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15 settembre 2017 5 15 /09 /settembre /2017 09:19
La carta igienica, presidio oggi irrinunciabile

La carta igienica è oggi elemento essenziale dell'igiene defecatoria, salvo che non si voglia ripiegare sulle usanze del contadino di un tempo (pietra ed erba; i più raffinati carta di giornale e quelli ancora più esigenti la carta velina con cui, un tempo, veniva avvolto il pane nei panifici e nelle rivendite di pane e che- per evitare sprechi - veniva indirizzata a questo uso.
Anche se non ci si pensa più, perché si è portati a ritenere che la carta igienica in rotoli abbia sempre fatto parte del nostro panorama degli oggetti utili e "comodi" (e, secondo gli slogan pubblicitari, anche carezzevole per le nostre terga), questo così importante e ormai ineliminabile "presidio" della nostra igiene personale post-"ineludibile bisogno" è arrivata con gli Americani nel dopoguerra (nella seconda metà secolo scorso). Ma all'inizio era solo un lusso per pochi...: la prima nazione europea ad utilizzarla come prodotto industriale fu il Regno Unito nel 1942: poi divenne un prodotto popolare, simbolo dell'American Way of Life, diffussisimo e must immancabile in tutte le case, grazie anche ad una martellante pubblicità (i famosi "venti piani di morbidezza" per citare uno dei tanti slogan imperanti).
Ricordo che, quando ero piccino, nei lunghi pomeriggi, in cui c'era poco da fare (le grosse faccende domestiche si sbrigavano la mattina) la nostra governante Maria - ma per tutti noi "Marietta" secondo il decreto delle prozie che non volevano si facesse confusione con il nome della nonna Maria -  (si trattava di un'anziana signora, che vestiva come una befana, capelli grigiastri sopposi, totalmente edentula, sicchè il mento tendeva ad unirsi al naso adunco, ma sempre affettuosissima e devota verso di me) si sedeva al tavolo della stanza da pranzo e, ripiegata in due, perchè non ci vedeva bene, con le forbici strette a fatica nelle mani ritorte, ritagliava pazientemente la carta velina che avvolgeva il pane e che, giorno dopo giorno,veniva conservata parsimoniamente (all'insegna del Verbo imperante nelle famiglie italiane del dopoguerra, secondo cui "nulla doveva essere buttato"). Poi quei fogliettini di dimensioni irregolari (ma non troppo) venivano appesi in bagno ad un gancio ricato da un filo di ferro ripiegato, pronti per l'uso.
Un'altra attività pomeridiana della Marietta dei miei ricordi era quella di fabbricare i "chiacchi" per stendere la biancheria, utilizzando i lazziteddi che legavano il pane avvolto nella sua carta velina. Ma questa è un'altra storia...

Anche nei raduni podistici la carta igienica è divenuta un presidio irrinunciabile... Anche se in corso di gara non mancano i podisti che riccorrono a tecniche di igiene post-defecatoria arcaiche (passtorali et similia), come anche si mostrano esuberanti nello sputo grasso ed abbondante e nella soffiata di naso "alla maniera del contadino"

Anche nei raduni podistici la carta igienica è divenuta un presidio irrinunciabile... Anche se in corso di gara non mancano i podisti che riccorrono a tecniche di igiene post-defecatoria arcaiche (passtorali et similia), come anche si mostrano esuberanti nello sputo grasso ed abbondante e nella soffiata di naso "alla maniera del contadino"

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24 gennaio 2017 2 24 /01 /gennaio /2017 10:03
A testa alta alla meta

La mamma un giorno mi disse...
In uno dei suoi ultimi giorni la Mamma mi chiese scusa.
"Scusa per cosa?" - le chiesi.
"Ti chiedo scusa - replicò - per tutte le volte che ti ho trascurato per occuparmi di più di tuo fratello, per tutte le volte che non ti ho ascoltato quando avresti voluto parlarmi...".
Io, conciliante, le dissi: "Ma no, mamma! Cosa dici! Non ti devi scusare di nulla. Hai fatto sempre il meglio e Salvatore ha sempre avuto più bisogno di me di cure e di attenzioni".
Dissi così, anche se in cuor mio sapevo - e so - che a causa di mio fratello portavo dentro di me di una grande ferita emozionale, che nel corso degli anni mi era stato possibile lenire, ma mai far guarire del tutto. Quanto volte ero entrato con entusiasmo a casa loro per raccontare una cosa bella che mi era appena accaduta e mi ero dovuto ritrarre accigliato e affranto, perchè erano occupati a fare qualcosa di importante: una delle tante cose di cui mio fratello si occupava con assoluta dedizione e in cui trascinava mia madre, sempre accanto a lui!
Ma alla mamma non dissi nulla, perchè non volevo che dovesse portare negli ultimi giorni il fardello del mio scontento e della mia delusione.
A questo punto la mamma continuò: "Con tuo padre abbiamo tentato diverse strade. All'inizio avevamo deciso che avremmo fatto soltato quello che potevamo fare tutti assieme.
Ma, man mano che Salvatore cresceva e aumentavano le difficoltà nel gestire la sua disabilità, ci siamo anche resi conto che avremmo dovuto escludere troppe cose e che, quindi, tu ne avresti sofferto, ne saresti stato troppo penalizzato. Quindi, abbiamo cominciato a decidere di fare delle cose appositamente misurate per te. Ed è così che è cominciato la stagione dei nostri viaggi assieme: Papà rimaneva a casa con Salvatore e noi due partivamo assieme, o viceversa
" (anche se le occasioni in cui sono partito con papà. io e lui da soli sono state rarissime, forse giusto un paio).
"Ma per il resto, dovevate avere le stesse cose - aggiunse - libri giornaletti, giochi, ognuno secondo le proprie preferenze, ma sempre in modo egualitario".

La mamma mi chiese scusa, quella volta: e forse sarei dovuto essere io a chiedere scusa per tutte le volte che, una volta cresciuto, ero fuggiro e mi ero appartato da loro, seguendo le mie vie.
Nino Salvaneschi, Breviario della Felicità, Corbaccio, 1940

Mettendo ordine nella stanza della mamma e riorganizzandola, ho trovato di recente proprio in uno scomparto del suo comodino due piccoli volumi: uno era un'edizione di Siddharta di Hermann Hesse, l'atro un esile libricino di Nino Salvaneschi, dal titolo "Breviario della Felicità" (Casa editrice Corbaccio, 1940). Quest'ultimo, in particolare, si presentava usurato da una lettura costante e assidua, alcuni passaggi segnati con tratti di matita.

