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24 novembre 2014 1 24 /11 /novembre /2014 17:54

Tutti portiamo dentro di noi tracce fossili: sono i segni lasciati da chi non c'è più e da chi abbiamo perduto. La scritta a mano su una busta; i punti consumati su una scala di legno; il ricordo di un gesto familiare che faceva chi ci ha lasciato, ripetuto così spesso da aver scavato un solco nell'aria e nella mente: anche queste sono tracce fossili. A volte tutto quel che resta di una perdita è una traccia. E a volte può essere più facile serbare in cuore uno spazio vuoto che non la presenza stessa.

Da Robert McFarlane, Underland. Un viaggio nel tempo profondo (titolo originale: Underland, nella traduzione di Duccio Sacchi), Einaudi (Supercoralli), 2020

Una pagina di diario paradossale che comincia con una negazione subito dopo negata

Il passato è sempre stato importante per me, ma questo è ovvio; in fondo, per chi non lo è?
Ho sempre pensato che il modo di essere nel presente sia condizionato in qualche modo dalle esperienze passate - nel bene e nel male - e che quindi nasca e si sviluppi con continue nuove ramificazioni che si originano proprio dal passato.
Il presente è come un albero che cresce con nuove ramificazioni le cui radici profonde e altrettanto ramificate sono il nostro passato.
Tutto del nostro passato é prezioso, eventi buoni ed eventi "cattivi", perfino cose apparentemente inutili, ma che hanno avuto un loro effetto.
Ho coltivato il mio passato come una cosa preziosa, malgrado tutte le sue imperfezioni, i suoi fallimenti, le sue perfettibilità e l'ho coltivato, cercando sempre di ricordare e di raccontare per poter tramandare.
La mia vita - come traccia di un uomo - può essere importante: non voglio che sia buttata via come una paglliuzza nel vento, destinata a disperdersi nell'ampio cielo.
E, di conseguenza, mi sono dedicato alacremente a metter insieme frammenti di memorie passate e a farli rivivere nel presente, mettendo me stesso in prima fila nelle storie di cui io, al tempo stesso, volevo essere il contastorie.
Ma sento di aver fallito... Questo compito di lavorare sulla memoria, che mi sono dato e che mi ha impegnato per anni, non ha portato a nulla di significativo.
Ho l'impressione che quelle che dico e scrivo siano parole buttate via nel vento.
Sono sfiduciato, anche perchè ho l'impressione non tanto che il passato non si sbiadisca  (le memorie più antiche raramente si cancellano o si perdono), ma che piuttosto vada perdendo di  importanza.
Come se non me ne importasse più di tanto.
Non c'è più un passato mitico da ricordare.
Mi sembra che qualsiasi ricordo sia fatto di cose banali ed insignifcanti che, possibilmente, non interesseranno nessuuno e nemmeno a me stesso.
E mi sento perduto nel bel mezzo d'un inverno gelido, uomo senza memorie, perchè fondamentalmente uomo senza qualità.

Cammino per strade che mi sono estranee
Penso che se cadessi o se morissi all'improvviso, in mezzo alla via, nessuno potrebbe essere avvertito.
Fantastico che, in tal caso, rimarrei a lungo uno sconosciuto alla morgue e che nessuno verrebbe a reclamarmi.
Ma so che, in realtà, questo non è vero.
E' soltanto una mia fantasia distruttiva all'opera.
Nessuno può vivere senza lasciare tracce e senza avere su di sé indizi ed elementi che consentano di attivare percorsi di ricerca e d'identificazione.
Una pagina di diario paradossale che comincia con una negazione subito dopo negataChi sono? Da dove vengo? Dove vado?
Certo è che se ne ho appena l'occasione, anche tenue ed irrisoria, e mi ritrovo a rievocare il passato, c'è un passato lontano che riemerge e che mi conduce ai miei genitori che, ciascuno in modo diverso mi hanno plasmato.
Il senso del dovere e della disciplina.
La costanza del sacrificio quando questo sia necessario.
O perfino saper vivere nel sacrificio e nella rinunzia.
E, paradossalmente, la gioia di vivere, la curiosità verso l'ignoto, il desiderio di andare a vedere ciò che sta al di là dell'orizzonte e qualche volta la trasgressione.
La possibilità di trovare la gioia ed un momento radioso anche nei giorni più cupi.
L'amore - se non la passione - per la cultura.
L'amore e l'odio.
Non puoi veramente amare - retrospettivamente - i tuoi genitori, se non li hai anche odiati, per averti messo al mondo, per averti plasmato, per averti costretto a vivere a lungo nella loro ombra.
E quest'odio, perchè tu possa amarli liberamente (anche nel ricordo, quando non ci sono più) deve poter fluire liberamente, diventando parte dei tuoi pensieri consapevoli.
Ho sognato poche notti fa che ero in una grande casa nuova, appena finita e ancora senza mobili, caratterizzata da grandi spazi funzionali.
Ed io ero lì che mi ci aggiravo, un po' sorpreso, un po' meravigliato, ma con il piglio di chi si sente a proprio agio in un posto tutto suo.
E cominciavo a pensare di mettermi a riorganizzare gli spazi.
Centrale nella pianta della dimora era una grande e luminosa cucina, unico ambiente già arredato con pensili e ripiani funzionali, tutto di un bianco candido all'infuori dei piani di lavoro di granito grigio ben levigato e lucido e dei punti di cotturo di acciaio scintillante.
A titolo di esplorazione aprivo alcuni dei pensili e sbirciavo all'interno: e c'erano pile e pile di panini imbottiti avvolti nella pellicola trasparente che offriva una veduta del loro contenuto, e poi innumerevoli confezioni di frutta sottovuoto in speciali contenitori di plastica.
Si apriva la porta ed entrava mia madre.
Come se il tempo non fosse passato, mi appariva come era quando era  ancora nel pieno delle sue forze e straordinariamente attiva, come se avesse dentro di sé l'energia di quattro diverse persone.
Se penso ai miei sonni, alle mie cadute improvvise in un incoercibile stato letargico, non posso non chedermi come facesse lei che era sempre attiva e che contemporaneamente seguiva con rigore il richiamo del dovere senza tuttavia perdere quello del proprio piacere personale, poichè coltivava la buona letteratura, il piacere per il teatro, la musica, il cinema e molto altro.
Qualche volta quando era sconfortata e stanca, soprattutto negli ultimi anni, invocava: "Mamma! Voglio la mia mamma!"

E quando ero piccolo, ma anche più avanti negli anni dell'adolescenza, non c'era giorno che non mi desse la buonanotte tracciandomi con un dito il segno della croce sulla fronte.

E mi sono svegliato con la persistenza di questa traccia, radiosa e confortante.

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20 novembre 2014 4 20 /11 /novembre /2014 09:13

Quei giocattoli a molla della mia infanzia(Maurizio Crispi) Sono abbastanza vecchio per avere avuto tra i miei primi giocattoli di bambino qualcuno di quei giochini di latta a molla che stavano per completare il loro lungo arco di vita prima dell'avvento della plastica e di giochi con meccanismi elettrici a batteria, per non parlare di quelli telecomandati  ancora successivi.

Affascinanti nella loro semplicità. 

Si trattava di dispositivi, derivati dai semplici giocattoli di latta tridimensionali, dipinti a vivaci colori a smalto, che, sagomati nelle maniere più diverse, riproducevano automobili, trenini, carretti o perfino animali. Una delle marche italiane più famose nella produzione di questi giocattoli era quello della ditta Ventura.

Erano tridimensionali, fatti di lamierino di latta, opportunamente sagomata, di solito due meta simmetriche tenute unite da linguine dello stesos materiale ripiegate negli appositi alloggiamenti, tutti dipinti a vivaci colori e il disegno sopperiva alla mancanza di tridimensionalità: le auto il più delle volte erano soltanto dei gusci e tutti gli altri dettagli erano dipinti, compresi eventualmente dei passeggeri. 

All'interno, era alloggiato un dispositivo a molla, ricaricabile per mezzo di una chiavina metallica che, il più delle volte era cromata, qualche volta estraibile, altre volte no.

Il meccanismo a molla che si rilasciava non appena si arrivava a fine corsa della chiavina realizzava una parvenza di movimento: la progressione in avanti delle automobiline o, nel caso degli animali, una rozza similitudine di trotto -ma più che altro degli scalciamenti disordinati -, sempre accompagnati dallo stridore della spirale compressa che, rilasciando di colpo l'energia accumulata, la trasmetteva a un'insieme di sempici ingranaggi. 

Quei giocattoli a molla della mia infanziaI dispositivi erano, come ho detto, tridimensionali, di dimensioni diverse, non eccessivamente miniaturizzati, ma nemmeno troppo grandi e, data la natura del materiale di cui erano fatti, molto leggeri.

La leggerezza era il loro prerequisito essenziale per ottenere la parvenza di movimento ottenuto dal meccanismo a molla:  un movimento che durava soltanto pochi istanti, ma tanto bastava per suscitare meraviglia.

Ne ebbi diversi, tra i quali un bellissimo asinello tutto rivestito di stoffa grigia simil-vellutata che quando era caricato cominciava a scalciare ronzando.

Una delizia! E mi piaceva moltissimo, ma ce n'erano altri il cui ricordo é sbiadito nella memoria, tra di essi forse anche una piccola moto con sidecar.

Tutti, all'infuori dell'asinello, fecero una brutta fine, perchè dopo aver giocato con loro per qualche giorno volevo andare a vedere il loro interno.

Cosa peraltro molto semplice, anche se a me, piccolino, sembrava un'impresa ingegnosa e sovrumana, arguta.

Bastava scalzare quelle semplici linguette metallica e, plop!, il guscio si apriva nelle sue due metà. 

A quel punto, era sufficiente scalzare dal suo alloggiamento la scatoletta con il meccanismo a molla.

Naturalmente questa era una strada senza ritorno, poiché non ero in grado di ripercorrere la strada inversa e di riportare il giocattolo alla sua condizione precedente.

Ma a lungo continuavo a giocare con quei meccanismi a molla caricandoli e poi facendoli scaricare a vuoto.

I meccanismi erano tutti eguali, costruiti nello stesso identico modo.

L'individualità del giocattolo era nel guscio: le loro "anime" erano identiche, invece, se si può parlare di anima.

