina con la vividezza delle immagini visive, iconiche, nei suoi racconti che ha fatto negli incontri con gli psicologi, in quelli con me e sembra precludere la via a ogni altra possibile comunicazione ed è il tema dominante dei suoi disegni.

Essere bambini a Gaza: il trauma infinito. Lo studio di Maria Patrizia Salatiello torna ad essere di piena attualità oggi. E andrebbe letto e divulgato

Addio Patrizia... La notizia della tua morte é stata come un fulmine per il mio cuore.
Era per me l'amica, la sorella, la mamma e anche una guida professionale ed ha lasciato la sua importantissima impronta sulla mia vita.
Era la mia relatrice della tesi di laurea che era una ricerca sul trauma dei bambini di Gaza e dalla prima sua visita lì è stata colpita, come me, dalla sindrome di Gaza.
In una delle sue missioni a Gaza ha vissuto un attacco israeliano feroce.
Neuropsichiatria infantile, psicoanalista e soprattutto umana, la sua umanità era la sua guida, ha messo la sua conoscenza al servizio dei dannati del mondo.
A Cinzia e Barbara e alla sua famiglia,mi unisco al vostro dolore, è anche il mio.

Mohammad Mansur


رحلت عنا بالأمس الدكتورة Maria Patrizia Salatiello والتي رافقتني في مسيرة تخرجي ببحث عن أطفال غزة في أواسط التسعينيات ومن وقتها صارت من أكبر المناصرين الأجانب لغزة وأطفالها، حيث تواجدت هناك عشرات المرات، حتى تحت القصف.
كانت صديقة واخت وام ومرشدة مهنية وتركت بصمتها في حياتي الشخصية والمهنية. لروحها السلام.

Mohammad Mansur

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21 novembre 2023 2 21 /11 /novembre /2023 06:16

 

 

 

Il sole è violento, fastidioso

 

Lo sento inopportuno
I suoi raggi fendono le mie retine, 
le scavano,
le corrodono
Ma non si placa mai
‘sto cazzo di sole?
Lo vorrei più gentile,
più misurato
questo fratello Sole
ed invece lo sento nemico,
assillante 
atturrante

 

A volte penso che ci avviamo 
verso la fine del mondo
e che, senza preavviso alcuno,
il sole divenuto ostile
ci ghermirà nella sua fiamma più pura

 

Tutto arderà,
si scioglierà 
nella infinitesima frazione d'un battito di ciglia
e di questo atomo di Male
che è la Terra
non rimarranno
nemmeno le ceneri,
nemmeno le polveri sottili,
poiché tutto di Noi,
sino alla più infima molecola 
sino alle particelle subatomiche
deve essere cancellato
in accordo con una sentenza
da tempo emessa

 

Non c’è più tempo 
per correre ai ripari
o per redimersi

 

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16 novembre 2023 4 16 /11 /novembre /2023 06:23

Tempo addietro scrissi un articolo su "L'importanza del salutarsi" che è riportato e commentato tra le mie note su Facebook (inserito con relativo commento attorno al gennaio 2010). Quello che segue è uno stralcio di ciò che scrissi allora:

Maurizio Crispi

A questa regola nel corso della mia vita mi sono sempre ispirato, ottenendo sempre un contraccambio in parole o con un gesto. Anche nella mia pratica podistica, ho sempre cercato di applicare questa regola. Sia nei confronti di coloro con i quali mi trovo a condividere l’uso degli spazi urbani alle prime luci dell’alba, sia nei confronti di altri che – come – corrono.

È così che mi ritrovo a salutare l’edicolante, l’extra-comunitario che ha tenuto aperta per tutta la notte la rivendita di fiori e piante, perfino Ninetta, la homeless che arriva prestissimo –chi sa da dove – ad occupare la sua postazione e a gettare innocui improperi a chi passa. Ogni volta che incontro un podista intento nel suo allenamento (un mio simile, uno con il quale – in teoria – condivido la stessa passione) ho sempre salutato. "Ciao!!!", "Buongiorno!!!" a seconda dei casi: un saluto non costa niente e può far piacere salutare un proprio simile anche se le strade di ciascuno seguono traiettorie opposte.

