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25 luglio 2015 6 25 /07 /luglio /2015 05:16
Marcellino Pane e Vino. Forse il mio primo film al cinemaMarcellino Pane e Vino. Forse il mio primo film al cinemaMarcellino Pane e Vino. Forse il mio primo film al cinema
Marcellino Pane e Vino. Forse il mio primo film al cinema

Marcellino Pane e Vino (diretto dall'ungherese Ladislao Vajda), uscì nel 1955 nelle sale cinematografiche.

Ricordo che allora non avevamo ancora la TV (i primi apparecchi televisivi avrebbero avuto una diffusione di massa più tardi in occasione dei Giochi Olimpici di Roma nel 1960).

Di tanto in tanto la mamma o il papà ci portavano al cinema: e questo era dunque l'unico approccio possibile con la cinematografia.

Forse, considerando l'anno di uscita, Marcellino Pane e Vino fu il mio primo film: per così dire il mio battesimo del fuoco cinematografico..

Mi ci accompagnò la mamma: non ricordo se quella volta ci fosse anche mio fratello e nemmeno se ci fossero altre adulti e miei coetanei.

Dal film fui molto colpito, tanto che ancora oggi quando ne rivedo alcune scene topiche ora da adulto, piango tuttora come un vitello. 

Le emozioni di allora furono facilitate, allora, probabilmente da una totale identificazione con il protagonista della storia: pablito Calvo all'epoca in cui venne scelto come attore-protagonista, aveva 6 anni, esattamente gli anni che avevo io quando fui portato al cinema. E anche adesso, nel vedere le sequenze topiche del film, devo dire che mi sembra di vedere me stesso bambino: un film a grande impatto, dunque.

Ma non ricordo che tornati a casa dopo il film con la mamma ci siamo soffermati a parlare di emozioni o comunque di qualcosa che vi fosse in qualche misura correlato (ma quando ero piccoli, i discorsi sulle emozioni non erano quasi mai percorsi).

Le emozioni scaturiscono (a rivedere le sue scene ancora fresche a distanza di oltre 60 anni) dal fatto che la storia è raccontata in toni lievi, senza mai calcare la mano su eventi sovrannaturali, e anzi con un certo piglio realista.
Una narrazione scarna ed essenziale, arricchita (e non depauperatoa) dall'uso del bianconero che rende più profondi ed intensi gli aspetti della vicenda metaforici ed allegorici (come il numero quasi magico dei dodici fraticelli del convento che adottano il bambino esposto, cui viene dato in battesimo il nome di "Marcellino" perché è stato trovato proprio nel giorno dedicato a San Marcellino).
Dopo aver visto il film, la mamma mi regalò anche il libro da cui il film era stato tratto.

(da Wikipedia) Marcellino pane e vino (Marcelino pan y vino) è un film del 1955 diretto da Ladislao Vajda, presentato in concorso all'8º Festival di Cannes.
Il protagonista del film, Pablito Calvo, all'epoca aveva solo sei anni.
Nel 1958 il protagonista del film Pablito Calvo recitò in un film con Totò che sin dal titolo richiamava al film spagnolo (Totò e Marcellino, diretto da Antonio Musu).
Al protagonista del film è dedicata la canzone omonima che sarà interpretata negli anni della sua maggiore fama da Gigliola Cinquetti, memore, come lei stessa disse, delle emozioni che il film le procurò quando, bambina di otto, nove anni, lo vide per la prima volta.
Nel 2011, l'album che contiene tale canzone, Gigliola per i più piccini, è stato ripubblicato in formato CD da Warner Music Italia per l'etichetta Rhino Records (EAN 5052498572953).

Il film è tratto dal romanzo di José María Sánchez Silva "Marcelino Pan Y Vino".

Nel giorno di San Marcellino, in Spagna, un frate francescano si reca in paese per andare a visitare una bambina gravemente malata, mentre tutto il paese sta salendo la collina per andare al convento sulla tomba di San Marcellino; il frate inizia a raccontare la storia del convento e di Marcellino. Finita la sanguinosa guerra combattuta tra francesi e spagnoli, tre frati francescani chiedono al sindaco, Don Emilio, di poter riassestare il vecchio castello per riadattarlo a convento; il sindaco dà il consenso e tutta la popolazione aiuta i tre frati nell'intento. Dopo poco tempo il convento è costruito ed inaugurato.
Una mattina però, il frate portinaio trova alla porta un cestino con dentro un neonato che piange, poiché ha fame e sete; i frati lo battezzano e gli danno il nome di Marcellino, poiché è il giorno di San Marcellino. I frati vorrebbero affidarlo a qualche famiglia, ma nessuno è in grado di mantenere un altro figlio, viste le condizioni di miseria in cui viveva la popolazione spagnola. Marcellino diventa un bambino di cinque anni robusto e forte e tratta tutti e dodici i frati come dodici padri, ma sente molto la mancanza di una figura materna, infatti fa ai frati molte domande sulle mamme.
Portato da un fraticello alla fiera paesana, distrugge la fiera; così il nuovo sindaco, da sempre contrario all'opera di bene fatta da Don Emilio, emette uno sfratto ai danni dei frati. Un giorno Marcellino, disubbidendo a frate Tommaso (chiamato da Marcellino "Fra Pappina"), trova un crocifisso, vedendo che è molto magro immagina che abbia fame e decide di portargli da mangiare e da bere: il crocifisso si anima per ricevere il pasto offerto e gli rivolge anche la parola; avendo trovato nella fretta solo pane e vino, lo dà a Gesù, che lo soprannomina Marcellino Pane e Vino.
Pochi giorni prima dello sfratto Marcellino va a parlare con Gesù delle mamme, ed esprime il desiderio di vedere la sua mamma e dopo anche la Madonna, al che Gesù fa morire Marcellino e lo manda in cielo a conoscere i genitori. Frate Tommaso che aveva visto il miracolo chiama tutti i frati al cospetto del Signore a vedere Gesù che scende dalla croce per far morire (resuscitare) Marcellino per poi risalirvi.
Tutta la gente del paese corre a vedere il miracolo e ogni anno la popolazione si reca sulla tomba di Marcellino Pane e Vino in segno di rispetto.

Alcune sequenze tratte da "marcellino Pane e Vino", con la canzone di Gigliola Cinquetti

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25 luglio 2015 6 25 /07 /luglio /2015 05:03
Tata's tree in Altavilla, decorated for the day. That was my first day in Altavilla with Mauri and Gabriel and without Tata, so I had to make something with my hands and we officially named the tree where we usually had the table where Tata read his newspaper while things went on, on the land. We missed Tata. Mauri misses him every second of the day, but he keeps busy and keeps going!