Perchè lo facevo? Sin da piccoli siamo programmati per scoprire cosa c'è dietro le apparenze, credo.

C'è il desiderio di andare ad esplorare il ripostiglio di casa.

O di aprire cassetti ed armadi e rovistare il loro contenuto.

O di entrare nelle stanze buie.

O di andare a vedere cosa c'è sotto il letto, di notte, quando le ombre si fanno dense.
Ma anche il semplice piacere di smontare le cose per vedere come sono fatte dentro.
O anche,in alcunicasi un semplice spirito distruttivo e/o trasgressivo, come è rilevato magistralmente da Paul Auster in suo recente libro di memorie della sua prima infanzia, in cui racconta di aver smontato una bellissima radio a valvole dei genitori con la presunzione che poi avrebbe potuto rimontarla pezzo pezzoper renderla di nuovo funzionante.

"...quando avevi circa cinque anni, smontasti pezzo dopo pezzo la radio della tua famiglia, un voluminoso apparecchio degli anni Quaranta pieno di tubi di vetro e migliaia di cavi, pensando in un primo momento che saresti riuscito a rimetterla assieme, e illudendoti consapevolmente ce quell'eesercizio di vandalismo fosse un esperimento scientifico, ma via via che continuavi ad estrarre le viscere dell'apparecchio, divenne subito chiaro che ricostruirlo andava oltre la tua abilità discienziato, eppure continuasti,procedendo alla rimozione maniacale di ogni singolo cavoo bullone alloggiato nell'apparecchio, per la semplice ragione che sapevi bene di non doverlo fare e che un comportamento del genere era asoslutamente vietato" (Paul Auster, Notizie dall'Interno, Einaudi, 2014, pp.46-47)

giocattoli a molla di plasticaE, una volta, mio figlio Francesco (ma già più grande di Paul Auster al tempo dell'episodio citato), ispirato dal desiderio di diventare meccanico, prese a smontare la bici che gli avevo regalato alcuni mesi prima, pezzo dopo pezzo sino a smontare persino i delicati ingranaggi del cambio, senza riuscire dopo a rimettere tutto a posto

 

Mi sono ricordato tutto questo a partire da un giocattolino a molla (un cagnolino verde vomitoso) che l'altro giorno, preso da un'improvvisa nostalgia per questo tipo di giocattoli, ho voluto regalare a Gabriel.La concezione è identica a quella dei giocattolini di latta, ma questo è interamente fatto di plastica, ad eccezione probabilmente del meccanismo interno.

 

Non chiedetemi però se mi viene voglia di smontare il cagnolino per andare a vedere com'è fatto il suo cuore meccanico!

Il presente articolo è stato pubblicato in forma ridotta sulla mia pagina Facebook, il 24 agosto 2014.

 

Per chi volesse approfondire c'è un blog interamente dedicato ai giocattoli di latta (seguite il link)

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14 novembre 2014 5 14 /11 /novembre /2014 09:16

I panini imbottiti della mia infanzia e il mio essere «facitor» di panini per Maureen

 

(Maurizio Crispi) Quando - già grande - partivo per i miei frequenti viaggi (fossero legati ai miei studi o al mio pacere), la mamma mi preparava sempre dei panini imbottiti per la prima notte di avventura: già, perchè parlo di quando i viaggi si facevano ancora quasi esclusivamente per treno o per nave!

Era una costante: non avrei potuto mai immaginare di iniziare un viaggio senza quei panini.

A volte - oltre ad uno o due panini - c'erano anche un dolcetto e un frutto, qualche volta dei biscotti

E non vedevo l'ora di potermi sedere comodamente sulla poltrona del treno o nel salone bar della nave e consumarli (assaporando anche il piacere della sorpresa, ovviamente, nel vedere con che farcitura li aveva preparati).
Quando ero più grande portavo con me una fiaschetta piena di rhum e con la Coca Cola acquistata appositamente, allestivo un rudimentale Cuba Libre, con il quale accompagnavo il mio pasto.

E quei panini avevano importanza e valore non tanto per il risparmio d'un pasto consumato nel self-service della nave, quanto piuttosto per il sapore particolare di quel cibo preparato a casa che rappresentava, nello stesso tempo, un viatico per il viaggio che iniziava ed un legame con il focolare domestico che si allontanava. 

Ma c'era anche il fatto che quei panini costituivano un ponte fortissimo per rievocare gite ed altre situazioni familiari in cui si consumavano altri panini, esattamente con quei sapori.
Per non parlare delle merende di scuola: vorrei citarne due "classici", come il panino con dentro la cotognata, oppure quello infarcito di pezzetti di cioccolata fondente. Ma ricordo anche anche dei piccoli panini (i bocconcini semprefreschi) con lo stracchino e il prosciutto.
Nell'infanzia, poi, c'erano per le gite familiari con le famose e celebrate "colazioni al sacco", in cui primeggiavano i panini con la frittata semplice od anche con quella fatta con la pasta fritta (ancora più buoni): questi ultimi conferivano alla gita un inconfondibile profumo!

E tutti i panini dei miei ricordi erano magici, in qualche misura! Lo erano allora e lo sono ancora oggi, se soltanto chiudo gli occhi e li assaporo, soffermandomi ad annusarne l'aroma!

 

Ancora adesso, penso alla mamma che trovava il tempo, tra le molteplici incombenze e le cose che aveva da fare, per prepararmi quegli squisiti panini con il buon sapore di casa (che ritrovavo specialmente in quello con la frittata, letteralmente sublime)

Ecco, sono delle cose che ti porti dentro e che condizionano i tuoi successivi comportamenti.

Quando Franci era piccolo e dormiva da me nei fine settimana che avevamo da passare assieme, usavo preparargli come merenda per la scuola un panino imbottito (il pane lo andavo a prendere caldo caldo al forno) con un ripieno di stracchino e prosciutto cotto, proprio come alcuni di quelli che preparava la mamma per me quando era il tempo di andare a scuola.

 

E adesso mi occupo io di preparare ogni mattina un panino imbottito per il desk lunch di mia moglie Maureen. Ogni volta questo panino deve essere una piccola sorpresa per lei, cioè deve avere le qualità per essere un "yummy" sandwich.

Solitamente, aggiungo all'incarto con il panino, anche un piccolo contenitore tipo tupperware pieno di dolciumi ogni volta diversi, in modo che ogni giorno l'intero pasto possa essere una piccola sorpresa.

Qualche volta le ho preparato perfino il mitico panino con la frittata!
Nel corso del tempo la preparazione del panino si complessizzata: il panino si è moltiplicato, a volte c'è un secondo paninno, a volte una piadina imbottita, a volte una sorta di "roll"; a volte aggiungo anche un contenitore ermetico con della frutta mista tagliata a pezzettoni.
Le varianti sono molteplici e non starò a descriverle, ma anche se la base sono i formaggi e gli affettati, non mancano altri ingredienti quali l'uovo sodo, il pollo, il tonno, delle olive disossate, pomodori e lattuga, verdure cotte. E naturalmente vari ingredienti, in combinazione varia, da spalmare per arrichire il sapore e il gusto.
Spesso per la farcitura utilizzo ciò che rimane dal pasto del giorno precedente.
La sfida è quella di creare ogni giorno dei sapori leggermente diversi, pur rispettando una "cifra" stilistica familiare.
Ma in più ci sono anche varie sorprese "dolci": biscotti, cioccolata in tutte le foggie (é golosa di cioccolata), e - come ho detto prima - la frutta tagliata a pezzi: tutto deve essere in qualche misura una sorpresa e, quindi, ogni singolo item è avvolto nello scottex, in modo da impedirne un'immediata identificazione.
E tutto questo preparare, giorno dopo giorno, é un autentico piacere.

 

Tutto ritorna, invariabilmente.

Ed è sorprendente come ciò che stato impresso nella nostra mente (e nei nostri ricordi) dai nostri genitori continui a comparire nel presente.
Quel che è certo è che se abbiamo avuto la fortuna di ricevere dei doni, poi siamo capaci di diventare a nostra volta dei "donatori".
E nel mio caso il mio essere donatore è la condizione di un felice "facitor" di panini.
Ma nel preparare i panini, faccio anche rivivere dentro di me la gioia di aprire il sacco della colazione o della merenda e di ritrovare quegli odori e quei sapori: e, in sostanza, di essere ancora una volta io il destinatario di quelle attenzioni.
Io fondo - e anche questa é una profonda verità che non tradisce il precedente assioma - quando facciamo quancosa per gli altri con slancio ed altruismo, quando doniamo qualcosa senza aspettarci qualcosa in contraccambio, stiamo facendo un'azione che è anche, in qualche misura egoistica, perchè ciò facciamo per gli altri, lo stiamo facendo per noi.

 

 

DSCF8877.JPG

 

 

Ed ecco un sito web i cui frequentatori si sono impegnati in una simpatica gara creativa "sfida all'ultimo panino" (Devo la segnalzione alla mia cara amica, nonché comare, Anita, aka Nonna Nica)


Il presente pezzo è stato già pubblicato in forma abbreviata nel mio profilo Facebook con il titolo: I panini imbottiti della mamma

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19 settembre 2014 5 19 /09 /settembre /2014 06:59

Le monete di cioccolato della mia infanzia

(Maurizio Crispi) Una delle cose che, della mia infanzia, ricordo più volentieri  sono i ciondoli di cioccolato rivestiti di carta stagnola colorata con cui si decorava l'albero di Natale e le monete di cioccolato, anche loro rivestite di carta stagnola, dorata o argentata.
Queste ultime erano contenute sovente in un piccolo retino colorato che le faceva diventare una vera e propria "borsa di denari".

Le dimensioni erano diverse e riproducevano in scala (ma sempre in eccesso) le monete in circolazione di quel tempo.
Solitamente, il cioccolato all'interno dell'involucro era al latte.
La carta stagnola (e così pure il cioccolato) portava in rilievo scritte e diciture delle singole monete che venivano riprodotte. Erano in tutto e per tutto una riproduzione fedele, non c'è che dire.
Non era bello solo mangiare il cioccolato, ma era bella l'idea in sé di poter aver un oggetto da consumare che tuttavia dava a noi bambini la possibilità di giocare con oggetti propri del mondo degli adulti, come erano anche (forse oggi scomparse) le sigarette di cioccolata.
Le monete di cioccolato della mia infanziaEd infatti, uno delle cose che cercavamo di fare era di aprire l'involucro di carta stagnola senza romperlo, in modo tale che avremmo potuto rimettere assieme le due metà di cui era costituito, avendo qualcosa con cui giocare con l'illusione di essere "ricchi" di belle monete d'oro e d'argento!