Purtroppo, devo dire che i podisti metropolitani - ancora non ho trovato eccezioni a simile comportamento – a differenza del fiorista, dell’edicolante o dello spazzino, ignorano la regola di cortesia che mi è stata trasmessa. Invariabilmente, proseguono nella loro corsa, lo sguardo fisso nel vuoto, ingrugniti nello sforzo.

Alcuni pensano che la pratica sportiva dovrebbe ingentilire gli animi, nobilitare, arricchire interiormente gli individui che vi si dedicano. L'ignorare il saluto di un proprio simile ( di più: di un proprio pari, di uno che fa parte della stessa "comunità" specializzata) sembra contraddire un tale assunto. Forse, bisognerebbe ri-apprendere alcune regole elementari della cortesia, per dare un senso diverso alla propria dedizione allo sport: che attualmente, così come viene praticato sembra orientato verso forme di appartenenza "gruppale" esasperata, in cui il riconoscimento dell'altro può avvenire soltanto se l'altro è visto come "simile", "pari", in definitiva appartenente alla stessa tribù.

Per lo stesso motivo, se ad un gruppetto di podisti appartenenti alla stessa "conventicola" vuole aggregarsi uno "sconosciuto", il tacito accordo (subito messo in atto dal gruppo) è "Stronchiamolo!!!!" e tutti cominciano a correre come forsennati. Forse il rito del saluto (che, così concepito, lungi dall'essere vuota ritualità è anche scambio, relazione, riconoscimento del valore dell'esistenza dell'altro) s'è perso, con il concomitante smarrimento dell'affabilità, della cortesia, gentilezza, disponibilità che un tempo contraddistingueva la vita negli spazi urbani e non solo. Forse sempre più ci stiamo abituando a vivere chiusi dentro un duro guscio di solitudine che porta ciascuno ad ignorare l'Altro da sé, a non vederlo, a non sentirlo.

Alla "regola del saluto", quando cammino o corro, cerco sempre di uniformarmi.

Saluto sempre chi incrocio durante la mia corsa mattutina: sia esso passante, venditore ambulante o collega-podista".

 

Frida, cane fedele (2003-20119 - Foto di Maurizio Crispi

(12 marzo 2021) Di questi tempi incontro sempre una podista lenta, incrociandola o in andata o di ritorno lungo il mio percorso mattutino.

Le prime volte io la salutavo sempre con cortesia. "Salve!", "Ciao!", "Buongiorno!", accompagnando le parole con un gesto di cordialità, ma traendone tuttavia sempre la stessa risposta: un volto sfingeo, occhi nascosti da grossi occhialoni neri anche in condizioni di semi-oscurità mattutina, labbra strette e rigide.

Se salutare è da parte di chi saluta espressione di armonia con il mondo e con gli altri, rispondere al saluto che ci è indirizzato dovrebbe essere una regola (se non altro mossa dalla cortesia).

E, invece, da parte di questa tizia, niente: mai nessuna risposta. Sempre la stessa faccia impenetrabile. Davvero incomprensibile….

Alla fine mi sono scocciato: in occasione degli ultimi incontri, contravvenendo alla mia regola - e quanto mi è pesato questo! - ho smesso di salutare, avvertendo dentro di me questa discontinuità come mossa da una certa aggressività.

In questi stessi giorni, quasi a lenire lo smacco del saluto sempre mancato o ignorato, nello stesso tratto di strada mi corre incontro festosamente un cane (non so se sia un cane perduto o un cane che il padrone lascia libero di scorrazzare), meticcio indubbiamente e con un collare di tela sdrucita (che parrebbe rimandare ad un'appartenenza).

Il cane ci corre incontro festoso, compie i rituali di saluti alla mia cagnetta e prende a trotterellarci accanto apparentemente felice, per alcune centinaia di metri, per poi ritornare da dove è spuntato.

In questo modo, quasi per compensazione, il rituale del saluto è rispettato…

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Come sono arrivato qui

DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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