Tata's tree in Altavilla, decorated for the day. That was my first day in Altavilla with Mauri and Gabriel and without Tata, so I had to make something with my hands and we officially named the tree where we usually had the table where Tata read his newspaper while things went on, on the land. We missed Tata. Mauri misses him every second of the day, but he keeps busy and keeps going!

Nella casa di campagna di Altavilla, c'è l'albero alla cui ombra mettevamo Tatà, quando eravamo lì tutti assieme.

Lì lui leggeva il giornale o fumava le sue sigarette, sino a quando ha fumato.

Lì ci raccoglievamo attorno a lui a fare piccoli spuntini in attesa dell'ora di pranzo e a chiacchierare.

Lì, in quel confortevole spazio ombroso, indugiavamo a pranzare.

Nel primo giorno in cui siamo andati assieme ad Altavilla nel dopo-tatà Maureen ha fatto qualcosa per la nostra memoria e per la memoria di Tatà.

L'albero è un corbezzolo, ma i frutti non arrivano mai a maturare, perchè siamo troppo vicini al mare o per qualche altra ragione che non so.

 

 

Ciao, Tatà! (Visita al cimitero di sant'Orsola nel giorno del Trigesimo).

Ciao, Tatà! (Visita al cimitero di sant'Orsola nel giorno del Trigesimo).

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27 giugno 2015 6 27 /06 /giugno /2015 07:27
L'ultimo Grazie di mio fratello SalvatoreL'ultimo Grazie di mio fratello Salvatore

Mio fratello Salvatore mi diceva spesso "grazie".

Il più delle volte per cose assolutamente banali.

Tornavamo dall'essere stati al cinema assieme e mi diceva "Grazie, Maurizio!".

Tornavamo da una passeggiata o dall'avere passato una giornata in campagna e c'era un "grazie" di prammatica.

Lo accompagnavo in una delle sue "missioni" e il "grazie" era immancabile.

Il più delle volte io gli rispondevo con un "grazie", a mio volta.

Gli dicevo: "Salvatore (Tatà, come lo chiamavo io) sono io che devo ringraziare con te! Accompagnandoti ho avuto modo di fare una bella passeggiata, ho visto un posto che non conoscevo, me ne sono stato per alcune ore all'aperto.

Ma anche: "Grazie per essere stato con me e per avermi dato compagnia"! Insomma, ci ringraziavamo a vicenda.

Il "grazie" rituale arrivava sempre quando rientravamo a casa e, in particolar modo, quando con l'auto o a piedi, eravamo nel cortile.

Questo grazie, dunque, aveva una sua precisa tempistica.

Un'unica volta la tempistica non è stata realizzata.

Il giorno in cui se n'è andato, eravamo usciti.

Ero entrato a casa sua e gli avevo detto: "Tatà, andiamo a fare una passegiata!".Lui ha brontolato un po'. "Ma dove andiamo?" - mi ha chiesto.

In giro, a fare due passi - ho replicato io, tacendogli il fatto che avevo pensato di andare a mangiare una pizza assieme con mia moglie e con il piccolo Gabriel.

Di fronte a tutto ciò che avesse delle valenze edonistiche, Tatà brontolava e si opponeva. A volte lo faceva, perchè non voleva essere di peso o condizionare le scelte degli altri che gli stavano attorno (o limitarle). E, per questo motivo, faceva il burbero: ma poi, anche se nel suo modo silente (che contrastava con il suo modo di essere in pubblico), traeva piacere dall'essere insieme.

E così ancora una volta siamo usciti tutti assieme. Chi poteva immaginare che quella sarebbe stata l'ultima volta in cui uscivamo assieme?

Abbiamo mangiato la pizza e, poi, è successo quel che è successo.

La cosa curiosa è che, per quanto io mi ricordi, quel "grazie" rituale, Tatà me lo ha detto, mentre eravamo ancora in pizzeria e ci accingevamo a ritornare a casa, percorrendo assieme quegli ultimi - fatidici - 500 metri del nostro cammino assieme.Mi sono chiesto del perchè di questa deroga rispetto alle abitudini.

Una coincidenza?

Oppure un'oscura percezione che qualcosa di fatale sarebbe potuto accadere da un momento all'altro?

Non lo so.

Però, fuori tempo, mi ha detto "grazie".

Non ci ho fatto caso sul momento.

E l'altro giorno, ho pensato a questo cambiamento nella consueta sequenza nei nostri scarni scambi di parole: e ci ho riflettuto sopra. Pensandoci a posteriori, questa anticipazione continua a sembrarmi strana, ma come per tutte le coincidenze suggestive non posso che lasciare in sospeso qualsiasi giudizio o interpretazione. A meno che non sia un mio falso ricordo...Però, retroattivamente, a quel "grazie" pronunciato anzitempo, posso replicare: "Grazie, Tatà, per essere stato con noi e per avere creato con la tua presenza le condizioni per farci essere migliori e più attenti alle esigenze degli altri! Grazie per esserci stato, perchè dietro la tua presenza discreta, dietro il tuo non volere imporre agli altri nulla che non volessero fare, c'è sempre stato un grande cuore"

E, per questo motivo, sono io che non finirò mai di ringraziare.

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25 giugno 2015 4 25 /06 /giugno /2015 05:39
Essere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebre

(Maurizio Crispi) Il 21 giugno 2015 se ne è andato all'improvviso mio fratello Salvatore, lasciando un vuoto incolmabile in tutti noi.
Tantissime le testimonianze di stima e di affetto, indirizzate all'uomo, alle sue qualità umane, alla sua capacità e alle sue competenze nel portare avanti le battaglie per la tutela dei diritti delle persone con handicap.
Per me è stato prima di tutto fratello: e, nel momento della sua morte, ho potuto vedere meglio in prospettiva, quanto aveva fatto nel corso della sua vita, l'importanza delle sue iniziative e del suo operare con l'applicazione di tenacia ed infinita pazienza, come se - nel corso della sua vita - egli fosse sempre stato intento a tessere un arazzo, con l'aiuto di molti altri, un arazzo dala cui trama non era ancora data la possibilità di vedere emergere un disegno completo, che tuttavia esisteva nella sua vision condivisa.
Da questo punto di vista, riguardando molte delle immagini di lui che conservo nel mio archivio fotografico, Salvatore era sempre pronto ad uscire in "missione" (così voglio pensare), come "emissario" del Coordinamento H che rappresentava, avendo sempre in mente, malgrado gli scacchi e gli apparenti passi indietro, malgrado le inevitabili delusioni, i raggiramenti dei molti volti della Politica, il prevalere degli interessi personali di questo o di quello, ben salda dentro di sé la sua vision: quella vision che rappresentava la sua forza interiore, attraverso alcune parole chiave fondamentali, come era per lui il principio della "normalizzazione" delle disabilità oppure quello del giocare il tutto per tutto per indurre quelli che hanno il potere decisionale di portare avanti delle strategie unitarie e globali o quello ancora più stringente di spingere le diverse Associazioni a fare "massa" per chiedere il rispetto delle leggi e la loro applicazione con una sola vo
ce, anziché con mille pigolii non sintonizzati che vengono dispersi dal vento.