 

Mentre non si vedono più gli omini e i ciondoli di stagnola e cioccolato per la decorazione dell'albero di Natale, stranamente le monete di cioccolato sono sopravissute agli assalti del tempo: ma nel tempo si vanno adeguando ai cambiamenti delle monete in circolazione. I Italia e in altri paesi dell'UE riproducano l'Euro (e centesimi), mentre in UK riproducono ovviamente le monete in circolazione.

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25 luglio 2014 5 25 /07 /luglio /2014 19:43

E' arrivato il Mastro Gelataio! (che mi riconduce ad un ricordo d'infanzia)

(Maurizio Crispi) Preceduto dalle sue musichette accattivanti in una tarda mattinata di un luglio assolato, nel prato del King Edward Memorial Park, che assume sempre di più in questi giorni una fisionomia balneare, affollato come è di bimbi e mamme, di donne giovani e meno giovani che prendono la tintarella, di adolescenti che giocano a palla e di altri frequentatori adulti che, in mancanza di una spiaggia raggiungibile, fanno come se fossero al mare, è arrivato il "Mastro Gelataio" con il suo furgoncino colorato, i cartelli che mostrano le diverse varietà di gelato disponibili.
Un furgoncino con speciale licenza, poichè il traffco automobilistico non è consentito all'interno del piccolo parco, anche se il suo interno è potenzialmente accessibile tramite una porta carraia sempre aperta durante le ore del giorno, soprattutto per i mezzi di servizio, auto della polizia e quant'altro.
Subito, risvegliati dall'inconfondibile jingle dal loro torpore estivo molti si sono dati una smosa e hanno cominciato a sciamare verso il furgoncino che prometteva leccornie fresche e dissetante. I bambini hanno cominciato a rincorrerlo, e gli adulti dietro di loro a passo più lento, anche se non trascicato: anche loro - in modo più compassato - entusiasti della lieta parentesi. Perfino, dall'estremità più lontana, vicino all'argine perfino dei addetti alla manutenzione con i loro giubbino giallo che connota la loro condizione di labourer si sono sono avvicinati.
Tutti si sono accalcati davanti alla finestrella dalla quale si è affacciato il Maestro Gelataio, pronto a raccogliere gli ordini.
E' arrivato il Mastro Gelataio! (che mi riconduce ad un ricordo d'infanzia)La folla si è infittita e, a poco a poco, ciascuno ha fatto ritorno alla sua postazione di partenza con la sua fresca preda...
Una scena che mi ha ricordato di quando da piccolo andavamo con la mamma a Mondello, alla nostra capanna in condominio. C'erano a quei tempi i venditori ambulanti che facevano avanti e indietro lungo la spiaggia, vendendo le mercanzie più diverse, da quelle gastronomiche ai giochi da spiaggia.
Alcuni giovanili e prestanti, altri alquanto invecchiati quasi secolari che davano l'idea di essere invecchiati facendo questo lavoro.
In calzoncini corti blu e con una maglietta bianca, spesso a piedi scalzi nella sabbia arroventata dal sole, a volte con un grande cappellaccio di paglia in testa per ripararsi dalla canicola, ma ciò nonostante con pelle che sembrava del colore del cuoio invecchiato, ciascuno gridava la sua mercanzia, in un rincorrersi di voci roche e cantilenanti che dicevano per esempio.
"Cocco, cocco bello agghiacciato"...
"Calia, semenza, nocciolì..."
"Sfincione... arancine,,, ciambelle"
"Pollanche, pollanche..."
"Ghiaccioli ghiacciati, ghiaccioli ghiacciati, ghiaccioli ghiaccioli".
Tutte cantilene che, a scriverle, perdono in gran parte il loro fascino, ognuna con una particolare cadenza che, per come lo ricordo io, serviva a loro come metronomo per scandire la loro andatura e tenerla costante nella sabbia rovente,ma morbida e cedevole.
Di rado infatti camminavano sul bagnasciuga, poichè gli acquirenti potenziali erano quelli che stavano vicino alle cabine e sotto gli ombrelloni.
E' arrivato il Mastro Gelataio! (che mi riconduce ad un ricordo d'infanzia)E poi c'erano quelli che vendevano giochi, come le famose biglie di plastiche per giocare con la pista a "il Giro d'Italia" o i palloni santos destinati a fare una fine precoce, occhiali da sole da poco prezzo, oli abbronzanti e così via.
Le cose da mangiare stavano all'interno di grandi cesti di vimini con coperchio nel caso dei pezzi di rosticceria, le pollanche in cesti rotondi più piccoli e il contenuto tenuto caldo da cenci colorati a mo' di coperchio. il cocco veniva portato, sospeso in alto sul bracio proteso, invece, in una grande ciotola di vetro ed era effettivamente ricoperto di ghiaccio, per tenerlo fresco.
Ad ogni giro di spiaggia (un chilometro e mezzo ad andare ed altrettanto per tornare), evidentemente si rifornivano con della merce fresca. Più veloce era il loro giro di giostra, più avevano l'opportunità di vendere e di rimpolpare i loro sudati guadagni. Questi venditori, per quanto anziani fossero, me li ricordo tutti segaligni, con le gambe nervose e asciutte: in fondo erano dei maratoneti ante litteram, poichè a fine giornata sicuramente avevano percorso almeno un trentina di chilometri, a giudicare da tutte le volte che li vedevo passare.
Di norma, la mamma non ci comprava mai niente. perché ci portava la merenda da casa, di norma pane e uva, oppure dell'altra frutta fresca estiva. Quando era in vena, di generosità e soprattutto disposta ad uscire dalle regole, ci poteva toccare un ghiacciolo "ghiacciato".
Ma io avevo sempre il desiderio di quelle cose.
Forse è per questo che, diventato più grande una volta mi comprai - una di fila all'altre - tre ciambelle fritte che mangia tutte sino all'ultima briciola.
E poi, naturalmente mi "abbunnò u stomaco"...
Cose d'altri tempi...
Oggi, di venditori ambulanti disposti a fare questo durissimo lavoro, ci sono sulla spiaggia soltanto i "vucumprà" e, adesso, anche signore asiatiche che offrono massaggi orientali, come capita sovente di vedere nelle spiaggie esotiche.
Quei venditori che ricordo io davano colore e atmosfera alla spiaggia.
Chi voleva un gelato "vero", se voleva, poteva farsi una camminata non troppo lunga e andare al "baretto" a mangiare uno dei gelati più buoni di Palermo, che poi venne scalzato da quello prodotto da altri maestri gelatai di nuova generazione.

 

 

 


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9 giugno 2014 1 09 /06 /giugno /2014 08:05

Un ricordo di mio padre trasportatore di mio fratello Salvatore(Maurizio Crispi) L'altro giorno, ho trovato dei bicchieri da birra lasciati vicino ad una panchina: rispettando la mia piccola consuetudine, li ho raccattati e li ho portati via con me.

Per tutto il tratto di strada dalla panchina a casa, ho camminato con cautela.

Tenere degli oggetti di vetro in mano, mentre si cammina o si corre, è pericoloso.

Se si inciampa e si cade, il vetro nell'impatto - è matematico - si romperà e ti taglierà la mano. 

A me è capitato, quando ero piccolo: quindi la prudenza non è mai troppa.

E, mentre camminavo assai preoccupato di poter cadere e farmi male, mi sono ricordato appunto che, una volta, - andando a casa dei nonni Crispi (che hanno sempre abitato in una grande casa popolare in Via Noce di Palermo, ad un terzo piano e senza ascensore) -, inciampai miserevolmente in un gradino, mentre portavo delle bottiglie di vino - o qualcosa in vetro - e che mi tagliai la mano - per quanto in modo non grave.

Ma perchè, proprio a me che ero allora un bimbetto di meno di dieci anni era stato affidato questo compito delicato? E, tra l'altro, si badi che i tre piani dei nonni, visto che l'edificio era di costruzione tardo ottocentesca, equivalano a salire per tutta l'altezza di una grande chiesa con ben tre rampe di scale per ogni piano.

In un percorso associativo, mi sono ricordato che, quando andavamo a pranzare dai nonni (alcune domeniche e in certe festività), papà prendeva sulla spalle mio fratello, già piuttosto robusto, e lo trasportava su per le scale per tutti e tre i piani, senza mai fermarsi per rifiatare.

Mio padre era un un uomo forte, di costituzione muscolosa e a quel tempo aveva recuperato i patimenti subiti al tempo della prigionia.

Trasportare mio fratello in queste circostanze era cosa sua: era assunzione di responsabilità, era accettazione di un fardello amato, era - forse - espiazione, era ascesa ad un monte sacro della mente e, nello stesso tempo, il percorso che conduceva al Golgota, al suo personale Golgota.

Non so: non ebbi mai il tempo e l'occasione di parlare con lui di queste cose in anni successivi.

Ma - sia come sia - vederlo inerpicarsi per quelle scale con mio fratello sulle spalle era  una scena con un carattere quasi sacrale e, nello stesso tempo, mitico.
Un carattere che io ruppi - senza volerlo, ma cionondimeno suscitando le ire di mio padre - quando giocherellando con una pallina, proprio mentre lui era intento in questa funzione, glieli feci rimbalzare sulla testa e, per aggravare le cose, mi misi pure a ridere.

Malgrado questo piccolo incidente di percorso, io lo guardavo sempre profondamente ammirato e, nello stesso tempo, intimidito dall'esibizione di tanta forza: e avrei voluto essere come lui, bruciando le tappe.

Era come vedere Enea che salva l'anziano padre Anchise dall'incendio di Troia, caricandoselo sulle spalle; era come osservare San Cristoforo che, omaccione barbuto e possente, trasporta Gesù bambino da un lato all'altro d'un fiume in tumulto e dalle acque profonde, era un traghetattore buono, era - per dirla in una parola - il trasportatore di mio fratello. Capivo bene che, in caso di bisogno, lui avrebbe trasportato anche me in quel modo.