Sfogliandolo, ho pensato che queto volumetto avesse potuto essere per la mamma una sorta di guida spirituale.
Le date sono importanti. Salvatore nacque nel 1947 e solo dopo qualche mese dalla nascità papà e mamma ebbero contezza del problema neurologico di mio fratello; forse la mamma possedeva già quel volume, oppure si trovo a comprarlo successivamente alla nascita di mio fratello, quando brancolava alla ricerca di un appiglio per potere sostenere il dolore di avere un figlio con una malattia (e la speranza di una cura - e di una possibile guarigione - animò a lungo entrambi i miei genitori che intrapresero viaggi alla volta di santuari dove agivano i luminari della neurologia di quel tempo e lunghe permanenze alla ricerca di un'impossibile cura).
Ho provato diverse volte ad immaginare lo stato d'animo dei miei genitori di fronte al deficit neurologico di mio fratello e alla constatazione che malgrado tutti i tentativi non ci sarebbe stata una cura possibile, considerando i miei di stati d'animo relativi a mio fratello (intrisi di dolore, di costernazione per l'impossibilità per lui di avere una vita normale e di desideri e sogni impossibili: spesso mi ritrovavo da solo chiuso in bagno (o in un altro luogo appartato di casa) a piangere per lui - sì, lo dico senza vergorgnamene - e riflettevo costantemente sul fatto che loro non s'erano mai piegati, nemmeno per un istante, affrontando tutte le difficoltà e la cattiva sorte a testa alta, come se - quasi in un rovesciamento paradossale del senso comune - avessero ricevuto un dono che li avrebbe indotti al cimento e a dare il meglio di se stessi, ad essere migliori.
Ambedue accettavano il loro fardello e non si sono mai piegati sotto il suo peso, mantenendo sempre un'attitudine positiva.
Mia madre, poi, sino all'ultimo.
Quando stavamo in una casa senza ascensore, sino ai miei 12 anni, quando si trattava di uscire, mio padre semplicemente si caricava mio fratello sulle spalle e lo portava giù sino all'auto: e non accettava l'aiuto di nessuno. Era suo quel fardello, non di altri. Ma c'era della gioia in quello che faceva, come se portare il fardello fosse un dono ricevuto e uno stimolo ad essere migliore, più forte.
Ma nello stesso tempo, i miei genitori mi hanno insegnato che in una situazione simile il fardello da portare con gioia e senza alcun senso di costrizione è di tutti, deve essere condiviso - e non può che essere così.

Nino Salvaneschi (1886-1968), giornalista di una certa fama nell'immediato dopoguerra, per alcuni scritti soprattutto quelli elaborati nel corso di una lunga malattia e quelli scaturiti dalla successiva esperienza di una cecità sopraggiunta, divenne - senza volerlo - un maestro spirituale a metà tra il cristianesimo e il buddhismo che cercava di insegnare la ricerca della felicità in mezzo alle difficoltà, ai tormenti, alla malattia.
E credo che la mamma abbia trovato in questo libretto di pensieri ed aforismi una guida e un supporto nei primi anni della costituzione della sua nuova famiglia e di vita di mio fratello, ma anche un aiuto per lenire il forte dolore di fronte alla consapevolezza ineludibile della malattia di mio fratello.
Voglio citare qui i paragrafi finali del libro; secondo molto significativi per comprendere a fondo la vita e le opere di mia madre:


"Credo che nella traversata della vita le sventure siano le isole alle quali temiamo di approdare; ma se vi siamo sospinti dal vento del destino e se sappiamo, nella nostra lieve sfortuna, vedere un pallido riflesso del dolore rigeneratore del mondo, le isole della sventura saranno le isole azzurre del nostro breve viaggio.
(...)
Forse la felicità è ancora un peccato d'orgoglio, ma chiunque tu sia, a qualunque punto della tua vita tu sia giunto, qualsiasi cosa costi, questo solo conviene rammentare: bisogna giungere a fronte alta alla propria meta
" (ib., p.110).

 

Credo che la mamma abbia sempre cercato di conformarsi a questo positivo orientamento, quello di volgere le sventure in piccole isole di azzurro e in approdi nei quali comunque si potea trovare la felicità, a testa alta, senza auto-commiserazioni.

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29 dicembre 2016 4 29 /12 /dicembre /2016 07:05
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria
Una giornata a Capo Zafferano, luogo della nostalgia e della memoria