E, seguendo questi principi, Salvatore - assieme ai suoi spingitori - era sempre in cammino.

Quello che voglio dire di lui, invece, riguarda il mio essere stato fratello e l'avere condiviso con lui una vita come fratello, con momenti di condivisione, di solidarietà reciproca, qualche volta di scazzi e di incomprensioni, ma sempre fugaci.
Qualche volta litigavamo per questioni banali (viste in prospettiva) e poi lui veniva a bussarmi alla porta e facevamo pace, chiedendoci reciprocamente scusa per avere ecceduto nei toni.
Con lui avevamo spesso un modo lieve di rapportarci, immortalandoci spesso in fotografie ironiche (che scaturivano sempre da una mia iniziativa e che lui tollerava, regalandomi il suo sorriso e il suo sguardo buono), indossando buffi copricapi e improbabili mascheramenti.
Da un certo punto di vista, 
assieme a lui  continuavo a sentirmi come il ragazzino che condivideva i momenti gioiosi con un fratello con un handicap, vissuto tuttavia in modo normale.

E lui accettava sempre con pazienza questo mio modo di rapportarmi: in questo modo, riuscivamo a vivere con leggerezza anche i momenti più difficili e quelli in cui lui mi guardava con occhi addolorati o corrucciati.
Quindi, qui di seguito, riporterò ciò che avrei voluto dire al termine del servizio funebre celebrato per lui nella Chiesa di Regina Pacis di Palermo il 23 giugno: tutto ciò che avrei voluto dire, ma che sul momento non ha d
etto.

Al termine del servizio funebre per mio fratello, alcuni si sono alzati per dire qualcosa su di lui, soprattutto sulle sue opere e sul suo impegno costante.

E, del resto, anche Padre Giovanni nel corso della sua omelia aveva detto delle splendide cose su di lui e su ciò che aveva aveva fatto e per cui aveva lottato nel corso di un'intera vita e, molto opportunamente, da sacerdote moderno che segue i social e i giornali online, era partito citando molte delle cose scritte su di lui e citando alcune delle definizioni coniate per descriverne l'impegno in maniera incisivo, come ad esempio "Salvatore Crispi, gigante dei diritti dei disabili" oppure "Salvatore Crispi lottatore tenace ma educato" (e tante altre, tutte di questo tenore).

Anche io avrei voluto dire la mia, lanciare alla folla commossa che gremiva la chiesa, qualcosa di significativo e di intenso.

Ma mi sono astenuto: innanzitutto, perché temevo di essere tradito dalle mie emozioni, in secondo luogo, poichè di mio fratello con il suo carisma di "personaggio pubblico" (ma decisamente anomalo nel suo ruolo di maestro che ha sempre, umilmente, negato di esserlo), tutto - o molto - era stato detto.

Avrei voluto dire qualcosa tuttavia sull'essere stati fratelli.L'essere fratelli implica condivisione di molte cose, ma anche scontri, incomprensioni, piccole liti, silenzi e mugugni, ma anche solidarietà, mutuo aiuto e molto altro, in una continua altalena.

I nostri genitori ci hanno fatto crescere così: in famiglia mio fratello era "normale", nel senso che non riceveva nessun speciale privilegio per la sua condizione o un surplus di attenzioni (salvo quelle fisiche necessarie a superare il suo handicap).

Se da piccoli, mentre mangiavamo ci veniva la ridarella incontenibile, la mamma dispensava un ceffone a me e a lui, senza utilizzare due pesi e due misure.Per lei, sotto questo profilo eravamo eguali.

E, in effetti, i miei genitori - come, solo pochi anni prima di morire, ebbe a raccontarmi la mamma - avevano deciso, inizialmente, che non ci dovessero differenze tra me e Salvatore: quello che davano a me, davano a lui, quello che programmavano di fare lo portavano avanti soltanto se poteva essere una cosa di cui avremmo potuto usufruire entrambi.

Un giornalino per me, un giornalino per lui.

Un giocattolo per me, uno per lui.

Ma sempre cercando di cogliere le differenze e le preferenze individuali.

Poi, in un secondo momento, dopo che fummo un po' più grandi, capirono che in questo modo non si poteva procedere e che bisognava differenziare, poiché altrimenti c'era il rischio di privarmi di esperienze che era giusto che io avessi, lasciando inalterato il principio che per tante altre cose mio fratello dovesse essere coinvolto: per esempio, con tutte le difficoltà connesse, si andava regolarmente in spiaggia, dove avevamo la cabina. Mio fratello lì faceva quasi tutto quello che facevo io: quando avemmo un canotto di gomma, armato di salvagente, veniva a fare le passeggiate con me o con mio padre.

Mio padre, mia madre, io stesso, quando fui abbastanza forte per poterlo fare, lo trasportavamo in braccio o caricandocelo sulle spalle (questo lo faceva mio padre, soprattutto quando si andava in case prive di ascensore).

Ed io fui addestrato precocemente a capire che anche a me toccava occuparmi di mio fratello, in maniera assolutamente regolare e fluida: occuparsi di lui, tutti, in maniera intercambiabile, era la norma.

Quando ero tredicenne, o giù di lì, papà e mamma uscivano la sera per andare a teatro (non si privavano di una vita sociale, sempre all'insegna del principio che si doveva - e si poteva - vivere in modo normale) ed io rimanevo con Salvatore: cenavamo assieme e poi io lo mettevo a letto, perchè ero stato addestrato ad aiutarlo, in un contesto in cui l'"aiuto" per sopperire alle sue disabilità fisiche, altro non era che una modalità relazionale dominata dall'affetto (sia pure "speciale", in quanto era intrisa dell'esigenza di "servizio", sempre gioiosa, mai costrittiva).

Passavamo del tempo assieme: ore trascorse a giocare a carte, oppure a scacchi o a dama. A leggere i fumetti assieme, lui i suoi (Intrepido), io i miei (Topolino).

Eravamo insomma due fratelli "normali": non c'era nessuno stress particolare sulla sua condizione clinica.

Non c'era niente a quei tempi per i disabili, pochissimi gli interventi specializzati disponibili, pochissimi i presidi.