Allora, da piccolo, non potevo fare queste associazioni, ma amavo mio padre per tutto ciò che era contenuto implicitamente nel suo gesto.

Per questo motivo, quando ci muovevamo per andare in qalche luogo dove vi fossero barriere architettoniche, a me e alla mamma spettava portare tutte ciò di cui v'era bisogno e fu così che quella famosa volta a me toccò il compito di portare le bottiglie di vino.

E caddi.

Io, con quel misero peso tra le mani, inciampai e caddi, mentre mio padre con il fardello di mio fratello sulle spalle non cadeva mai, non aveva mai un momento di cedimento.

Fu così che imparai a prendermi cura di mio fratello, desiderando emulare ciò che faceva mio padre per lui e che anche la mamma faceva in assenza di papà, in un'equanime distribuzione dei compiti (anche se il trasporto su per i tre piani dei nonni rimase compito esclusivo di papà).

Quando fui cresciuto ancora un poco e fui abbastanza forte, cominciai a partecipare ad alcune delle cure necessarie per mio fratello, partendo dalle cose più semplici, come metterlo in auto (e viceversa) e spostarlo dal letto alla carrozzina.

Nel frattempo, però eravamo andati ad abitare in una casa fornita di ascensore e così, salvo rare occasioni, le "acchianate" e le "scinnute" a forza di braccia non furono più necessarie.

Mio padre mi ha trasmesso l'idea dell'importanza della forza, non solo fisica, ma anche morale, come di una delle qualità necessarie per vivere bene e facendo le cose giuste.

Idea che, in maniera imperfetta e commettendo degli errori, io ho in qualche modo cercato di applicare nel corso della mia vita, pur continuando ad inciampare come quel bambino goffo a cui era stato chiesto di trasportare delle bottiglie.

L'immagine che ho conservato di mio padre, invece, è quella di un uomo che non inciampava mai anche se era oberato dai pesi più grandi.

Non era esattamente così, anche lui aveva i suoi difetti: ma questa è un'altra storia.

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14 marzo 2014 5 14 /03 /marzo /2014 16:08

La-bilancia-di-Nonna-Giuseppa.jpgGli oggeti, anche quelli più banali, sono veicolo del ricordo.
A volte, essi incarnano un evento, un'emozione sperimentata, un personaggio importante della nostra vita e, in questo senso,, rappresentano un ponte tra il presente e il passato.

In fondo, nel nostro quotidiano, siamo come quei sensitivi che per mettersi in contatto con una persona scomparsa o per "localizzarla" hanno bisogno di stringere tra le mani un oggetto appartenuto a quella persona.
Per questo motivo, gli oggetti che ci circondano non sono quasi mai banali. O megli alcuni non lo sono, altri possono diventarlo perchè ad essi si connette casualmente qualche evento emozionale intenso, alri - soprattutto quelli (anche di scarso valore materiale) appartenuti ai nostri cari estinti possiedono questa qualità all'ennesima potenza.
E gli esempi, sotto questo profilo, sono innumerevoli e ciascuno di noi, guardandosi attorno, potrebbe trovare tra le sue cose, qualche oggetto che ha una storia da raccontare o che attiva delle emozioni.

 
(Elena Cifali) E’ sabato pomeriggio.

Ho appena finito di rassettare la cucina, quando mi ricordo che le mele nel portafrutta dovrebbero essere consumate.

OK! Preparerò una torta di mele” dico a voce alta, quasi rivolgendomi allo speaker che intanto annuncia la prossima canzone alla radio.

Tutti gli ingredienti sono sul tavolo quando mi rendo conto che la bilancia elettronica ha smesso di funzionare a causa dell’esaurimento delle batterie.

Uffa! Adesso che faccio?

Come faccio a pesare esattamente le quantità di farina, zucchero e burro che mi serviranno ?

Quasi scoraggiata inizio a pensare di riporre tutto nella dispensa, quando con la coda dell’occhio noto la vecchia bilancia di nonna.

 

Lo scorso anno, quando nonna non era già più in grado di camminare speditamente e scelse, per questo, di trasferirsi definitivamente a Siracusa, la mia famiglia decise di vendere la casa in cui lei abitava a Gela.

Io e mia mamma ci occupammo di svuotare la casa dalle centinaia di oggetti che nonna custodiva con cura maniacale.

Molti degli oggetti li portai a casa mia, convinta che in qualche modo prima o poi mi sarebbero tornati utili. Molti altri li portai con me per un semplice legame affettivo.

 

La vecchia bilancia è uno di questi oggetti.

Prima di questo circostanza non l’avevo mai usata.

Riposta su di una mensola in cucina ha sempre fatto bella mostra di se, silenziosamente, quasi sapesse che prima o poi sarebbe servita a qualcosa.

E dunque l'ho presa con cura, l'ho tarata alla perfezione, grazie al suo sistema di molle, di pesi e di contrappesi e ho iniziato a pesare i miei ingredienti.

Peso il burro, la farina e lo zucchero e, nel frattempo, penso.

Come spesso mi accade torno bambina, agli anni in cui vivevo con i nonni.

Sento le loro voci.
Le loro parole gentili, vedo i loro gesti affettuosi.
Sento il profumo delle prelibatezze che nonna preparava.
Navigo nella dolcezza di quei ricordi, facendo riemergere sentimenti nuovi e travolgenti.

Lo scorso novembre, durante una brutta notte di pioggia, nonna decise che era arrivato il momento di lasciarci.
Sono passati alcuni mesi ma il dolore per la sua perdita è sempre più forte dentro me e non accenna ad affievolirsi.

Seppure nonna, in qualche maniera, trovi sempre il modo di manifestarsi, di starmi vicina, soprattutto durante i momenti di difficoltà che mi aiuta a superare.

Ogni giorno trascorro lunghi momenti in compagnia del ricordo dei nonni, soprattutto durante la corsa, quando cerco la concentrazione attraverso la rimemorazione di episodi a loro legati.

 

Ho pesato il burro, la farina e lo zucchero, e non solo.

Ho pesato i miei ricordi di bambina, ho pesato tutti quei momenti che ho trascorso con loro e che mi hanno aiutata a crescere e a diventare la donna che oggi sono.

Ho pesato il fardello di rimorsi e di rammarico per non essere riuscita ad essere perfetta nei loro confronti.

Io, nonna e la sua bilancia abbiamo preparato una torta delicatissima e squisita.
E non poteva essere che così.

 

Nonna mi ha insegnato tanto, primo fra tutti mi ha insegnato il senso del dovere e del sacrificio.
Mi ha insegnato a lottare per ciò in cui credo e mi ha insegnato a non cedere difronte alle avversità.

Oggi, davanti ad una bilancia elettronica scarica, è tornata a ricordarmi che nella vita c’è sempre un’alternativa.


 

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12 febbraio 2014 3 12 /02 /febbraio /2014 18:49

Prima di agire, conta e pensa...(Maurizio Crispi) Mio padre mi diceva sempre: "Quando ti viene l'impulso di fare qualcosa (qualcosa che potrebbe essere avventato) ... oppure se ti senti salire il sangue agli occhi, prima di agire, conta almeno sino a 10 e, intanto, pensa...".

 

Quando ero piccolo - come sempre capita in queste circostanze - non gli diedi molto ascolto e nemmeno dedicai alle sue parole la dovuta attenzione.
Eppure, successivamente, sono rimerse in varie circostanze.

E mio padre aveva ragione perchè - con tutte le sue doti, con la sua grandissima levatura culturale - era un impulsivo "tremendo" (e questa sua impulsività in un paio di circostanze in cui avevo fatto qualcosa di sbagliato l'ho sperimentata su me stesso) che, però, nel corso di tutta la sua vita da intellettuale (ma anche da uomo di azione), si era addestrato a riflettere e ad elaborare velocemente le situazioni che si presentavano per poter rispondere al meglio ed ottenere dei risultati e raggiungere i suoi obiettivi.
A tutti appariva per questo motivo un uomo pacato, ma dentro di sé era sicuramente tumultuoso e passionale.

E' un fatto davvero straordinario come noi, partendo da piccoli eventi o da interazioni quotidiane (in questo caso, l'evento trigger è stato l'aver letto un aggiornamento di status su FB, scritto da un mio contatto) per ricordarci di piccoli pezzi della nostra formazione e della relazione con i nostri genitori (e con i nostri educatori, almeno di quelli che, per noi, ebbero una qualche rilevanza): cose che sono sedimentate e che continuano ad agire dentro di noi, anche se il collegamento si è perso.
Ma, per fortuna, ogni tanto riemerge...

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8 gennaio 2014 3 08 /01 /gennaio /2014 07:38

Abbiamo avuto un'infanzia felice? Sì, penso di sì...Nel cassetto del comodino di mio padre, dove ho guardato oggi - forse per la prima volta - da quando se ne è andato nel lontano 1972,  ho trovato una busta contenente delle foto di noi piccoli. 

Erano le foto che teneva sempre con sé, evidentemente (alcune altre erano nel suo portafoglio, quello che aveva sempre con sè, perchè lo usava per portarci la patente di guida).

Questo ritrovamento - inutile dirlo - mi ha commosso molto.

E le foto ritrovate - alcune mai viste prima - le ho guardate e riguardate a lungo: foto in bianco nero, di un formato minuscolo, oggi assolutamente impensabile, alcune virate in seppia e con i bordi frastagliati (altra usanza tramontata nelle stampe fotografiche di oggi realizzate per mezzo di sofisticati macchinari che operano in modo standeard, senza poter introdurre questi piccoli abbellimenti).

Mio fratello e me da soli in vari momenti.

Insieme.

Mio fratello con la mamma.

Io con la mamma.

Tutti e tre assieme, in un giardino.

Vicino alla Millecento FIAT nuova. 

Momenti diversi che rimandano a piccoli istanti felici, malgrado le difficoltà.

Mio fratello su un grande cavallo a dondolo che tenevamo a casa (ne ho soltanto un vago ricordo).

Mio fratello dentro un'automobilina a pedali.

Io imbronciato.

Io sorridente.