(Maurizio Crispi) Domenica 27 novembre, rifuggendo dalla consueta routine fotografica delle solite e sempre eguali gare podistiche locali, mi sono ritrovato a trascorrere quasi un'intera  giornata  a  Capo Zafferano: malgrado la pioggia violenta della notte, una giornata di caldo e sole, che mi hanno spinto a scendere a mare, benchè avessi delle faccende da sbrigare.
Dapprima, mi sono soffermato sulla spiaggetta del "Lido del carabiniere", del tutto deserto: ma poi ho  - sentendo il desiderio di muovermi in un'atmosfera che prefigurava il ritorno all'estate (benchè fossimo a novembre), ma senza il caos e la baraonda dei gitanti al mare ho deciso di affrontare una passeggiata verso il Faro, dove non andavo da circa un secolo.
La cappella di Capo ZafferanoMentre mi ero avviato da poco, by-passando il tratto iniziale della stradella che era stato allagato dalla pioggia recente (non volevo bagnarmi i piedi: e qui confesserò che non possiedo quella voluttà in ciò che è tipica del provetto trailer) prendendo dalla scogliera, ho intravisto il mio amico Roberto Magnisi (ambiente runner) che portava in passeggiata il cane di famiglia (lui e Lara li avevo poco prima incrociati sulla strada asfaltata al termine della loro corsa di allenamento e, lì per lì, avevamo scambiato quattro chiacchiere (ma non di corsa, tengo a precisare: con loro si può sempre parlare di tante cose diverse).
Quindi, prendendo vantaggio da questo reiterato nuovo incontro, entrambi in compagnia dei rispettivi cagnoli, abbiamo deciso di proseguire assieme la passeggiata. Gli ho raccontato alcune delle mie memorie del periodo in cui ogni anno a partire da qualche tempo dopo la morte di mio padre venivamo qui in villeggiatura: e gli racconto delle mie frequenti escursioni al Faro oppure sino alla cima della montagna, seguendo una vecchia mulattiera militare che a zig zag, facendo dei gomiti strettissimi, si inerpicava sino alla cima.
Arrivati alla cappella, aggettante sul mare, in una posizione stupenda, ci siamo fermati sul piccolo belvedere delimitato da una ringhiera di ferro battuto a contemplare il paesaggio.
Il nostro sguardo si  è disteso con facilità verso l'orizzonte che pareva infinitamente lontano e dilatato: Il mare e il cielo erano tanto azzurri da far male agli occhi.
Una barca a motore fendeva la superficie d'acqua tranquilla non turbata da una bava di vento, lasciando al suo passaggio una traccia di spuma bianca che persiste a lungo come una cicatrice.
La piccola cappella è stata intonacata di recente di bianco, un bianco, anch'esso accecante nel sole, che si può vedere soltanto in alcune isole della Grecia.
Il nostro sguardo si è volto alla montagna e ho detto a Roberto che mi sono sempre chiesto se da qui, salendo sulla scarpata, vi fosse un possibile passaggio verso l'altro versante
E Roberto mi ha preso di contropiede, dicendomi all'istante: "Andiamo a vedere!". E così eccoci ad inerpicarci sulla parete del monte, una pendio piuttosto scosceso, praticabile ma ripido e accidentato, pieno di massi, di fitti cespugli di disi, di arbusti troppo cresciuti e dai rami pungenti, di buche inaspettate..
Malgrado le difficoltà, abbiamo continuato ad ascendere, passo dopo passo e al nostro sguardo si è andata aprendo la vastità immensa dell'orizzonte.
Mentre noi sgobbavamo i cani si divertivano e ci precedevano ansimando con allegrezza, talvolta imboccando percorsi per loro non agevoli e facendo retromarcia per imboccare una strada più percorribile.
Sul monte...Ma poi, alla fine, Roberto ha avvistato (per tempo, per fortuna) un nido di vespe e qualche sentinella alata in perlustrazione: la discesa è stata precipitosa.
Rudely interrupted! Ma ho il sospetto, guardando la conformazione del monte, che arrivati al ciglio della scarpata, dove si poteva immaginare un possibile punto di aggiramento (ma senza averne la certezza) ci saremmo trovati dai piedi di un muro di roccia invalicabile. Ma è pur vero anche che le cose bisogna anche andare a vederle, per convicersene di persona. Ed anche, come dice il noto proverbio: tentar non nuoce...
La nostra impresa è così rimasta a metà: il suo compimento sarà per una prossima volta. Con la montagna rimane un conto aperto...
Ma è stato un bel provarci.
Dopo questa mezza impresa, ma contenti per aver raccolto il cimento, io e Roberto ci siamo congedati per riprendere ognuno la sua strada, lui per casa, io per la spiaggetta dove ho potuto godere un meritato riposo, crogiolandomi al sole.
Al ritorno al villino, mi è rimasto da fare il lavoro che avevo soltanto dilazionato.
Quando ho finito con i miei doveri contadineschi, sono ripartito per Palermo, ricevendo in  premio lungo la via del ritorno alcune straordinarie vedute del Golfo di Palermo all'imbrunire, sovrastato da possenti coltri di nubi che si coloravano del tramonto, dal punto di osservazione privilegiato che è il borgo marinaro de L'Aspra
Capo Zafferano è per me un luogo dei ricordi: che, tuttavia, per me non sono d'infanzia,  ma un po' più recenti, perchè abbiamo cominciato a passare le estati a Capo Zafferano  (oggi, nella toponomastica, Contrada Urio) solo attorno al 1975 per poi mantenere questa consuetudine sino al 2004 circa, quando la mamma non si è più sentita di stare per giorni interi sola con mio fratello... visto che io potevo andarci solo nei fine settimana (e non sempre).
Ma ora quei tempi si sono rinverditi, per fare vivere la casa ho cominciato ad accogliere (ancora occasionalmente) degli ospiti e, quindi, per i check-in e -out sono costretto ad andarci di continuo, oltre che lavorarci attivamente per tenere tutto in ordine.
In ogni caso, per me, questa casa (e i luoghi che la circondano) sono un posto della nostalgia, poichè il periodo più intenso della sua frequentazione per me è stato quello collocabile  in quella terra di nessuno tra la fine degli studi universitari e l'inizio di una vera ed intensa attività lavorativa, in procinto di attraversare quella conradiana "linea d'ombra", tra l'adolescenza spensierata e l'adultità con la prime e dolorose assunzioni di responsabilità...

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26 dicembre 2016 1 26 /12 /dicembre /2016 09:05
Ricordando l’amico Enzo e la fondazione di un “Enzo Cordovana Day”

(Maurizio Crispi) Il  17 novembre 2016, a poco più di un mese dalla dolente scomparsa di Enzo Cordovana, presso il Servizio Psichiatrico (SPDC) dell’Ospedale di Termini Imerese, ha avuto luogo un incontro tra colleghi di lavoro, amici e i parenti più stretti, per ricordarne la figura. Al termine, è stata scoperta una targa commemorativa che i colleghi di lavoro hanno voluto, proprio per mantenerne la memoria nello spazio di ingresso al Servizio.

A turno, colleghi e amici hanno voluto ricordarlo: creando, così, un ritratto complesso e sfaccettato: sicuramente più complesso di quello che ciascuno possedeva prima dell’incontro.

Nella vita, specie se i nostri ambiti di interesse e le nostre passioni sono multiformi, abbiamo molte diverse anime e di noi offriamo al nostro interlocutore una sfaccettatura differente o soltanto alcune. Ma non perché si voglia nascondere qualcosa: soltanto perché è più naturale così offrirsi in funzione di ciò che accomuna, preservando altri ambiti di esperienza che saranno condivisi in modo privilegiato con altri.
La memoria di chi non è più si costruisce attraverso il racconto: il racconto silenzioso che facciamo a noi stessi, quello che facciamo ad altri oppure ancora quello che, a nostra volta, riceviamo da altri: ed è così che chi non è più rimane nella nostra mente - e nel nostro cuore - vivo e palpitante.
Ricordo la sorpresa e la gioia, pur nel dolore, quando poco dopo la morte prematura di mio padre, persone che lo avevano conosciuto in ambiti diversi, arrivavano e raccontavano di lui cose diverse che gettavano una luce differente e più chiara su di lui e la completavano: la funzione consolatoria delle visite nelle circostanze luttuose deriva dal fatto che si parli della Vita e non della Morte..
Della memoria abbiamo la necessità per elaborare il lutto, per mantenere vivi i nostri cari che ci hanno lasciato e per preservarli dall'azione corrosiva delle nebbie del tempo. E’ un fatto inoppugnabile che il cimento maggiore di fronte ad un evento di morte è l’acquisire la consapevolezza che noi che siamo rimasti non potremo più vivere nella mente e nel cuore di chi ci ha lasciati (ed è questa l’essenza del lavoro del lutto): ed è così un pezzetto di noi a morire (qualcosa che si continuerà a presentare in noi come una insopportabile mutilazione, un manque (per dire lo stesso concetto con la significativa parola francese), una ferita destinata a lasciare una permanente cicatrice; mentre viceversa - quasi per un paradosso - chi non c’è più continua a vivere nel nostro ricordo che, come ho detto, si costruisce attivamente attraverso il racconto. Il dogma é che un Uomo vive nei racconti che di lui si possono narrare e che possono essere tramandati.
Enzo è stato marito, padre di famiglia affettuoso, stimato medico pschiatra dotato di grandi risorse di umanità, uomo di aperture letterarie e poeta in rima, amante dei calembour e ricco di capacità di ironia (l’ironia è una delle più grandi risorse nell'affrontare le difficoltà del vivere), grande tifoso della squadra di calcio di Palermo (come ho scoperto, non se ne perdeva una), appassionato di musica ed egli stesso capace di suonare il piano, sportivo pronto ad affrontare sempre nuove esperienze, uomo odisseico nel suo desiderio - in questo ambito di attività - di confrontarsi con il limite (e, in questo ambito, velista appassionato, karateka, canoista): ma semprein una maniera soft e, all'insegna del principio della "lentezza", come filosofia di vita che porta a godere delle cose, più che ad divernine schiavi; in definitiva, curioso delle possibilità e delle opportunità che la vita potesse offrirgli.
Ognuno,in questocarosello di attività, di interessi e di passioni, lo ha conosciuto parcellarmente, solo alcuni hanno avuto il privilegio di conoscerlo a pieno campo.
Il senso di questo incontro del 17 novembre, è stato proprio quello di ricomporre assieme alcune di queste sfaccettature, oltre che avere un momento di incontro e di condivisione. Come ho voluto rimarcare nel titolo del mio post, è stato il momento fondante di un “Enzo Cordovana Day” che sinceramente spero possa ripetersi in futuro, poichè sonocerto che molti altri avranno ancora da raccontare molte cose su di lui

Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.
Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.

Enzo alla sua prima partecipazione alla 100 km del Passatore... Io, in fondo, fui il suo padrino in questo, anche se poi fu proprio Enzo a darmi nuova energia nelle mie avventure di corsa. In quell'edizione della sua prima volta, lui completò la distanza e io invece mi ritirai.

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12 novembre 2016 6 12 /11 /novembre /2016 11:26
(foto di Maurizio Crispi)

(foto di Maurizio Crispi)

(Maurizio Crispi) Forse, in questi tempi moderni in cui viviamo - nei paesi occidentali almeno - nell'era dell'acqua corrente nelle case - tendiamo a considerare l'acqua (sia potabile sia corrente) come un'acquisizione scontata e quasi non ci accorgiamo più delle fontane, delle fontanelle e dei fontanili che un tempo punteggiavano i percorsi in campagna e che si ponevano come importanti "segnalibri" il territorio urbano.
Le fontane nelle cittadine e nelle città avevano un'importante funzione - così come i lavatoi pubblici di cui è ancora possibile le tracce in alcuni contesti (vedi ad esempio i lavatoi medievali di Cefalù) - sia per quanto riguardava l'approvvigiamento idrico per gli usi domestici sia per l'igiene personale, sia sul posto sia attraverso appositi collegamenti con i bagni pubblici.
L'acqua nell'antichità è stata sempre un patrimonio comune ed inviolabile. Ed era precisa dovere dei potenti, dei governanti e degli amministratori fare sempre in modo che il popolo avesse a disposizione l'acqua.

La Fontana di Palazzo Adriano, in Piazza Umberto I (foto di Maurizio Crispi)Anche nelle campagne l'acqua era libera e i percorsi seguiti dai contadini e dai pastori erano punteggiati di bevai e fontanili, spesso costruiti laddove vi fossero delle sorgive natuali le cui acque venivano poi convogliate e irregimentati per provvedere alle necessità - anche irrigue - di parti più consistenti del territorio.
Anche in questi casi, nulla era dovuto: ognuno prendeva ciò che gli serviva in modi "sostenibili", nè c'era alcuno che chiedesse balzelli e tasse sull'acqua, salvo che ciò non incidesse nella resa di "servizi" specifici, come era - ad esempio - nel caso delle cosiddette "torri d'acqua" di cui a Palermo esistono ancora numerosi pregevoli esemplari (e che sembrano non interessare più nessuno, mentre potrebbero essere valorizzati per la fruizione turistica o per la fruizione scolastica).
L'acqua apparteneva a quelle cose che nei paesi nordici attenevano ai cosidetti "commons" )ovvero i "beni comuni", sanciti sin dal Medievo), cioè a quelle parti di territorio "comuni" da cui ciascun cittadino attingeva ciò che gli serviva, come legna da ardere, piante commestibili, piccola cacciagione.

In più, nelle città - a partire dal Rinascimento - si prese la consuetudine di abbinare all'erogazione dell'acqua anche il gusto del Bello e la magnificenza filantropica degli aristocratici che, in un certo senso, donavano al Popolo, la magia delle acque: e nacquero così le grandi fontane scenografiche rinascimentali e di epoca successiva, così come i palazzi dei nobili e dei potenti erano dotati - ad arricchire le facciate che davano sulla pubblica strada - delle cosiddette "panche di via", grandi e artistiche panchine di pietra dove i viandanti e i servitori in attesa di chiamata potessero riposare o persino dormire.
Non dobbiamo dimenticare inoltre che le fontane, oltre ad una funzione pratica (erogazione dell'acqua per le più svariate esigenze), a quella scenografica ed estetica, ne avevano una decisamente ludica che era quella di consentire ai viandanti e al popolo di rinfrescarsi e di bagnarsi nei giorni di maggiore canicola. E così, nell'assolvere a questa funzione ludica, le fontane diventano anche luogo di socializzazione e di sollazzo.
Tutto questo erano le fontane.
Adesso nelle pubbliche fontane è proibito bagnarsi; l'acqua che scorre dai cannelli non è più potabile, perchè non è più acqua corrente "a perdere", ma riciclata di continuo.
Le fontanelle di acque pubbliche - non ve ne siete accorti? - stanno progressivamente scomparendo, perchè l'acqua erogata nelle case deve essere pagata e così diventa quasi obrobrioso, per chi chiede per la fornitura dell'acqua quello che è una sorta di "pizzo" legale, che ci siano punti di erogazione di acqua pubblica.
In relazione a queste considerazione voglio parlare di una fontana che mi sta molto a cuore.