Mancavano delle carrozzine funzionali, ritagliate su misura su piccoli corpi in crescita, se non quelle assolutamente ingombranti e poco funzionali in stile ospedaliero d'antan. Ricordo che mio fratello, sino a quando abitavamo nella casa di Viale Regina Margherita, aveva per casa una normale poltroncina a rotelle da ufficio che era quanto di più comodo e più funzionale che i miei avessero trovato per lui e le sue esigenze.E per mezzo di questa seggiola, mio fratello poteva essere spostato agevolmente da una stanza all'altra.

Poi, tramite lo zio Giovanni, arrivò dalla Germania una moderna carrozzina pieghevole di acciaio tubolare, leggera, con seduta di plastica resistente tipo cuoio, ruote posteriori grandi con anello di propulsione, rotelle anteriori piccole e pedane anteriori pieghevoli.Una cosa mai vista, funzionale e scintillante, come una piccola spider.Mio fratello cominciò ad usare questa per casa e per uscire: un grande cambiamento.

Ma per noi fu una festa: fu come avere acquisito un grosso giocattolo.

Quando eravamo soli in casa, improvvisavamo delle corse su e giù per il corridoio - io come spingitore - , affrontando le curve a velocità folle.Una volta, rischiammo di ribaltarci in una curva presa ad eccessiva velocità.Ma di queste follie la mamma non seppe mai nulla.

E grandi erano le risate.

Ecco questa immagine di gioiosità condivisa mi è venuta in mente e continuo a rievocare, quando pensò all'ultimo sguardo angosciato che mi ha lanciato mio fratello nel momento in cui se ne andava, assieme al tentativo di dirmi una frase che non riuscì a pronunciare e il cui contenuto non potrò mai sapere: un'immagine paradigmatica di gioia totale e di complicità che ritengo essere alla base del nostro imperfetto rapporto tra fratelli.Ecco, questo avrei voluto dire, al termine del servizio funebre.Ma lo sto dicendo ora.

Ecco, avrei voluto dire: "Siamo stati fratelli!"
O, ancora di più: "Siamo fratelli!".

E, a proposito dell'essere in cammino: una persona come Salvatore con il tipo di handicap di cui è portatore, ha bisogno sempre di uno "spingitore" o di molti "spingitori".

Ma non si può essere "spingitori" senza condividere un modo di vedere, senza mettersi nello stesso vertice di osservazione, senza costruire a poco a poco una visione condivisa.

In questo modo, il gioco che io e Salvatore facevamo conteneva in nuce - e rappresenta simbolicamente -l'esperienza fondante di essere uno spingitore.
 

Essere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebreEssere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebre
Essere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebreEssere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebre
Essere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebreEssere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebre
Essere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebreEssere fratelli: ciò che avrei voluto dire su mio fratello Salvatore al termine del servizio funebre
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3 maggio 2015 7 03 /05 /maggio /2015 06:27
Il fascino discreto delle persiane
Il fascino discreto delle persianeIl fascino discreto delle persianeIl fascino discreto delle persiane

(da Wikipedia, modificato) La persiana è un particolare tipo di imposta o più genericamente, di schermo, ossia una parte integrata o integrabile nell'infisso che serve a proteggere una finestra.
A differenza dello scuro è fatta da un'intelaiatura e da una serie di stecche orizzontali di diverso materiale embricate l'una sll'altra e mobili, in modo tale da poterne variare l'inclinazione e consentire così il passaggio di una quantità variabile di luce, fermando la pioggia e il vento.
Le persiane in tante aree rurali hanno sostituito nel corso del XX secolo le tapparelle rudimentali simili a stuoie dette anche gelosie.
Il termine è stato mutuato dal francese persienne utilizzato per definire Persia appunto un tipo di imposta caratteristico atta a proteggere dalla luce e dal calore senza impedire la circolazione dell'aria.
Le persiane, prima costruite in pesante massello di legno, dipinto e smaltato, sono tuttora disponibili sul mercato in diversi tipi di materiali, e presentano differenti caratteristiche di resistenza agli agenti atmosferici e di isolamento termo-acustico.
Possono essere in legno, alluminio, PVC, acciaio decapato o acciaio zincato.
in Sicilia la persiana (chiamata parmigiana da cui le "melenzane alla parmigiana) venne introdotta in maniera sistematica a partire dagli ultimi anni del sec XVIII e particolarmente nel XIX fsecolo finì col divenire un elemento insostituibile della residenza anche la più umile. Solo in questi ultimi anni ha avuto un qualche regresso. con la presenza dei nuovi infissi industriali.

Di seguito, un nostalgico omaggio di Marcello Gioia alle persiane di un tempo: per esigenze di funzionalità ma anche di risparmio le belle e solide persiane di legno del buon tempo antico tendono oggi a scomparire per essere sostituite dalle moderne tapparelle o da persiane di nuova concezione e costruite in materiali moderni che non sono proprio per questo motivo più le stesse.

E, ovviamente, lo scritto di Marcello Gioia che mette sul piatto della bilancia gli elementi nostalgici e del buon tempo antico a favore delle persiane fa guadagnare dei punti a questo tipo di imposta nell'arduo processo decisionale in cui dovesse trovarsi chi, avendo l'opportunità di scegliere, si trovasse impigliato nel dilemma tapparelle versus persiane

 

(Marcello Gioia) Provo compassione per tutti coloro che hanno abitato in una casa senza persiane ma con alle finestre ed ai balconi delle fredde serrande.

Non sanno cosa si sono persi.Le persiane erano discrete, romantiche, permettevano una certa gradualità in tutte le loro funzioni.

"Va, inserra le persiane" era l'ordine perentorio di mia nonna prima di andarsi a coricare.

Questo in pieno inverno perché - a partire dalla primavera sino al successivo autunno - le persiane non sarebbero mai più state inserrate, ma avrebbero assunto una posizione variabile a secondo della stagione, dell'ora del giorno e dall'uso che se ne intendeva fare.

La mattina venivano spalancate e questo in tutti i periodi dell'anno, poiché bisognava arieggiare la casa ed anche i materassi (rigorosamente imbottiti di lana di pecora).

Un ricordo struggente per me è quello dei pomeriggi estivi, quando le persiane venivano soltanto accostate con le stecche reclinate in basso (come le melanzane della parmigiana).

Per un effetto di luci ed ombre dal mio letto potevo vedere sul soffitto le ombre di chi passava per strada.

Spesso si trattava di carretti dei quali nella penombra della mia camera da letto e la ritmicità di quelle ombre sul soffitto si accordava con il suono ritmico delle ciancianedde agitate dal cavallo con i movimenti del suo collo.

Le stecche avevano poi la funzione di consentire di osservare quello che accadeva nel circondario senza essere visti.

C'erano vecchie signore per le quali questo era il loro unico svago.Passavano pomeriggi interi dietro gli scuri e si tenevano informate sui gossip del tratto di strada di loro competenza.