Mio fratello sorridente e sereno.

Io in bici a Villa Giulia (ma ancora con le rotelle) nel 1956.Io von un cravattinoa farfallo vestito per bene forse per la prima comunione. 

 

Poi, tra le altre cose (come la "bustina" della sua divisa da militare in uno stinto grigio-oliva, la fondina della sua pistola d'ordinanza ed una piccola pistola scacciacani che portava sempre cos sé nelle sue lunghe passeggiate in montagna)  de ho ritrovato un piccolo foglietto, dove mio padre aveva disegnato la mappa del tesoro...

Abbiamo avuto un'infanzia felice? Sì, penso di sì...Certi giorni stavamo a lungo all'Ospedale Enrico Albanese, dove mio fratello trascorreva parte della settimana perchè era inserito in un programma residenziale.Noi andavamo là e stavamo là: io andavo a giocare nel terreno circostanze che trovavo affascinante.

L'Ospizio Marino (così si chiamava allora questa struttura) era sul mare, costruita appositamente in un luogo soleggiato, poichè era stata inizailmente pensata come luogo di cura per il rachitismo (che all'inizio del XX secolo, ancora inperversava).

E, quindi, dal piano dove si trovavano i padiglioni, si poteva discendere al mare, seguendo delle misteriose scalette e attraversando una fitta boscaglia, sino ad arrivare al "solarium" una vecchia costruzione costruita proprio per esporre al sole i corpicini deformi dei bimbi rachitici.

Papà aveva trovato il modo di irregimentare attraverso il gioco la mia passione per l'esplorazione di questo spazio misterioso. E, in questo modo, mettteva a freno la mia impazienza.

E così mi aveva disegnato una mappa, piena di toponimi dai nomi accativanti, tipo "balcone dei Serpenti", "sentiero delle Tigri", "bosco degli Orsi", "passaggio dei Draghi", seguendo i cui percorsi - come nei migliori romanzi di avventure salgariani e stevensoniani - sarei arrivati infine al "tesoro".io andavo in esplorazioni, seguendo le istruzioni della "mappa" e poi tornavo da lui per irferirgli dei risultati delle mie esplorazioni.Lui si metteva nei panni del geografo ed io in quello dell'esploratore.

E del resto nel rapporto tra l'adulto che sa molte cose e il ragazzino che si affaccia alla vita e che ha tanto da imparare non dovrebbe essere sempre così? 

E, forse anche per questo  (ma senza averne consapevolezza alcuna), mi divertivo tantissimo. 

 

Penso che, malgrado tutto, io e mio fratello (anche mio fratello, malgrado la sua malattia) abbiamo avuto il dono impareggiabile di avere - grazie ai nostri genitori - un'infanzia felice nel suo complesso (anche se fatta, come tutte le cose della vita di piccole gioie soltanto e punteggiata di dolori e di piccole infelicità, com'è naturale che sia..

E a loro posso soltanto dire grazie per tutto quello che mi hanno insegnato e per il modo in cui me lo hanno insegnato. Credo proprio che, oltre a quelle che mi ha disegnato, mio padre sia riuscito a trasmettermi delle mappe e degli strumenti per navigare nella vita e che, soprattutto, mi abbia insegnato a non aver paura ad avventurarmi nelle esplorazioni di ciò che ancora non conosco. 

 

Maureen guardando le foto di Salvatore piccolo, mi ha detto: "Oggi, ha proprio lo stesso sorriso di allora"

 

 


La "mappa del tesoro" disegnata da mio padre

 

 

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Salvatore nell'automobilina a pedali; vicino allo stipite della finestre, per metà profilo, si intravede la nostra bambinaia di quel tempo chiamata in casa "Lilla"

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Io e Salvatore con la mamma.

 

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Salvatore piccolo

 

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Io, forse nel giorno della Prima Comunione

 

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10 dicembre 2013 2 10 /12 /dicembre /2013 17:59
Un casework semiserio: ...but seriously!, ispirato ai miei ricordi di lavoro e alle mie elucubrazioni, al tempo del Ser.T

Un casework semiserio: ...but seriously, ispirato ai miei ricordi di lavoro e alle mie elucubrazioni, al tempo del Ser.TMi ritrovo a spolverare dal mio archivio di scritti un documento mai pubblicato prima, poiché a quel tempo non esistevano ancora i blog e, quindi, non era così semplice una sponda su cui rendere visibili le proprie riflessioni.

Lo scritto risale al culmine della mia attività lavorativa, come dirigente responsabile di un Ser.T di Palermo, allora - come tuttora del resto - articolazione dell'Azienda sanitaria e va contestualizzato all'incirca attorno al 2003-2004.
Era stato un periodo di grandi speranze, quello immediatamente successivo alla creazione dei Ser.T, per effetto della cosiddetta legge "Lumia", ma presto anche di frustrazioni, perchè all'idealismo di pochi presto si affiancò la rapacità e l'ambizione sfrenata di molti.
Forse, in questo mio "casework", al culmine della mia amarezza, è proprio questo ciò che cercai di descrivere, sia pure in una forma trasformata e un po' da fiction.
Di conseguenza, nel leggere questo scritto, va tutto preso con beneficio d'inventario, tenedndosi sempre aderenti ad una chiave ironica e disincantata allo stesso tempo.

 

Il casework che segue vuole servire da stimolo a tutti quelli che intendono avviare una riflessione sul management nelle pubbliche organizzazioni.

L’esempio prescelto riguarda la Sanità, ma – ovviamente – potrebbe essere applicato a molte altre realtà.

Il caso discusso in ogni caso è puramente fittizio.

I personaggi presentati – più che altro dei caratteri - sono anch’essi di pura fantasia e, quindi, ogni riferimento a fatti e a persone reali è puramente casuale.

 

Il dott. Severino Ruoppolo dirige un’importante unità operativa che si occupa di tossicodipendenti, ubicata nel territorio di una grande azienda sanitaria.

Ruoppolo, in accordo con una forte coerenza tra pensiero ed azioni, prende particolarmente a cuore la qualità dei prodotti erogati dalla sua Unità Operativa (UO) e, ma nello stesso tempo ritiene che la garanzia di una buona qualità dei servizi resi agli utenti sia vincolata al rispetto di decenti condizioni di benessere psico-fisico degli operatori, che a lui fanno riferimento, e dalla possibilità di poter disporre di mezzi idonei al raggiungimento degli obiettivi cui è preposta l’ UO commisurati con i carichi di lavoro.

All’interno della Azienda Sanitaria, Ruoppolo non è benvoluto perché non mai accettato di sottostare a giochi di potere e a logiche di schieramento.

Per questo motivo, ogni volta che le sue richieste e le relative rappresentazioni di disagio vengono disattese dai vertici gerarchici, Ruoppolo, anziché lasciare che le parole dette rimangano semplicemente dette (verba volant…), ben consapevole di generare fastidio, scrive – quanto meno per lasciare traccia di ciò che egli ha tentato di ottenere.

In ogni circostanza difficile, quindi, Ruoppolo si trova quasi obbligato a comporre e ad inviare lettere incisive, supportate da numerosi allegati tendenti a testimoniare ciò che egli ha fatto nel corso degli anni, senza peraltro ottenere mai risposte di rilievo.

Di recente, si sono verificati numerosi fatti indicanti un diffuso disagio degli operatori (furti di arredi e di farmaci, aggressioni da parte di utenti ai danni degli operatori) e infine, dulcis in fundo, l’improvvisa annunciata carenza del personale infermieristico che svolge una funzione di rilievo nel rapporto quotidiano con l’utenza (con il passaggio annunciato a breve scadenza da tre unità ad una soltanto).

Ruoppolo, ha già provveduto da tempo ad inoltrare le richieste tendenti ad ottenere dei rincalzi al personale  anche con incarichi temporanei, ma anche in questo caso senza ottenere alcuna risposta.

Ruoppolo, quindi, afflitto dalla previsione che presto non potrà far fronte alle necessità del lavoro quotidiano, manda ai vertici aziendali un’ulteriore richiesta.

Qualche giorno dopo, in occasione di un incontro tra colleghi che dirigono Unità Operative analoghe, Ruoppolo  ha l’occasione di avere un colloquio a quattr’occhi con il dott. Giovanni Grissino, Direttore del Dipartimento, cui afferisce la sua unità operativa.

Il colloquio, come già detto, si svolge a porte chiuse.

“Certo” fa Grissino “Quelli che hanno votato per il Centro-Destra, anche i nostri colleghi, adesso cominciano a pentirsene, con questi vertici aziendali che ci ritroviamo”.

Ruoppolo si limita ad ascoltare, annuendo, ma senza interferire.

“Per esempio, adesso, pensano di cancellare con un colpo di spugna i diversi Distretti per costituirne uno solo”

“E poi”, aggiunge Grissino [riferendosi alla triade, composta dal manager e dai due direttori, amministrativo e sanitario], “… questi tipi che sono a capo dell’Azienda Sanitaria sono davvero strambi. Quando ci si rapporta con loro bisogna stare attenti a come ci muove. Io stesso cerco di essere cauto e prudente…”

“Ma, Giovanni, cosa intendi dire? …sii più chiaro.” commenta, a questo punto, Ruoppolo.

Ruoppolo comprende bene che, nelle frasi ellittiche di Grissino c’è un chiaro riferimento alle recenti comunicazioni che egli, preoccupato della situazione, si è premurato di inoltrare ai vertici, non senza avere prima informato alcuni di loro dei passi che intendeva intraprendere.

Ruoppolo comprende bene che Grissino vuole anche fargli capire che le sue comunicazioni sono risultate sgradite, ma nello stesso tempo è profondamente disturbato dallo stile comunicativo del suo interlocutore che avverte come molto intimidatorio.

Grissino, come Ruoppolo ha appreso a sue spese, è abilissimo a non dire mai nulla direttamente e altrettanto bravo nell’utilizzare verità distorte per manipolare gli eventi.

Ruoppolo, per nulla intimorito dalle abili reticenze di Grissino, vorrebbe che quest’ultimo si esprimesse in modo più esplicito.