La fontana di Palazzo Adriano (dettaglio) in Piazza Umberto I (foto di Maurizio Crispi)Si tratta della fontana di piazza Umberto I di Palazzo Adriano, resa celebre dal film di Tornatore "Nuovo Cinema Paradiso": é una fontana civica risalente al 1608 e che riporta sulle lapidi commemorative che la abbelliscono il nome degli amministratori che la fecero costruire.
A realizzare la fontana, dalla caratteristica forma ottagonale, furono i chiusesi Nicolò Gagliano e Vito Termini (1607) e il burgitano Vito Lo Domino (1684), che scolpì, in gusto barocco, un vaso con pigna.
Il bacino ottagonale della fontana è sempre pieno di acqua chiara e pulita, mentre sui due lati contrapposti si ergono due spallette ad edicola dalle quali sul lato esterno due cannelli di ottone sormontati ciascuno da una testa scultorea emettono due costanti getti di acqua potabile, sempre freschissima. L'acqua che fuoriesce da ciasxuna coppia di cannelli di ottone cade in un piccolo bacino muschioso e, poi, attraverso un passaggio tra le pietre scorre verso il bacino centrale: questi due transiti muschiosi sono abbelliti ed ingentiliti da crescite spontanee di capelvenere i cui cespi trovano qui un loro habitat ideale.
Ancora oggi la fontana della Piazza principale di Palazzo Adriano è una fontana vissuta e perfettamente integrata nel tessuto sociale della cittadina. Si trova quasi al centro della Piazza e rappresenta il punto d'incrocio dei percorsi che i cittadini affrontano nell'attraversare la piazza: è cosa comune vedere che, al passaggio, le persone si fermano per dissetarsi.
Ricordo che per mio padre quest'acqua che sgorgava dalla fontana era un mito, l'epitome della buona ed incontaminata acqua da bere. E mio padre, appena arrivato a Palazzo, nelle occasioni in cui andavamo d'estate a trovare i nonni che erano in villeggiatura lì nei mesi estivi, domiciliati in quella stessa casa che fu la casa d'infanzia del nostro avo, lo statista Francesco Crispi, andava a farsi grandi bevute da quella fontana e, con indomabile entusiasmo, spingeva anche a me a dissetarmi con quell'acqua as dir poco miracolosa.

Questa Fontana ha avuto il suo grande successo su scala mondiale con il film di Tornatore che utilizzò proprio la Piazza Umberto I per creare il cinema fulcro della sua storia, ma è anche al centro di una gara podistica che ormai da 9 anni si svolge a Palazzo Adriano e su e giù per i circostanti Monti Sicani (Trail dei Monti Sicani, promosso da ASD SportAction).
La Fontana di Palazzo Adriano in Piazza Umberto I (foto di Maurizio Crispi)In questa circostanza la Fontana è davvero - e naturalmente - al centro dell'attenzione, poiche il gonfiabile che segna il punto di partenza e la linea dell'arrivo si trova collocato proprio a pochi metri da essa.
Quindi è assolutamente naturale e logico che gli atleti al termine della loro fatica si dirigano alla fontana per rinfrescarsi ponendo la testa sotto i due getti d'acqua paralleli e per dissetarsi.
La fontana è democratica: il suo beneficio, quella miracolosa acqua fresca e chiara, non lo nega a nessuno. Tutti, davvero tutti, possono trarne profitto: la fontana è un'amica, sempre presente e disponibile a qualsiasi ora del giorno e della notte a dispensare il suo dono a vecchi e a giovani; in questo senso è anche senza tempo.
E quando la gara si è fatta nella stagione calda la fontana era lì con il suo provvido bacino d'acqua: gli atleti stanchi e accaldati allora si sedevano sul muretto e mettevano piedi e gambe a mollo per lenire i garretti stanchi.
Sì, in questa gara, il posto di ristoro finale c'è - come di prammatica - e gli atleti ci si fermano pure, ma la fontana con il suo dono è incomparabilmente più gradita ed è anche il luogo della socializzazione tra gli atleti a fine gara.
E le scene che si possono vedere tutt'attorno alla fontana sono una bella semplificazione della magia dell'acqua fresca, fluente di continuo e chioccolante: una magia che, al giorno d'oggi, abbiamo perso.
Chi costruisce ancora fontane come questa? Non fontane solo per l'estetica, intendo, ma fontane che possano essere fruite, con le quali si possa interagire.
Le fontane che creano socializzazione tra le persone e che elargiscono doni sono una delle cose che cominciano ad entrare nel territorio della nostalgia e del ricordo, salvo alcune felici eccezioni.
E il senso della perdita di qualcosa di prezioso lo si sente ancora di più se si ha modo di indugiare a lungo nei pressi di una fontana pubblica come è quella di Palazzo Adriano.

La magia dell'acqua pubblica e la fontana della piazza di Palazzo Adriano
La magia dell'acqua pubblica e la fontana della piazza di Palazzo Adriano
La magia dell'acqua pubblica e la fontana della piazza di Palazzo Adriano
La magia dell'acqua pubblica e la fontana della piazza di Palazzo Adriano
La magia dell'acqua pubblica e la fontana della piazza di Palazzo Adriano
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5 novembre 2016 6 05 /11 /novembre /2016 08:36
La tratta ferroviaria Filaga-Prizzi-Palazzo Adriano, tra i racconti di mio padre e i miei ricordi infantili

Delle conquiste tecnologiche del passato, poi divenute obsolete, a volte rimangono tracce più o meno consistenti che vengono a confluire nel vasto tessuto della cosiddetta archelologia industriale.
Così è per buona parte di vecchie tratte ferroviarie, istituite prima della massiccia diffusdione del trasporto su gomma e che collegano capillarmente gli angoli più reconditi del territorio. Si trattava il più delle volte di treni a scartamento ridotto servito da motrici a vapore.
Quei vecchi trenini che andavano avanti e indietro lungo tortuose linee ferrioviarie spesso scavate nelle montagne di territori impervii ebbero una funzione sociale non indifferente sia nel favorire gli spostamenti dei lavoratroi pendolari dai luoghi di residenza a qeulli di lavoro, soprattutto laddove mancavano mezzi di trasporto alternativi sia nel fare uscire dall'isolamento borghi contatdini e minerari totalmente persi all'interno di contrade impervie e dimenticate.
Successivamente, con lo sviluppo del trasporto su gomma, molte di queste linee furono dismesse e smantellate.

La galleria della tratta ferroviaria Filaga-Prizzi-Palazzo Adriano, subito prima di Palazzo AdrianoE così si procedette ciecamente in nome del progresso senza tener conto del fatto che queste strutture così com'erano, oppure con lievi modifiche soltanto, avrebbero potuto diventare altro: musei a cielo aperto, che possano racontare dei primi passi del trasporto dell'era dell'industria, ecoparchi, percorsi ciclabili o idonei per l'escursionismo a piedi, etc etc.
Sino a pochi anni decenni fa era ancora virtualmente possibile raggiungere quasi ogni piega del difiicile territorio montano dell'Italia, continentale ed insulare, per mezzo di questi tronchi ferroviari a scartamento ridotto. Non è di molti anni fa una cronaca di viagio di Rumiz in cui si racconta di un avventuroso viaggio in lungo e in largo in Italia soltanto utilizzando le linee ferroviaria secondarie ancora esistenti (Paolo Rumiz, L'Italia in seconda classe, Feltrinelli, 2009)..
Così accadde per molte delle linee interne siciliane che furono letteralmente cancellate con un colpo di spugna e di cui tuttavia rimangono ancora tracce significative che occoorrerebbe recuperare in modo sistematico, prima che il Tempo, severo scultore, e la sua compagna Entropia ne cancellino le tracce.