Nel palazzo di fronte casa mia abitavano due signorine ed una di queste era fidanzata con un professore del Liceo Garibaldi.

Quando dopo aver fatto visita alla sua fidanzata il professore se ne andava per tutta la lunghezza della strada sino all'angolo per il quale egli era costretto a girare la sua fidanzatina sporgeva una mano tra le due persiane e, senza mai mostrarsi, lo salutava sino alla sua scomparsa dietro l'angolo.

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14 gennaio 2015 3 14 /01 /gennaio /2015 20:26

La mamma e la resilienza

La mamma sbuffava sempre negli ultimi tempi, quando si doveva muovere da un punto all'altro.

Si vedeva palesemente che era affaticata e doveva sforzarsi, ma rifiutava ogni aiuto da parte di terzi.

Doveva fare da sola, come era stato in tutta la sua vita operosa.

Quando doveva sedersi in poltrona, o alzarsi da seduta, emetteva questo sbuffo di aria, ma nessuno doveva dire niente.

E questi sbuffi non avevano nulla di teatrale: scaturivano dalla fatica con cui doveva sostenere ogni movimento.

Eppure, sino alla fine, non si astenne dal fare autonomamente, né mai chiese aiuto.

Teneva duro e cercava di mantenere la propria indipendenza, anche se ciò le costava sforzi immani.

Insistette sino all'ultimo per spostarsi dal soggiorno alla cucina per i nostri pasti, anche se più comodamente per lei avremmo potuto mangiare in soggiorno, e - negli ultimissimi giorni - quando arrivava sino alla cucina, spingendo lentamente un carrello deambulatorio davanti a sé, era in affanno e letteralmente cerea in volto e, prima di poter iniziare a mangiare, doveva riprendersi.

Ma era la sua scelta, era questo che voleva.

La mamma era - ma non solo per questo modo di affrontare le sue ultime sofferenze terrene - il più puro esempio della "resilienza", o meglio di una forma di resistenza, in cui è sempre in opera un processo di adattamento e di trasformazione.

Quando mi sento affaticato per qualsiasi cosa, penso a lei e al suo coraggio. E, allora, la mia fatica si ridimensiona immediatamente e traggo nuove energie.

Pensare a lei e alla sua determinazione, assieme alla sua abnegazione, mi infonde coraggio, nell'affrontare i momenti di sconforto.

Grazie sempre a te, mamma, per l'esempio che mi hai dato.

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2 gennaio 2015 5 02 /01 /gennaio /2015 22:14

La scuola Giuseppe Pitré di Palermo: la mia prima scuola!

La mia prima scuola elementare fu la Giuseppe Pitré che frequentai per due anni.
La scuola oggi è ancora immutata e sulla facciata che si affaccia su via Damiani Almeyda, sul maestoso portale d'ingresso principale reca ancora la dicitura in lettere capitali - e non più attuale - di "Scuola comunlae G. Pitré".
Qui frequentai la prima e la seconda classe.

Venni iscritto qui perchè la scuola era a pochi passi dall'Alberigo Gentili dove la mamma insegnava e ciò la facilitava nel lasciarmi e nel prendermi.

Sembrava andare tutto bene, senonché all'inizio del terzo anno venne annunciato che la scula a causa di problemi strutturali avrebbe iniziato i dopi turni. Succedeva così che, a causa di una contrazione degli orari di lezione, io dovessi attendere a lungo che la mamma venisse a prendermi, in compagnia di altri allievi più grandicelli.

E durante l'attesa - secondo quanto mi raccontava la mamma - apprendevo cattive abitudine, giochini non proprio ortodossi e non confacenti con la mia età e soprattutto un linguaggio scurrile.

La mamma - e con lei mio padre - ritennero che questo andazzo non andava bene e che comprometteva il mio sviluppo educativo.

E fu così che, in quattro e quattrotto, provvidero ad iscrivermi al "Gonzaga", prima ancora che fosse finito il primo trimestre di quell'anno scolastico.

E così avviai la mia frequentazione del Gonzaga, con la Maestra Lo Giudice, cui subentrò in Quarta il maestro Vella.

Il mio inserimento all'inizio non fu semplice, dal momento che arrivavo in una classe di nuovi compagni ad anno iniziato.

Ma comunque ce la feci e fu così che cominciò un nuovo periodo, all'insegna dell'ordine, della disciplina e della preghiera obbligatoria nel più puro spirito pedagogico gesuitico, ma anche con lo sport e le ricreazioni all'aria aperta, cosa impensabile nella scuola precedente che era un severo edificio in stile fascista, senza nessuno spazio aperto disponibile.

Di quei due anni trascorsi alla scuola Giuseppe Pitrè, però, non ricordo nulla. 

Tuttavia, ogni volta che mi ritrovo a passare per questa strada di Palermo, non posso che pensare - con un vago senso di familiarità - che questo edificio è stato la mia prima scuola: e oscuri ricordi di giochi in cui dalla tromba delle scale osservavo i più grandi lanciare piccoli razzetti esplosivi verso il basso mi si affacciano alla mente come ombre indistinte.

E sento risuonare le risate di mia madre, quando rievocava quanto monello e irriverente fossi diventato in quei tre mesi allo sbando parziale.  

 

La scuola Giuseppe Pitré di Palermo: la mia prima scuola!

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20 dicembre 2014 6 20 /12 /dicembre /2014 06:14

L'evanescenza della memoria. Un ricordo delle mie prozie in parte dimenticatoRiproduco qui di seguito un mio scritto già pubblicato come nota nel mio profilo Facebook, qualche tempo fa.
La nostra memoria e, soprattutto, le radici del nostro essere sono radicate in noi, ma in parte dipendono anche da racconti tramandati da altri, che il più delle volte sono i nonni, i genitori, gli zii.

E' così che la nostra memoria si estende a ritroso nel tempo, diventando trans-generazionale.

Ed  é con questo meccanismo che,  in ciascuno di noi, si fonda il senso dell'appartenenza ad un phylum, ad un luogo, ad una dimora.

I nostri ricordi, soprattutto quelli scaturenti da esperienze affettive ed emozionali, sono in genere solidi, profondamente iscritti nel deposito della memoria a lungo termine, anche se non tutti immediatamente disponibili, pur essendo elicitabili grazie all'esposizione a eventi sensoriali che li attivano (basti pensare al citatissimo esordio della Recherche di Proust).

Altri - quelli tramandati da altri - sono più labili perchè non legati ad una corrispondente esperienza affettiva "vissuta": questi ricordi tendono a svanire e, per conservali nella loro integrità, dovrebbero essere trascritti.

Ma, quando potremmo farlo, in genere non lo facciamo.