Tra l’altro, dopo gli ultimi fatti che avevano causato disagio al servizio, avendo fatto tutto il necessario per predisporre delle soluzioni e per chiedere interventi decisivi, Ruoppolo si era allontanato per qualche giorno, poiché doveva usufruire di un periodo di licenza ordinaria già programmato in anticipo: tuttavia, dovendosi assentare, come del resto in altre circostanze, si era premurato di designare, tra i colleghi, un sostituto per la gestione ordinaria dell’Unità Operativa.

Malgrado ciò, durante quest’assenza tutti avevano insistentemente  chiesto di lui, dove fosse, cosa stesse facendo, insinuando più volte che egli si fosse allontanato irregolarmente e irresponsabilmente.

Come aveva appreso dalle notizie che gli erano giunte all’orecchio al suo ritorno, il Direttore del Distretto Sanitario (nel cui territorio è ubicata l’Unità Operativa diretta da Ruoppolo), dott. Serse Despotini, in preda ad un’ira non giustificata, aveva addirittura dichiarato più volte che avrebbe provveduto ad inviargli d’urgenza un telegramma per farlo rientrare dalle ferie anzitempo e, a quanto pare, aveva messo al corrente di queste sue recriminazioni persino il Direttore Sanitario dell’Azienda.

Vista la resistenza di Grissino ad essere più esplicito, Ruoppolo non esita ad affrontare il discorso sulle azioni avviate dal dott. Despotini e quanto queste, a suo modo di vedere, siano state motivate dal disappunto suscitato in Despotini dal fatto che Ruoppolo si fosse premurato di inviare alcune comunicazioni anche all’ufficio prevenzione e sicurezza dell’azienda, ravvisando che le condizioni dell’ambiente di lavoro fossero pregiudizievoli al benessere psicofisico degli operatori.

Al ritorno dal suo viaggio, Ruoppolo – come si è trovato a riferire a Grissino - aveva avuto una tempestosa comunicazione telefonica con Despotini, nel corso della quale quest’ultimo, in sostanza, lo aveva accusato di assenteismo dal servizio, imputandogli quasi la responsabilità degli eventi, oggetto delle segnalazioni di Ruoppolo e causa delle sue richieste tendenti ad ottenere un miglioramento delle condizioni di sicurezza della sua Unità Operativa.

All’infuocata telefonata, aveva fatto seguito una pesante lettera di sfiducia da parte di Despotini, nella quale Ruoppolo veniva privato – ma con un provvedimento del tutto contestabile – della facoltà di provvedere responsabilmente alla gestione delle sue licenze ordinarie e dei suoi periodi di aggiornamento. 

“Sì!” fa Grissino “In effetti anch’io sono stato interpellato su questa faccenda. Il dott. Marchesi, il nostro Direttore Sanitario, sollecitato dalle pressioni di  Despotini, voleva richiamarti con effetto immediato con un telegramma. E poi, è chiaro con questi tipi così strani e così infidi, imprevedibili, basta che uno scriva che non è grado di garantire il funzionamento dell’Unità Operativa, di non poter fare qualcosa, e subito ecco che questi qua non guardano più in faccia a nessuno, e dicono ‘Licenziamolo!’ per sostituirlo con un altro… Sai, non vanno tanto per il sottile… possono avere la mano davvero pesante…”

Ancora una volta, Despotini interloquisce “Ma, Giovanni, cosa vuoi dirmi? Ti prego di nuovo, sii più esplicito…

Grissino continua a rimanere nel vago, ma aggiunge: “Sai, per questi motivi, alcuni sono stati già licenziati… Dunque, bisogna essere prudenti.”

“Forse è per questo motivo che Despotini ti ha mandato la lettera,” ha continuato  “Perché lui stesso si era sentito messo in difficoltà rispetto alla dirigenza  aziendale a causa delle tue comunicazioni e delle tue richieste… Quindi, insisto a dirti, che bisogna essere prudenti…”.

Con quest’ulteriore raccomandazione ellittica si è conclusa la prima  parte del colloquio tra Ruoppolo e Grissino.

I due hanno continuato a parlare d’altro.

Alla fine, essendo necessario che Ruoppolo apponesse la sua firma, su di un documento che successivamente doveva essere firmato dal Direttore Amministrativo, dott. Bottoni, Grissino gli rammenta “Mi raccomando, ricordati di firmare in questa posizione; ma assolutamente non mettere la tua firma più in basso di quella del Direttore Amministrativo! Sai, questi qui ci tengono molto a queste formalità.”

“Sono proprio dei tipi strambi” soggiunge infine Grissino.

E con questa riflessione ha termine il colloquio tra i due.

“Un’intimidazione bella e buona” pensa Ruoppolo, andando via, sentendosi al tempo stesso adirato ed incupito, “Grissino è sempre lo stesso: cerca di navigare a vista per mantenersi a galla meglio che può e poi con chi ha bisogno di suoi interventi un po’ più incisivi, è bravo soltanto a fare il muro di gomma.”

Ruoppolo sa che, nell’organizzazione aziendale, come specificato nelle norme contrattuali che regolano il rapporto con la dirigenza, esiste in effetti la possibilità del cosiddetto licenziamento ad nutum , cioè del licenziamento attuato sulla base di un “cenno del capo” del Direttore Generale. Ma sa anche che questa è una norma di fatto mai applicata perché ad essa fa da contraltare tutta una serie di normative che tutelano i diritti del lavoratore dipendente.

Quindi, Ruoppolo sa bene che, in casi estremi, di fronte a palesi ingiustizie e ad atti grossolanamente arbitrari c’è pur sempre la possibilità di fare ricorso al TAR, al pretore del lavoro, etc., etc….

Ma, in ogni modo, prima di averla vinta, bisogna difendersi, mettersi nelle mani di un avvocato ed è chiaro che queste prospettive levano ogni serenità…

Quindi, in definitiva, non ci sarebbe molto di cui preoccuparsi,  ma non c’è nemmeno molto di cui stare allegri.

La conversazione appena conclusasi costituisce per Ruoppolo un tentativo intimidatorio nei suoi confronti: “Stattene buono. Non rompere più con le tue lettere e con le tue richieste!” che, ovviamente, avvelena ulteriormente il suo desiderio di esprimere con il proprio lavoro una costante tensione verso la realizzazione di buone pratiche.

Ruoppolo, quindi, se ne va mestamente, sentendosi avvolto in una cappa plumbea di disappunto e di scoramento: “Non cambierà mai niente…” dice tra sé e sé, pensando intanto ad un quadretto che tiene appeso nella sua stanza e che non manca mai di guardare all’inizio di ogni sua giornata lavorativa.

Ma cos’è questo quadretto a cui pesa Ruoppolo?

Si tratta di una vignetta di Altan in cui interagiscono due personaggi: un negretto in lacrime, tutto contrito e mesto, con i lucciconi che gli scendono lungo le guance, ma vestito con un abitino occidentale, per quanto tutto strappato; su di lui incombe, imponente e mansueto allo stesso tempo, il papà avvolto in stoffe dai vivaci colori. Nella vignetta, il bimbo, alzando la testa verso l’alto, dice “Mi hanno menato, babbo” e il papà, dall’alto della sua statura, gli dice in modo consolatorio, ma impartendogli una lezione di vita: “Le prendi quindi esisti; è già qualcosa”.

Sembra che il papà della vignetta – con la sua risposta apparentemente sconsolante – voglia trasmettere al figlio profondamente afflitto un avvertimento implicito: “Ancora non hai visto niente, figlio mio!”, ma, al tempo stesso una pensosa esortazione.

“Se uno le prende e poi lo racconta oppure ne scrive” si trova a riflettere Ruoppolo “trasforma un evento doloroso e umiliante in esperienza di affermazione, comunque, del proprio Sé contro ogni ingiustizia, esperienza che – in forma di narrazione – può essere trasmessa ad altri, quantomeno per tentar di  promuovere un’indignata mobilitazione delle coscienze e sollecitare anche altri a venire allo scoperto per raccontare analoghi casi di ingiustizia all’interno delle organizzazioni.”

Ruoppolo, sentendosi decisamente confortato da queste riflessioni, non può fare  a meno di pensare ad un secondo piccolo quadro che pure tiene nella sua stanza accanto all’altro. Si tratta della stampa  in bella veste di una poesia: la famosa “If…” di R. Kipling, da molti considerata melensa e retorica, ma secondo Ruoppolo veicolo di un messaggio intensamente formativo per tutto ciò che attiene al coraggio di vivere e di affrontare le difficoltà di ogni giorno, mettendosi costantemente in discussione e sopportando incomprensioni di ogni genere: un messaggio, che per Ruoppolo, duramente provato dal colloquio appena concluso, è fortemente corroborante,  specie se abbinato alle immagini di coda del famoso film di Ken Russell – con lo stesso titolo – che gli viene fatto di visualizzare in questo suo percorso associativo.

Ma Ruoppolo, lasciando immediatamente cadere l’immagine inquietante proposta da Russell a conclusione del film  nella quale gli  studenti – in  un surreale rovesciamento rivoluzionario dell’establishment – appostati sul tetto del college prendono a colpi di mitraglietta il corpo docente, compie un ulteriore  passaggio di questo suo percorso associativo con la rimemorazione di un'altra lettura, anch’essa supportata da immagini immagazzinate grazie alla visione di un’abile traduzione cinematografica del testo.

Ruoppolo, dunque, si sofferma a pensare alle vicissitudini di Sostiene Pereira e a come anche un oscuro giornalista addetto alla compilazione dei necrologi, ad un certo punto, prendendo consapevolezza delle palesi ingiustizie perpetrate da un regime dittatoriale, mette mano alla penna per denunciare ciò che ha visto, compiendo così un gesto di libertà creativa e di riscatto rispetto all’inconsapevole asservimento ad un regime politico ma soprattutto ad una dittatura del pensiero.

È stato così, secondo le fonti più accreditate, che Ruoppolo, non appena tornato a casa, mise mano alla penna e cominciò a scrivere…

 

Discussione. Quali insegnamenti trarre da questo casework?

Come per ogni casework ben costruito, a questo punto, giunti – come   siamo – alla fine della narrazione bisogna porre – porsi – degli  interrogativi.

Cosa avrebbe dovuto fare Ruoppolo?

Cosa avrebbe dovuto dire nel corso del colloquio con Grissino?

Quali riflessioni più generali suscita questo casework?