Vive in me, intensamente, grazie ai racconti di mio padre la tratta ferroviaria Filaga-Palazzo Adriano.

(Da Wikipedia) La Ferrovia Lercara–Filaga–Magazzolo con la diramazione Filaga–Palazzo Adriano, era una ferrovia a scartamento ridotto della Sicilia, delle Ferrovie dello Stato e, in considerazione delle pendenzeda superare, esercita con varie tratte a cremagliera, istituita con a funzione di collegare la Stazione di Lercara Bassa, sulla ferrovia Palermo-Agrigento, con i vari paesi all'interno delle provincie di Palermo e Agrigento.
Storia. La ferrovia venne progettata allo scopo di permettere il trasporto del minerale e lo spostamento dei minatori pendolari che, dalle varie località di resdienza, si dovevano recare al lavoro nelle varie miniere di zolfo disseminate nel territorio dei comuni circostanti del bacino di Lercara Friddi e di Cianciana.
Fu però in ritardo e fu solo nel 1912 che ebbe inizio la costruzione, in economia e a scartamento ridotto come nel resto delle linee interne siciliane, a cura delle Ferrovie dello Stato.
Allo scopo di venire incontro alle richieste degli abitanti della cospicua cittadina di Prizzi e del vicino Palazzo Adriano venne costruito anche un breve tronco che si diramava dalla stazione di Filaga, denominata di conseguenza Bivio Filaga, che richiese la costruzione del più lungo tratto a cremagliera, di circa 5 chilometri.
I lavori di costruzione terminarono soltanto nel 1924 con l'attivazione del tratto centrale tra Bivona e Alessandria della Rocca che realizzò il congiungimento con la linea costiera Castelvetrano–Porto Empedocle. Per il servizio sulla linea vennero adoperate le locomotive a vapore del gruppo R.370 atte al servizio sulle linee a cremagliera.
Non venne mai previsto l'impiego di automotrici.
Il D.M. 16 gennaio 1959, n. 3041 dispose la chiusura all'esercizio dell'intera linea, diramata compresa e, di conseguenza, il servizio ferroviario venne soppresso il 5 ottobre 1959 ma venne mantenuto per qualche tempo il servizio viaggiatori da Cianciana a Magazzolo con materiale rotabile proveniente dalla linea Castelvetrano - Porto Empedocle - Agrigento C.le, per permettere agli agricoltori di raggiungere i campi coltivati in una situazione di totale assenza di viabilità stradale alla data della soppressione del tronco.

Linea ferroviaria Filaga-Prizzi-Palazzo Adriano. Per il servizio sulla linea vennero adoperate le locomotive a vapore del gruppo R.370 atte al servizio sulle linee a cremagliera.La linea venne infine definitavamente soppressa con decreto del Presidente della Repubblica l'11 dicembre del 1961. Venne istituito un autoservizio sostitutivo delle Ferrovie dello Stato sulle relazioni Lercara Bassa-Cianciana e Filaga-Palazzo Adriano, con un costo di esercizio annuo stabilito in 23,74 milioni di lire.
Caratteristiche. La ferrovia aveva origine dal piazzale della Stazione di Lercara Bassa della linea ferroviaria Palermo–Agrigento, che all'inizio aveva il nome di stazione di Lercara e lo cambiò in Lercara Bassa proprio dopo l'entrata in funzione della linea e quindi della stazione vera e propria di Lercara Friddi che venne denominata Lercara Alta. La linea correva inizialmente affiancata alla ferrovia a scartamento ordinario Palermo–Agrigento, poi curvava ad ovest e prendeva quota mediante il tratto a cremagliera, del tipo Strub, con ascesa del 75 per mille, che permetteva una velocità massima di 12 km/h .
La linea era armata con rotaie da 27 kg/m montate su traversine di legno distanti 0,82 m l'una dall'altra. Tale tipo di costruzione, molto in economia, permetteva solo basse velocità di linea non superiori a 30 km/h per i treni a vapore e a 45 km/h per automotrice nei tratti ad aderenza naturale.
Nei tratti a cremagliera questa, del tipo Strub da 44 kg/m, era montata al centro del binario fissata alle stesse traversine montate a distanza inferiore. I tratti a cremagliera erano 10 in tutto per complessivi 21 km e permettevano alla linea di inerpicarsi fino a quote di quasi 900 m di altezza s.l.m.
La circolazione dei treni venne regolata con il sistema economico a Dirigenza Unica con due sedi: a Lercara Alta per la sezione Lercara Bassa–Palazzo Adriano e a Magazzolo per la sezione Filaga-Magazzolo. Non venne mai fatto alcun ammodernamento degli impianti fino alla chiusura.

 

Oggi, per quello che ho visto, del tratto Filaga-Prizzi-Palazzo Adriano, rimane ancora la massicciata e le frequenti gallerie scavate nel cuore della montagne. Ho sentito che alcuni tratti della massicciata dalle parti di Filaga siano state trasformate in fungaie...

Mio padre mi raccontò spesso che, da giovane, per aggiungere i suoi quando d'estate andavano a villeggiare a Palazzo Adriano, prendeva proprio quella ferrovia, viaggiando prima sino a Lercara. Erano quei racconti densi di in qualche maniera di spirito pionieristico e di avventura: quel trenino rappresentava per mio padre uno dei miti della sua gioventù ed era in qualche modo anche la rappresentazione del progresso e della modernità. Grazi a quei racconti, potevo immaginare quel treno tirato dalla vecchia locomotiva a vapore che si inerpicava sbuffando e lasciando dietro di sé nuvole di fumo grasso e nero e poi mi lasciavo andare ad immaginare quando il convoglio si tuffava in quelle gallerie al cui interno ancora oggi si può passeggiare. Palazzo Adriano, prima di entrare nell'ultima galleria del tratto ferroviario Filaga-Prizzi-Palazzo AdrianoDel percorso ferroviario rimane soltanto una massicciata nuda (che è divenuta uno sterrato), ma da piccolino io ci ho sicuramente camminato quando ancora c'era non ancora rotaie e traversine. Ma già allora il treno non c'era più o era in via di estinzione: su quella massicciata ci ho passeggiato accompagnato da papà o forse anche dalla zia Mariannù, quando durante un'estate andai assieme a lei a stare a casa dei nonni per un periodo di una decina di giorno. E siccome avevo meno di dieci anni - direi tra 5 e 8 è anche possibile che, assieme alla zia, si sia fatto assieme il tratto ferroviario sino a Prizzi e ritorno, perchè in quel periodo la Ferrovia era ancora in uso. Lo posso soltanto intuire, ma non ho di questo alcun ricordo certo. So certamente che quel trenino a possedere un tocco di funzionalità e di eleganza d'antan in più era fornito in corrispondenza dell'ultimo vagone di un terrazino posteriore, che consentiva a chi voleva di viaggiare all'aperto.
Solo che via del fumo nero di fuliggine e della polvere all'arrivo era obbligo lavarsi radicalmente, perché si era coperti di fuliggine.
Nell'incertezza del ricordo (di quella permanenza a Palazzo i ricordi che rimangono più vividi sono quello della volta che dopo essere stato lavato, pettinato e profumato dalla zia, tutto lindo e pulito com'ero ricaddi maldestramente dentro la tinozza dove avevo appena finito di fare il bagno e poi quello della lunga attesa dei miei che mi venissero a riprendere) voglio pensare che su quel trenino ci ho viaggiato anche io, così come aveva fatto mio padre nella sua gioventù.