Siamo presi dalla meraviglia di sentirci raccontare delle storie: "Nonna, raccontamente altre di queste storie" oppure "Raccontemela ancora", dicevo - instancabile e avido di racconti - alla nonna Maria quando la sera (quando eravamo da soli e questo capitava spesso, perchè mia madre era lontana in altre città assieme a mio fratello), entrambi seduti quietamente, lei semicieca per via di una forte cataratta,  mi raccontava le storie di guerra, quelle della loro esperienza di "sfollati".
Poi, quando la mamma ritornava, chiedevo a lei di raccontarmi le stesse storie e lei, pazientemente, me le diceva dal suo punto di vista, arricchendole di altri dettagli.

Ma quelle storie non le ho mai trascritte, quando - più grande - avrei potuto farlo.

Ho sempre aspettato e rimandato.

Pensavo: "Un giorno mi siederò accanto a mia madre e le chiederò di raccontarmi tutto per filo e per segno ed io lo trascriverò in un quaderno di appunti e i ricordsi saranno salvi".

Non l'ho fatto mai, perchè pensavo che, per questo, ci sarebbe stato tutto il tempo.In verità, l'esperienza mi insegna che non c'è mai abbastanza tempo e che quello che non fai oggi è perso per sempre, perchè - all'improvviso il tempo si è fatto stretto o addirittura non ce n'è più del tutto.

E quando ti sforzi di ricordare, ti rendi conto che la tua memoria ti tradisce e che tanti dettagli, che pensavi di possedere, ti mancano del tutto. E, tra l'altro, le persone su cui pensavi di poter fare affidamente per ocnsolidare ed arricchire i tuoi ricordi non ci sono più. 

 

Ma non voglio parlare qui di quei racconti di guerra che alimentavano la mia fantasia, quando ero piccino.

Attraverso una casuale conversazione ed anche per via del fatto che, in questi ultimi giorni, sono andato a visitare la casa dove un tempo abitavano le mie prozie, mi è venuta in mente una storiella dai risvolti comici riguardanti proprio loro e che mia mamma, con grande divertimento, rievocava spesso.

Le prozie Natalia e Irene (sorelle della nonna materna), vero prototipo delle signore d'altri tempi erano energiche e volitive e spesso prendevano decisioni impetuose sulla base delle loro soggettive valutazioni, animate a dire il vero dal desiderio di fare del bene (quei famosi racconti di guerra, cui accennavo prima, erano scaturiti appunto da una loro imperiosa decisione - che coinvolse anche la nonna e mia madre - di spostarsi in luoghi "sicuri" per sfuggire agli effetti della guerra in Sicilia: e finirono con il trovarsi nel bel mezzo della Linea Gotica).

Nel loro salottino ricevevano frequentemente altre signore e parenti e, davanti al classico the pomeridiano, passavano ore a conversare ambilmente.

A volte, da piccolo - ma delle due la zia Natalia era già morta da tempo - venivo introdotto dalla mamma e partecipavo compuntamente a queste riunioni salottiere, dedicandomi il più delle volte all'osservazione di alcune cineserie esposte in un bacheca, tra le quali delle figurine in ceramica vestite in kimono dai vivaci colori, accosciati nella posizione del loto, la cui testa ad un piccolo tocco cominciava ad oscillare avanti ed indietro, quasi annuissero (ogni tanto, somma meraviglia, mi era concesso di fargli oscillare la testina).

Entrambe le prozie avevano un alto senso delle convenienze, di ciò che si poteva dire e di ciò che andava invece taciuto. Mi raccontava la mamma che, allo scopo di evitare gaffe penose, avevano stabilito una sorta di parola d'ordine (neutra ed insignificante) che una delle due avrebbe dovuto introdurre nella conversazione per avvisare l'altra che stava dicendo delle cose sconvenienti o che si avvicinava pericolosamente ad una gaffe clamorosa.
Solo che - e qua arrivava la parte divertente della storia - spesso la destinataria del messaggio occulto si dimenticava della parola pattuita o non ci faceva caso, quando veniva pronunciata, perchè era già troppo infervorata nella conversazione, sicché l'altra era costretta a ripeterla, ma con un enfasi crescente, tale da attirare l'attenzione dei loro interlocutori proprio su ciò che doveva essere minimizzato o mimetizzato e tale da creare imbarazzo. 

Era divertente sentire il racconto della mamma che ricordava dei casi specifici intercorsi e che era in grado di riprodurre le parti più cogenti della conversazione: la mamma nel rievocare quegli episodi si diveriva molto, anche perchè quando una delle due non intendeva il messaggio convenuto, l'altra - oltre a dare più enfasi alla "parola d'ordine" si lanciava in una mimica e in un ampio corredo di ammiccamenti di supporto, ma invano.

Mi piacerebbe adesso aver trascritto il racconto di quelle comiche conversazioni, assieme ai commenti di mamma. 

Ma soprattutto - ed è questa stranamente la cosa che mi rammarica di più - non ricordo più quale fosse la parola convenuta che era di per sé comica e stonata.

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15 dicembre 2014 1 15 /12 /dicembre /2014 19:04

Letture estive e melanzane fritte

Quando ancora stavamo in Viale Regina Margherita, cioè sino ai miei 12 anni, d'estate non sempre era possibile andare al mare.

A Giugno - e per tutto il mese - la mamma era ancora impegnata con la scuola e papà lavorava.

Quindi, si stava a casa (io stavo a casa, perchè Salvatore durante la settimana, sino al venerdì sera, stava all'Ospizio Marino).

Ma la casa - con le sue due esposizioni - era ben ventilata, fresca e piacevole (e da piccolo mi piaceva molto stare a casa, con i miei giochi e con tutto il resto).

Per tutto il mattino i letti della nostra stanza stavano disfatti per far prendere aria ai materassi.

Spesso e volentieri, mi mettevo seduto sulla rete metallica (che si usava a quel tempo) con la schiena appoggiata al materasso (era di lana) ripiegato a quadrato (come doveva essere tenuto secondo il regolamento, "a cubo", nelle caserme, durante le ore del giorno).

Passavo ore a leggere le storie di Topolino (aspettavo sempre con ansia che uscisse il nuovo numero settimanale) e i romanzi di Salgari e di Verne (letti e riletti, alcuni sino a sette-otto volte).

Di quelle mattinate trascorse nell'ombrosa frescura di casa, ricordo i rumori alacri provenienti dalla cucina dove la nonna Maria e la fedelissima Marietta, la nostra governante a tutto servizio, si affacendavano per allestire il pranzo.