Infine, quali potrebbero essere gli obiettivi d’apprendimento della presentazione del casework all’interno di un ipotetico corso di formazione per il management nelle organizzazioni socio-sanitarie?

Se chi mi ha letto sino a questo punto vuole perdonarmi per la mia scherzosità e per l’ironia con cui cerco di far comprendere uno scenario altrimenti assolutamente drammatico, le mie personali conclusioni sono che la fiction che ho proposto possa essere l’esemplificazione delle miserie quotidiane che invadono le organizzazioni  del servizio sanitario nazionale.

Ovviamente, quella fittizia appena narrata è, in qualche misura, una esemplificazione estrema, ma ciò nondimeno paradigmatica di quanto si asseriva in premessa.

Si potrebbe dire che l’interazione narrata descriva un possibile tipo di “morte” (morte del pensiero, della responsabilità, della creatività) voluto da un regime di potere che di fatto è totalitario, per quanto nominalmente si dichiari fondato sulla democrazia e sulla condivisione di aspetti di mission e di vision, all’interno di un’organizzazione.

Quanto meno, ciò che viene rappresentato nel casework mette sicuramente in evidenza il tipo di morte a cui l’organizzazione potrebbe tendere qualora personaggi come il dott. Severino Ruoppolo la dessero vinta al manipolatore Grissino, al litigioso Despotini e agli altri cupi personaggi che si tengono nell’ombra minacciosi, pronti ad intervenire.

Per concludere con alcune considerazioni generali e per dare una risposta alla domanda contenuta nel titolo, vorrei per un attimo ritornare al già citato testo di Tramarin:  l’autore argomenta che, negli anni scorsi, buona parte delle amministrazioni degli ospedali e delle ASL non hanno per nulla incentivato i processi di libertà, di autonomia, di capacità di progettazione, sviluppo e progresso  che dovrebbero essere intrinseci al concetto stesso di azienda.

      Ma, citando le stesse parole di Tramarin, si può leggere ancora un affermazione lapidaria di portata generale:

… negli anni scorsi, si è dimostrato con grande ipocrisia, come si possa chiamare azienda un’istituzione che è invece un modello centralizzato, statalista e protezionistico finalizzato al controllo e alla riduzione della spesa sanitaria.

(…)

Oggi, appare chiaro a tutti che la malasanità è stata un fenomeno utilizzato in maniera strumentale per condizionare l’opinione pubblica e legittimare la riduzione della spesa sanitaria che negli anni scorsi è stata portata ai più bassi livelli in Europa.”[1]

La sanità oggi è una sanità ammalata: la malattia consiste, da un lato,  nella perversa volontà degli alti dirigenti di ridurre il più possibile i costi; dall’altro lato, nella profonda demotivazione e scontentezza di altri dirigenti (non solo medici, ma genericamente appartenenti al  ruolo sanitario), che vorrebbero operare con professionalità e con dignità, ma non possono farlo decorosamente a causa delle strategie messe in atto dal primo tipo di dirigente.

In questa sindrome, i cui segni diventano sempre più evidenti su tutto il territorio nazionale – per quanto a macchia di leopardo -   i dirigenti di alto livello (i manager) vanno avanti – insensibili per la loro strada, mentre gli altri dirigenti, quelli che vivono ineluttabilmente le contraddizioni insite in questo sistema, di fronte all’impatto crescente di demotivazione e scontentezza, possono imboccare due strade, che sono in alternativa l’una rispetto all’altra: o quella della realizzazione di una vera e propria sindrome da burn-out (di cui, oggi, dopo una serie di interessanti studi psico-sociali applicati alle organizzazioni socio-sanitarie risalenti agli anni Ottanta e ai primi anni Novanta, nessuno parla più; e ci sarebbe da chiedersi: perché?) oppure una sindrome da “cinismo” che porta ad accettare in modo sempre più esteso qualsiasi imposizione, qualsiasi nefandezza promossa nel nome della “cura dei bilanci” e a discapito della cura dei malati.

Tutto ciò è reso ancora più grave dalla intersezione dei problemi sin qui esaminati con quello del potere e della sua gestione.

In verità, alcune disfunzioni non sembrano tanto essere il derivato perverso di una volontà politica, ma piuttosto il prodotto di un sistema orientato all’acquisizione e al mantenimento del potere.

 

Il potere nelle organizzazioni sanitarie: alcune considerazioni psicologiche

Il potere e la sua gestione fanno parte di quelle che Di Chiara ha definito le “sindromi psico-sociali”.

Ma cosa sono le sindromi psico-sociali?

Riporto la definizione fornita dallo stesso Di Chiara[2]:

Definisco come sindromi psico-sociali quei comportamenti collettivi generatori di disagi immediati o futuri evidenziabili o ragionevolmente prevedibili, senza che, per questo, tali comportamenti cessino di avere luogo, pur non esistendo per essi motivazioni non rimuovibili.[3]

Le sindromi psico-sociali nelle organizzazioni sono supportate da specifiche “culture” che vengono descritte accuratamente nel saggio citato.

Ovviamente quando si parla di sindromi psico-sociali non si intendono incriminare le singole persone o emettere giudizi svalutativi nei loro confronti, poiché l’analisi che si può sviluppare utilizzando tali categorie concettuali attiene alle dinamiche del gruppo istituzionale capace di produrre delle dinamiche specifiche che trascendono i singoli individui.

I gruppi istituzionali, come ha bene mostrato Bion nel suo studio sulle dinamiche gruppali [4], producono dei fenomeni che sono qualcosa di più della somma delle caratteristiche dei singoli individui che li compongono.

In particolare, il potere e il suo esercizio sembrerebbero essere supportati da culture maniacali e paranoidi.

Afferma Di Chiara:

Scissione, proiezione, mancanza di legami funzionali tra il gruppo e  sottogruppi costituiscono … elementi caratterizzanti la cultura paranoica.[5]

La cultura paranoica propria dei gruppi che, all’interno delle organizzazioni,  gestiscono il potere confligge con le pratiche sviluppate da altri sottogruppi che, sempre all’interno delle istituzioni sanitarie, sono invece dominati dalla “sindrome della cura e della responsabilità” sia per specifiche sedimentazioni formative, sia per ruolo istituzionale.[6]

Frequentemente, tra le due tipologie di gruppi non esiste alcuna possibilità di autentico dialogo e di negoziazione delle effettive esigenze, se non, da un lato, l’arroccamento su posizioni conflittuali che possono alimentare in un circuito vizioso la paranoia del potere  nel gruppo che lo gestisce oppure dalla parte dei gruppi immersi nella “sindrome della cura e della responsabilità” la resa, la rinuncia ad alcune delle istanze proprie della loro specifica cultura della cura e il configurarsi di fatto di modalità collusive.

Su questi presupposti si fonda la lapidaria affermazione che si può  legge in un piccolo, interessante contributo su Il potere e le USL[7]:

Il potere nelle USL si basa perciò il più delle volte su di un processo di collusione.[8]

Ma cosa si deve intendere per “collusione”, ovviamente nel senso psicologico del termine?

Per “collusione” si intende l’attivazione di processi fantastici a cui segue un agire non mediato dal pensiero. L’azione, nel caso specifico, avviene all’interno dell’istituzione tra persone o gruppi. Tale azione, proprio perché si svolge all’interno di un’organizzazione, può assumere le caratteristiche o le sembianze di un atto organizzativo, ma in realtà non ha  né l’efficacia né la capacità di perseguire quegli obiettivi che si era proposta di realizzare.[9]

Ma, nelle ASL, prosegue ancora il nostro autore, con una formulazione molto pertinente con i temi discussi prima,

… il potere assume una funzione tutta particolare, ossia di dominio nella relazione. Poiché il pensare , cioè l’elaborazione e la fantasmatica attivata  dalla relazione sociale e l’utilizzarla per conoscere , viene di fatto congelata, i risultati a cui tende il potere non potranno mai coincidere pienamente con i risultati utili, necessari e coerenti con l’organizzazione stessa.

La volontà di dominio della relazione può manifestarsi il più delle volte,anziché nella forma della esplicita prevaricazione, in forme più sottili che possono oggi essere mascherate con parole quali “strategie aziendali”, “cambiamento strategico” etc. etc. che designano quei processi trasformativi a cui gli operatori appartenenti a quei sottogruppi dominati dalla cultura della cura e della responsabilità devono necessariamente sottomettersi in nome di una ragione superiore.

In quest’ottica, le attività di formazione intra-aziendale assunte alla funzione di volano principale del cambiamento strategico dell’azienda sanitaria rischiano di essere interpretate da alcuni – a tutti gli effetti - come attività di manipolazione…

Al giorno d’oggi, salvo che non si verifichi un radicale ribaltamento dei valori attualmente condivisi, l’esercizio del potere fa intrinsecamente parte delle organizzazioni della società contemporanea e decisamente prescinde dall’appartenenza politica di chi lo gestisce e dai valori dichiarati di eventuali aspirazioni ad una maggiore equità e giustizia sociale.

Da questo punto di vista, anche una critica radicale dei sistemi di potere deve essere necessariamente disgiunta dalla critica alle appartenenze politiche: la libidine del potere – nel senso psicologico del termine, secondo l’analisi che ho sviluppato – è una conseguenza del sistema di governo delle organizzazioni, non dell’appartenenza politica degli individui.[10]

All’interno delle organizzazioni complesse – e le USL lo sono – il   potere non solo si manifesta come prevaricazione e controllo, ma anche come costante contrapposizione tra il medesimo e l’altro, tra un presunto “buono” e un “cattivo” stigmatizzato, e ciò sia nel rapporto inter-istituzionale che all’interno dell’organizzazione stessa.

Questo fenomeno di costante contrapposizione tra “buoni” e “cattivi” rischia di portare all’attivazione di sterili “crociate” interne, nelle quali il più delle volte i “buoni” sono semplicemente quelli  acquiescenti nei confronti del sistema, mentre i “cattivi” sono quelli che non rinunciano a far sentire la propria voce, non tanto in termini di dissenso destruente rispetto al sistema, quanto piuttosto in termini di denuncia costruttiva di disfunzioni che si vorrebbero veder emendate per garantire un miglior funzionamento del sistema stesso.