Certo, sarebbe bello, se le amministrazioni comunali di Palazzo Adriano e di Prizzi, in vista di una valorizzazione turistica dei loro luoghi decidessero di avviare degli interventi per recuperare quello che rimane ancora agibile di questa tratta ferroviaria, allestendo - ad esempio - un percorso attrezzato con piccole aree di sosta che possa essere fruito da turisti in Mountai Bike oppure da camminatori/escursionisti o addirittura proponendo per il tramite di qualche Associazione che si occupi della gestione degli aspetti organizzativi di trekking che consentano di spostarsi a piedi da Palazzo Adriano a Lercara, ma anche istituendo in uno degli edifici di servizio della tratta ferroviaria ancora esistenti  un piccolo allestimento museale che illustri ai visitatori la storia di questa "piccola" ferrovia e che ne mantega la memoria.
Sarebbe un'iniziativa che avrebbe certamente riscontro presso i turisti nord-europei di un certo tipo, sempre alla ricerca di itinerari sportivo-naturalistici, per non parlare poi della possibilità di organizzare eventi sportivi non competitivi che si propongono di collegare in un'unica camminata corsa i tre comuni interessati.

 

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28 ottobre 2016 5 28 /10 /ottobre /2016 23:58
(foto di Maurizio Crispi)

(foto di Maurizio Crispi)