E ricordo ben vivido il profumo di frittura dei dischetti di zucchine o delle melanzane tagliate a tocchetti, per il condimento della pasta o di quelle a fette per la Parmigiana, oppure, ancora, quello di uno dei miei piatti preferiti che era uno stufato misto (ma preparato in padella) di peperoni e patate. E badate bene che, a quel tempo, gli ortaggi e i frutti erano tutti rigorosamente di stagione: oggi, con il mercato globale il concetto di "prodotto di stagione" si è perso definitamente. Ma in certi periodi dell'anno di alcuni tipi di frutta o di ortaggi non si sentive la mancanza: il fatto che quei prodotti sparissero dalla nostra tavola e poi vi ritornassero, ci dava l'impressione di vivere in un tempo che era governato da una ciclicità, all'interno di macrocicli più lunghi ed ampi.

Qualche volta, tra una lettura e l'altra, facevo un rapido blitz in cucina per rubare qualche piccolo assaggio e la nonna tollerava queste incursioni senza sgridarmi.

Qualche volta, quando mi stancavo di leggere, architettavo qualcuna delle mie monellerie (che poi i racconti di mia madre ai parenti resero mirabolanti  e "celebri", degne di Gianburrasca): d'estate uno dei miei "scherzi" preferiti era quello di infilare pezzi di ghiaccio nel collare del grembiule della signora che lavorava da noi di mattina. Ed ero deliziato nel sentire le sue grida di disappunto, quando sentiva il freddo a contatto della pelle...

Proprio a partire da giugno, sul davanzale della finestra del corridoio, c'era sovente un cesto  pieno di pesche montagnole che sprigionavano il loro profumo. Prima ancora a maggio, occhieggiava su quel davanzale, un bel cesto di ciliegie. Sullo stesso davanzale, c'era - coperta da un panno, per mantenerla fresca e proteggerla dalla polvere - una caraffa piena d'acqua fresca per chi volesse dissetarsi.

Affacciata alla finestra che affacciava sul cortile interno, posta specularmente di fronte alla nostra, la prozia Irene si affacendava con il suo "frigorifero" estivo che era una cassettina di legno appesa al davanzale e dove,  grazie all'ombra perenne, la temperatura si manteneva fresca anche nei giorni più assolati. Qui, lei teneva gran parte della frutta estiva (mentre - d'inverno - la stessa cassettina di legno funzionava come ghiacciaia pensile per il burro ed altri alimenti deperibili).

Ma noi già da qualche tempo - seguendo l'onda della modernità - avevamo acquisito il nostro primo frigorifero (uno con lo sportello tutto bombato, senza il freezer come lo intendiamo noi oggi, ma soltanto con un piccolo scomparto dove si potevano ottenere con le apposite formelle i ghiaccioli). Si trattava del mitico Frigorifero Fiat, prodotto dalla Fiat negli anni Cinquanta su licenza dell'americana Westinghouse, di cui ben pochi (a parte quelli della mia età) hanno ancora un ricordo.

E pertanto con l'arrivo del frigo (che con una certa affettazione esterofila veniva anche chiamato "frigidaire", alla francese) avevamo rinunciato alla tradizionale ghiacciaia, funzionante d'estate grazie alla barra di ghiaccio che ci veniva consegnata a domicilio ogni due o tre giorni.

Insomma, cose d'altri tempi...

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25 novembre 2014 2 25 /11 /novembre /2014 18:23

Quelle vacanze estive a Capo Zafferano: bei ricordi che riaffiorano attraverso un sogno

(Maurizio Crispi) Per anni, a partire da quando la mamma ancora insegnava, andavamo a passare i mesi dell'estate nella casa di Capo Zafferano (oggi "Contrada Urio", nel territorio del comune di Santa Flavia). In genere ci spostavamo quando la mamma era libera dagli mpegni scolastici (cioè una volta finiti gli scrutini e, eventualmente, gli eaami) e quando Salvatore aveva finito di occuparsi dei suoi impegni in materia di disabili.
Poi, con la pensione della mamma, era in linea di massimo Salvatore a dare l'OK per il trasferimento.
Nei primi anni, poiché ancora non lavoravo in pianta stabile io ero una presenza costante - a parte le parentesi dei miei viaggi estivi - poi con il lavoro nell'Azienda sanitaria - e la necessità di sottostare all'obbligo di periodi limitati di ferie - la mia presenza si è rarefatta.
Ma sempre sin dall'inizio davo una mano per il trasferimento sia all'andata che al ritorno, ad eccezione che per il primo anno che fu il 1975: in quell'estate, dopo la mia laurea (conseguita a luglio) io ero partito per un lungo viaggio che sarebbe durato circa due mesi e loro andarono da soli (con qualche disavventura, quando - ad esempio - scoprirono durante un temprale estivo che il tetto non era a tenuta e che pioveva in casa).
Benché la casa di Capo Zafferanno fosse in linea di massima attrezzata, c'era da spostare lenzuola, asciugami, indumenti ed effetti personali vari, utensili da cucina (la mamma non voleva che le mancasse nulla), carte e documenti, in modo da avere sempre tutto sottomano.
Una volta a Capo Zafferano la mamma non avrebbe avuto molte possibilità di muoversi, soprattutto negli ultimi anni.
Il trasferimento aveva una valenza quasi epica e il carattere di una manovra militare, con una strategia accuratamente pianificata, compresa anche una mega-cucinata il giorno del trasferimento in modo tale da avere del cibo già pronto nei primi giorni di permanenza e, soprattutto, per la prima cena,con un margine di sovrappiù per eventuali opsiti in visita (che non mancavano mai, con grande piacere della mamma).
Già, perchè bisognava mettere nel conto anche le operazioni di chiusura e di messa in sicurezza della casa di Palermo.
Il trasferimento avveniva solitamente con due macchine. Nella mia caricavo tutte le masserizie (incluse delle derrate alimentari che sarebbero state utili nei primi giorni di permanenza)
Seguiva con la sua auto la mamma con Salvatore (compresa la carrozzina che andava caricata pe rultima) e le cose più minute e quelle dell'ultim'ora, cose che la mamma - imperiosamente - voleva avere sottomano.
Quelle vacanze estive a Capo Zafferano: bei ricordi che riaffiorano attraverso un sognoIo, dopo aver caricato le due macchine (mi spettava il lavoro pesante, muscolare -e lo facevo ben volentieri), partivo per primo, in modo da arrivare con un largo anticipo per poter aprire la casa e - per così dire - metterla in funzione. C'erano i rubinetti dell'acqua da aprire, c'era da rendere funzionante la cucina (aprendo le bombole del gas, situate all'esterno), c'erano da sistemare fuori nella terrazza, tavoli, ombrelloni e sdraio.
Tempo che la mamma e Salvatore arrivano io, lavorando indefessamente, avevo quasi portato a termine le mie incombenze, sudando copiosamente, poichè era tempo d'estate..
Sì, di questi giorni, ricordo in primo luogo le grandissime sudate cui mi sottoponevo con piglio salutistico e con lo stesso impegno che avrei messo in un'attività sportiva: era un lavoro che rappresentava la parte "pesante" del trasferimento e che andava fatto. Ed io ero orgoglioso di farlo: era il mio contributo alla vacanza di mamma e Tatà- e nei primi anni anche alla mia -.
Nei primi anni stavo con loro praticamente a permanenza e scendevo di rado a Palermo, perchè ancora - dopo la parentesi militare - non avevo avviato un'attività di lavoro in pianta stabile. Di queste estati ho un bel ricordo, anche se proprio in quel periodo frequentavo poche persone e non avevo una ragazza.
Avevo da poco cominciato a correre, ma la decisione di afforntare la prima sfida di maratona era ancora ben lontana: forse non era nemmeno entrata nelle mie fantasticherie. Mi limitavo a fare soltanto qualche corsetta non finalizzata a nulla di particolare, a spingermi soltanto la voglia di tenermi in forma, ma soprattutto mi dedicavo per ore alla ginnastica, nuotavo di frequente, andavo in canoa e poi facevo lunghe passeggiate sulla scogliera, sul monte e sino al Faro, affascinato da quello scenario naturale selvatico, dal volo dei gabbiani e dal frangersi delle onde sulla riva di rocce.
La sera dopo cena, spesso, mi distendevo su di muretto a guardare le stelle, assaporando la pace e il silenzio. E questo prima della grande invasione della contrada dove eravamo da parte di costruttori fuorilegge di palazzine cementitizie, all'arrembaggio in attesa del prossimo condono.
Quelli delle prime vacanze a Capo Zafferano furono periodi di grande unità familiare per noi: diciamo pure che, all'incirca, fu il primo decennio dopo la morte di papà.
Nel corso degli anni, la mia presenza a Capo Zafferano prese a rarefarsi: andavo a trascorrere con loro dei periodi limitati, massimo una settimana o 15 giorni e poi ci andavo volentieri nei fine settimana. Ma,d'altraparte, a volte loro avevano altri ospiti: e per anni vennero per un buon periodo di tempo dalla sardegna Mària che in un passato ormai lontano era stata la governante della prozia Irene - sino alla sua morte - e il marito Gavino.
Le estati a Capo Zafferano videro tutte le mie diverse vicissitudini sentimentali, negli alti e nei bassi.
E la mamma, paziente, era sempre accogliente e benevola.
Nei primi tempi della separazione, passavo i fine settimana sempre con loro e anche quelli in cui ero con Franceschino e per la mamma era una gioia poterlo vedere e seguire i suoi progressi.