Va da sé che in tali condizioni la gestione del potere è tuta convogliata a confermare o a sconfermare l’altro, in rapporto al vissuto fantasmatico del gruppo, così come determinate funzioni della mente hanno il potere di soppiantarne altre, in questo caso di “logorare” quelle meno primitive.[11]

In altri termini, per citare ancora una volta il prezioso studio di Tronconi,

Continuare a gestire il potere diventa perciò dividere l’USL e le sue unità operative tra amici e nemici, cercando di privilegiare-rinforzare i primi e neutralizzare-castigare i secondi, e ciò indipendentemente dalla professionalità e dalla produttività. Secondo questi parametri, infatti, l’amico dovrebbe essere caso mai la persona capace e che rende, mentre il nemico il lazzarone e l’impreparato. Ma detti parametri richiedono che il potere sia messo al servizio di funzioni psichiche più evolute, dove il problema non sia tanto la sopravvivenza quanto l’efficacia e l’efficienza di un sistema organizzativo, deputato per legge a rispondere a determinati bisogni sociali e sanitari.

I “cattivi” o nemici, così definiti per il loro essere alleati con le funzioni più evolute del sistema, in altri termini secondo l’analisi sviluppata prima, delle parti pensanti di esso, possono trovarsi a subire un ulteriore processo di stigmatizzazione e di emarginazione da parte degli aspetti “tirannici”, in senso mentale, dell’organizzazione, diventando vittime innocenti di iniziative di controllo – se non addirittura di vessazione - che l’organizzazione stessa mette in atto, all’insegna di un vero e proprio “stalinismo” del pensiero, enunciando persino diktat contro una piena libertà di espressione.

Per corroborare questa affermazione è sufficiente qui ricordare il caso molto noto di Cornaglia Ferrarsi, per alcuni versi “vittima” del sistema di cui aveva denunciato le malfunzioni[12], ma anche quello – sull’altro versante della barricata - del Direttore Generale di un’Azienda Sanitaria della Sicilia che ha ingiunto a tutti i Dirigenti dell’ASL di astenersi dal fare qualsiasi dichiarazione esterna, scavalcando la catena gerarchica, dietro la minaccia – in caso di infrazione – dell’attivazione di severi provvedimenti disciplinari: una ingiunzione discutibile, perché mette in discussione alla radici la libertà di opinione dei dirigenti di quest’Azienda e la possibilità per essi di divulgare il proprio pensiero in articoli e riflessioni scritte.

Il potere nelle organizzazioni sanitarie, e ciò accade in alcune Regioni in particolare, è gestito in modo tale da creare costantemente la possibilità di ribaltamenti difensivi da parte delle alte dirigenze ai danni e al prezzo del discredito degli operatori che cercano di far funzionare le strutture periferiche.

Non è infrequente il caso che, a fronte di scandali e/o di eventi clamorosi, segnalanti impietosamente le disfunzioni del sistema sanitario, i manager e tutti gli altri personaggi in cima alla catena del controllo e del comando dell’Azienda Sanitaria, partano con immediate azioni di discredito e di  deprezzamento ai danni degli operatori delle singoli strutture, sottolineando che un dato evento sia dipeso da imperizia o, peggio, da negligenza di questi ultimi, mentre onestà intellettuale imporrebbe di riconoscere che determinati fatti accadano per mancanza di mezzi, di personale idoneo, di adeguate strutture logistiche, di non adeguamento alle norme sulla sicurezza del luogo di lavoro, della stentata fornitura di essenziali presidi sanitari, etc., etc. …

Afferma una giornalista siciliana, commentando un fatto di malasanità, in cui il Direttore Generale di un’Azienda Sanitaria in relazione ad un fatto accaduto ha accusato in modo virulento alcuni suoi medici, declinando così un’assunzione di responsabilità circa le disfunzioni sottese all’evento “critico”:

“Soldati valorosissimi di trincea, i nostri medici e infermieri, in lotta tutti i giorni non solo e non tanto contro l’ostilità di una malattia ma contro un nemico, assai più subdolo, invitto in Sicilia a tutt’oggi. Un nemico che invalida le grandi competenze e le straordinarie risorse umane di questi anonimi attori della salute, spossati da quell’ottusità politica, indolente e traffichina, che non garantisce i cuscini, le luci, i campanelli, i farmaci, i materassi, le prese di corrente, le pinze, i cateteri… Un florilegio di siffatte inadempienze rendono infrequentabili gli ospedali per gli stessi operatori, stremati dalla tempestiva, quanto inutile, reiterazione (quasi supplica) delle richieste ad una direzione sanitario-generale che, con fermezza e autorevolezza [per la tutela dei propri operatori] dovrebbe fare abbassare le orecchie… ai pretoriani della Regione… [corsivo mio][13]

Mi sono permesso di riportare per esteso l’intero brano tratto dal bell’articolo della Grasso, perché chi, come me ed altri colleghi, si è trovato vivere in prima persona le situazioni descritte, non può che dare testimonianza di una totale verosimiglianza dell’episodio narrato e criticato: nella parole riportate, io – personalmente – intravedo un’incisiva rappresentazione delle quasi-ontologiche disfunzioni che contraddistinguono il nostro sistema sanitario.

Il riferimento geografico-culturale alla Sicilia, semplicemente, colloca i fatti enunciati all’estremo di un intero spettro di possibili paradigmi.

Ma, al di là del riferimento localistico, è indubbiamente vero che, spesso, a medici e ad operatori sanitari eccellenti, competenti e dotati delle necessarie doti di humanitas, costretti ogni giorno a scalare le impervie pareti della gestione politica del potere, viene imposta, proprio da chi dovrebbe tutelare i suoi operatori, un’“immeritata gogna di malasanità”.[14]

Se è vero che, nelle Aziende Sanitarie, sta prendendo piede questa evoluzione, allora il caso del dott. Ruoppolo illustrato prima deve davvero considerarsi  senza speranza?

In un’organizzazione, nella quale si gestisca il potere, vi è la possibilità che si aprano scenari che di esso consentano un buon uso? Oppure sono le intrinseche qualità del potere a corrompere comunque il sistema,  generando cattiva gestione, sia per le loro implicazioni soggettive che per quelle oggettive?[15]

Ma questi sono quesiti a cui soltanto i filosofi potrebbero dare risposte competenti.

 

 

Note al testo

[1] Op. cit. p. 50-51. Viviamo in un momento in cui ancora una volta la “malasanità” viene utilizzata strumentalmente per picconare il sistema sanitario nazionale. Recentissimo di questi giorni un decreto dei ministri Sirchia/Tremonti che istituisce una sorta di polizia amministrativa per sanzionare in via diretta i dirigenti medici del Servizio Sanitario non solo per la prescrizione di farmaci di particolari case farmaceutiche ma anche per avere prescritto esami struntali e laboratoristici superflui oppure per avere indicato una struttura convenzionata e non un'altra. Il fatto grave, se questo decreto dovesse passare indisturbato è che il medico “presunto colpevole” non potrà più usufruire di una giusta causa, ma potrà essere subito ed insidacalmente sanzionato,  con la conseguenza dell’attivazione di un regime di “terrore” giacobino che potrebbe finire con il distogliere molti medici dall’intraprendere le necessarie azioni terapeutiche, incentivandoli  invece a fare soltanto il minimo, con l’esito - in un futuro prossimo venturo di certo non allegro – del rischio di ulteriori fenomeni di devitalizzazione e deterioramento della Sanità pubblica in Italia. (cfr l’articolo di Piraini M., recentemente comparso su un numero de La Repubblica di fine Marzo, Contro i medici la Ghepeù di Sirchia)

[2] Di Chiara G., Sindromi psico-sociali. La psicoanalisi e le patologie sociali, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.

[3] Ib., p. 3.

[4] Bion W.R., Esperienze nei gruppi, Armando Editore, 1961.

[5] Di Chiara, op. cit., p..41.

[6] Ib., pp.45-52.

[7] Cfr., Tronconi A., Il potere nelle USL, in Longin L., Mazzei  Maisetti F. ( a cura di), Psicoanalisi e potere, Laterza, Roma-Bari, 1991, pp. 131-140.

[8] Ib., p.137.

[9] Ib., p.137.

[10] Si può tuttavia aggiungere che l’appartenenza politica può contribuire allo “stile” di esercizio del potere. Alcuni degli effetti perversi del potere come dominio e sopraffazione dell’altro, come coperchio con cui in maniera prevaricatoria si cerca di bloccare il pensiero creativo sono straordinariamente simili, quale che sia  l’appartenenza politica del gestore di turno del Potere. Basti pensare alla dolente rievocazione che Ermanno Rea fa della sinistra napoletana nel tentativo di tratteggiare la storia del piccolo gruppo di giornalisti che fecero pare della redazione napoletana dell’Unità  (Rea E., Mistero napoletano. Vita e passioni di una comunista negli anni della guerra fredda, Einaudi, Torino, 2002).

[11] Questa citazione e la successiva da Tronconi A., op. cit. pp. 139-140.

[12] I lettori ricorderanno che Cornaglia Ferraris, medico all’interno di un importante istituto sanitario di ricerca italiano (il Gaslini), è stato l’autore di un libro-pamphlet di denuncia, documentata, di alcune distorsioni esistenti nella sanità italiana e che, a causa della pubblicazione di questo libro, inizialmente uscito anonimo (con lo pseudonimo di Medicus medicorum) e soltanto in seconda ristampa firmato esplicitamente, oltre a subire iniziative disciplinari da parte dell’Ordine dei Medici, fu a rischio di “licenziamento” dall’Azienda Ospedaliera di cui faceva parte. Si trattò di un caso che fece scalpore e che suscitò ovviamente delle mobilitazioni d’opinione (cfr. Cornaglia Ferraris P. - Medicus Medicorum), Camici & pigiami. Le colpe dei medici nel disastro della sanità italiana, Editori Laterza,  Bari 1999, a cui hanno fatto seguito altri libri di critica e di denuncia)

[13] Dall’articolo di Grasso S., Abbassate le orecchie entrando in ospedale, in La Repubblica Palermo, 10.04.2003.

[14] Ib..

[15] Cfr. Galli C., Potere, in Portinaro P.P., I concetti del male, Einaudi, Torino, 2002, pp. 298-324.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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