Malgrado le mie presenze fossero sempre più sporadiche, ero sempre pronto a dare il mio contributo per i trasferimenti in andata e in ritorno.
Quelle vacanze estive a Capo Zafferano: bei ricordi che riaffiorano attraverso un sognoNel 2004 tuttavia la mamma rinunciò definitivamente alla vacanza a Cao Zafferano, con suo grande rammarico. Non si sentiva più in forze per trascorrere dei periodi da sola con Salvatore.

E, in più, si sentiva troppo isolata.
E fu così che si concluse un'era che per la mamma ebbe un significato particolare, perché attraverso la casa di Capo Zafferano, le piante che avevamo messo a dimora, le piccole coltivazioni, il profumo dei fiori, l'osservazione dei cicli delle fioriture (e tra gli alberi da fiore che prediligeva c'erano gli Hibiscus) aveva ritrovato la gioia e la spensieratezza dei suoi di anni di gioventù nell'anteguerra quando tutta la famiglia Salatiello si trasferiva nella casa che il nonno Giosuè aveva comprato a Capo Gallo (Mondello) e successivamente di quelli del dopoguerra e dei nostri primi anni (ho tanti vivissimi ricordi delle estati trascorse in quella casa, quando ero ancora piccolino).
Ecco cosa ho sognato questa notte.
Mamma e Salvatore ritornavano da una loro permanenza a Capo Zafferano ed io ero andato avanti nella casa di Palermo.
Ero in compagnia di una mia vecchia amica.
E aspettavo che arrivassero, dedicandomi nel frattempo ad aprire serrande e finestre e ad arieggiare le stanze.
Mi accorgevo che non ero da solo: infatti, c'era Salvatore, ma era da solo ed era all'interno di una piccola stanza quadrata vicina all'ingresso di casa (non esistente in realtà, o meglio - se esistesse - sarebbe uno sconfinamento nell'appartamento che occupo io).
Era in carrozzina e leggeva un giornale poggiato su un pavimento davanti a lui.
Nella stanza non c'erano mobili, soltanto tappetti e cuscini.
Arrivavano due signore, una giovane ed una anziana, specificatamente in visita per mio fratello, per interpellarlo - come sovente accade - per qualche faccenda riguardante l'handicap.
Le introducevo alla sua presenza, chiedendomi come mai la mamma stia tardando ad arrivare.
Ma poi caspico che è già arrivata, solo che ha lasciato mio fratello ed è uscita di nuovo in tutta fretta per fare un po' di spesa.
Infatti, la porta di servizio, nella premura di andare, l'ha lasciata spalancata.
Mi affaccio sul pianerottolo e c'è il signor Giacomo che sale con andatura lenta di chi ha a disposizione un tempo eterno per lasciare all'ingresso un enorme fascio di posta e di plichi, arrivati durante la nostra assenza.
Capisco che mia madre tornerà di lì a poco e vado alla ricerca della mia amica per scoprire con un certo imbarazzo che si è addormentata scompostamente sul letto di mamma.
La sveglio senza delicatezza, le dico che è tempo per lei di andare e lo do un bacio sulle labbra, ma è come baciare un muro.
L'amica se ne va e, quando io ritorno in cucina, ecco la mamma che rientra dalla porta di servizio.
E' lei, ma reca su di sè i segni del tempo: la pelle del suo volto è vizza ed incartapecorita, percorsa da un fitto reticolo di rughe. Cerco come al solito di baciarla sulla guancia, ma lei si ritrae, come se avesse vergogna dello stato della sua pelle. Eppure, per me non c'è nessuna differenza: é la mia mamma di sempre!
In cucina, intenti al lavoro ci sono uno dei miei cugini Crispi e la zia Silvana e stanno rpeparando qualcosa da mangiare: una cosa insolita, ma sono benvenuti.

Il sogno mi ha lasciato in uno stato d'animo di contentezza e di gioia, per aver ritrovato delle memorie dentro di me,memorie che per qualche tempo si erano spentee che ho sentito l'esigenza di rievocare.





 

Vedi anche su questo blog, sui ricordi relativi a Capo Zafferano:

In morte di un cane

 

Il piccolo tesoro di Franci, dimenticato e ritrovato

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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