Montagna Longa è un luogo di memorie, per me, indubbiamente e per tutti coloro che nell'olocausto dell'aereo che vi si è schiantato hanno perso la vita in un solo momento.
Poco prima dell'incidente fatale, mio padre mi parlò di un libro che aveva letto e che gli era rimasto fortemente impresso: si trattava di "Il Ponte di San Luis Rey", scritto dal romanziere e drammaturgo statunitense Thornton Wilder (1927).
Questa in breve la storia che vi è narrata.
Il Ponte di San Luis Rey (Thornton Wlder, Mondadori)Nel 1714 il ponte di San Luis Rey, che per oltre un secolo era stato la più importante via di collegamento per gli abitanti di Lima e Cuzco e per i viandanti che si spostavano dall'una all'altra città, in Perù, crolla improvvisamente, causando la morte di cinque persone.
Fra' Ginepro, un frate che si accingeva ad attraversarlo, dopo aver assistito all'accaduto, sconvolto dalla tragedia, inizia a porsi delle domande di carattere religioso e morale: chi erano quei cinque e perché si trovarono proprio lì?
Cercando di risalire alle cause del crollo del ponte, la curiosità porta Fra' Ginepro a ricostruire le vite dei cinque deceduti nel tragico evento: nel tentativo di capire se avessero qualcosa in comune?
Sulla scorta dell'indagine, nacque un problema morale su cui si pronunciò anche la Chiesa, chiamando in causa la Provvidenza e suscitando altri interrogativi: si era trattato d'una tragedia o di una punizione divina, che ha fatto incrociare i destini dei cinque nel medesimo luogo alla medesima ora? Il Signore ha voluto punire così i malvagi oppure, operando in tal modo, ha volutamente chiamato a sé anche gli innocenti?
I quesiti, posti sull'eterna condizione umana e sulla morte, sulla misteriosa complicità di caso e destino, rimarranno inevasi.
Indro Montanelli, che a questo romanzo si ispirò nella scrittura di "Qui non riposano", consigliava agli aspiranti giornalisti di leggerlo e di trarne ispirazione, in quanto esempio di «alta tecnica narrativa, valevole per tutti gli scrittori, compresi i romanzieri»; ed anche «uno dei pochi veri capolavori di questo secolo, per ricostruire le varie vicende umane che avevano condotto tutti quei viaggiatori, sconosciuti l'uno all'altro, a trovarsi su quel ponte al momento della catastrofe».
Non so come mio padre fosse arrivato a questo testo: ma forse - voglio pensare - proprio seguendo quegli strani percorsi di lettura che fanno coloro che che amano i libri, in cui ciascun libro letto ne chiama altri aprendo percorsi imprevisti e tortuosi (in nuce questo modus operandi in cui si combinano assieme le voglie e le curiosità dei lettori con l'intrinseco potere dei libri è l'origine e il senso dell'infinita Biblioteca di Babele borgesiana).
Me ne aveva parlato, sì. Forse mi aveva dato anche quel libricino, perché lo leggessi. Ci sperava sempre che io seguissi i suoi suggerimenti e le sue suggestioni e, instancabilmente, seminava germi di cultura, cercando di darmi una veduta ad ampio raggio del mondo e molti vertici di osservazione per aiutarmi a guardare nella complessità.
Ma io, sul momento, lo avevo messo da parte, perché allora rivendicavo la mia autonomia di scelte (o almeno cercavo di salvare le apparenze, per mia pace, poiché non si poteva sfuggire alle suggestioni che promanavano da lui).
E quindi, dopo il fatto, quel libro lo ripresi in mano, e da allora l'ho tenuto quasi sempre vicino a me, tra i libri che mi sono più cari e che devono stare sul comodino sempre pronti ad essere aperti, sfogliati, letti anche a caso, captando una frase qua e là.
Non posso non essere influenzato da quelle pagine, quando rifletto sull'incidente di Punta Raisi o su altri analoghi.
Perché quelle persone si trovarono assieme?
Perché alcuni per pura casualità rimasero esclusi, mentre altri - sempre per pura casualità - furono inclusi all'ultimo momento?
Quale disegno imperscrutabile rimase dietro quel mosaico di vite? Qale necessità determinò il tragico destino delle 115 vittime?
E cosa pensarono, cosa sentirono nel momento dell'impatto, se ebbero il tempo di sentire o pensare qualcosa, prima della cacofonia dei rumori dello schianto, delle esplosioni e del ruggito delle fiamme (tutte cose che ho sempre immaginato)?
E perché tutto questo accadde?
Qual'è la verità nascosta dietro la frettolosa rimozione dei detriti e la dismissione delle salme, dopo i dovuti riconoscimenti (laddove questi furono possibili) senza nessun esame autoptico (al di fuori della perizia necroscopica sui due piloti)?
Dopo circa due anni venne posta sul monte (ma non esattamente sul luogo dell'impatto) una grande croce metallica per ricordare le vittime e l'equipaggio. Sui due fianchi della parte ascendente della croce sono riportati in ordine alfabetico i nomi delle vittime (con la data di nascita accanto): un totale di 113 compresi i componenti dell'equipaggio. A vederli riposare sulla vasta superficie della croce quei nomi spogli non sembrano tanti. Ma furono tanti: a volerli recitare uno per uno passa un bel di tempo... e 113 è ben più di un terzo delle vittime accertate del terremoto del Belice.
La croce avrebbe dovuto essere illuminata: infatti venne eretta già con un suo impianto di fari. Ma l'Alitalia (o l'amministrazone aeroportuale( si oppose strenuamente sostenendo che quella croce accesa di luce avrebbe "turbato" la buona pace dei passeggeri degli aerei di linea in avvicinamento e attivato in essi stati d'ansia, gettando discredito sulla sicurezza dell'aeroporto palermitano e avrebbe per sempre ricordato quell'incidente a discredito della sicurezza dell'aereoporto
La croce, sorta su terreno demaniale per volontà della diocesi di Carini (molto attivo in questa realizzazione fu Monsignor Pappalardo allora e per molti anni parroco), fu eretta 42 anni fa e oggi è in condizioni di degrado preoccupante, con estesi danni causati dagli elementi atmosferici e dalla ruggine. E sicuramente andrebbe ripresa.
Occorrerebbero anche interventi di ripristino della recinzione, in alcuni tratti crollata.
Ma soprattutto sarebbe bello pensare ad interventi che ne consentissero la fruizione anche durante tutto l'anno e non soltanto in occasione della ricorrenza dell'anniversario della tragedia.
Migliorando l'attuale strada di accesso, molto impervia soprattutto nell'ultimo tratto, o aprendone una nuova che salga da Cinisi sfruttando il fatto che il pendio della montagna è ben più dolce, si potrebbe pensare ad un progetto di riqualificazione della vasta area attorno alla Croce, facendone un vero e proprio "Parco della rimembranza" dedicato a tutte le vittime, ma anche a tutti coloro che vogliano stare in un luogo che favorisca la meditazione e la riflessione sulle cose ultime.
Un parco arricchito di altri alberi, oltre ai numerosi cipressi già messi a dimora, ed essenze arboree adatte alla location, inserendo (o almeno tentandoci) qualche Ulivo, che ha la forte valenza simbolica della permanenza e dell'attaccamento tenace alla Madre Terra, la cui planimetria possa essere disegnata da percorsi delimitati da siepi di bosso, e punteggiati da piccoli cippi che facciano da supporto a citazioni letterarie adatte alla riflessione, ma anche da pannelli esplicativi che raccontino a futura memoria - l'incidente con il corredo - su supporti resistenti alle intemperie -  delle poche immagini d'archivio disponibili (perché anche questo fa pensare alla superficialità investigativa e alla quasi non esistenza di una documentazione fotografica realizzata con tecniche analitiche nelle ore successive all'incidente).
A me personalmente piacerebbe sapere - e mi darebbe conforto - che esiste un parco così fatto, tale da resistere all'usura del tempo e farne un luogo del Ricordo che possa essere tramandato alle future generazioni e continuare anche quando tutti coloro che furono toccati direttamente dalla tragedia non saranno più: una location che sia di pace e di meditazione in quanto nodo cruciale di transito e di passaggio di tante anime verso qualche luogo altro che sicuramente - non so come, non so dove - esiste: e proprio, perchè è stato luogo di transito di tante anime, rimane come luogo di pace immensa ma anche di forte - fortissima energia - che si avverte nell'aria che vibra e nel soffio del vento e nella grandiosità del paesaggio che si stende ai piedi del monte brullo e sassoso, monte di roccia aspra e impervia che affiora dovunque, a creare un contrasto ferrigno con la morbidezza e la solennità dei cipressi che punteggiano il sito attorno alla croce-reliquia.
Io vi salii, a Montagna Longa, una prima volta a luglio, dopo appena due mesi dall'incidente. Allora la strada aperta dalla Forestale ai tempi della messa in posa della Croce non esisteva (o forse semplicemente non ero a conoscenza della sua esistenza) e quindi io feci l'ascesa dal lato di Cinisi, sotto il sole feroce della stagione.
Salendo da questa parte si ha subito la visione del luogo d'impatto che avvenne, secondo le ricostruzioni poco prima (dopo, se consideriamo il senso di marcia dell'aereo) il punto sommitale.
La croce di Montagna Longa (foto di Maurizio Crispi)E, lì dove oggi si può vedere su di una roccia promnente sulle altre, verde di muschio, una piccola lapide di marmo dedicata ad Angela Fais e, accanto, un'altra che ricorda una delle hostess, quando io arrivai, era tutto annerito dal fuoco che aveva divampato con il kerosene residuo versato dai serbatoi, e il terreno era disseminato di piccoli detriti di plastica, alluminio, metallo, tutto irriconoscibile.
Solo le parti dell'aereo rimasta intatte erano state velocemente rimosse, quasi a cancellare ogni traccia, prima che qualcuno potesse pensare di approfondire le dinamiche.
Sperimentai allora un senso di grande desolazione, con il rombo del vento (che pensavo eterno) nelle orecchie.
E quyando vi sono risalito lo scorso 5 maggio 2016, in occasione della commemorazione che si celebra di anno in anno, mi hanno assalito le stesse sensazioni, l'emergere della memoria è stato netto ed inconfondibile: Montagna Longa è per me non solo un luogo fisico, ma anche un luogo della mente, saldamente stabilito nel mio deposito di ricordi.
Forse in seguito quando misero a dimora la croce ci saliì.
Ma di quell'ascesa ho rimosso quasi tutto. Ci sono delle sensazioni vaghe depositate: un moto di paura a vedere il precipizio a lato della strada, l'abisso pronto a ghermirti. E poi la sensazione tattile della mano che indugiava sulle scritte dei nomi in rilievo, quasi che per me fosse più importante leggere quei nomi come se fossero stati scritti in Braille.
In quest'ultima ascesa che ho compiuto tali sensazioni si sono rafforzate, sono venute fuori con maggiore prepotenza.
Quindi, almeno un'altra volta in passato devo esserci salito, anche se non riesco in alcun modo a circostanziare e a rivedere quell'ascensione "ombra" nei dettagli.
O forse l'ho solamente sognato di esserci salito...
Misteri dei meccanismi mentali che presiedono alla memoria e alla conservazione dei ricordi!

Le foto sono di Maurizio Crispi
Le foto sono di Maurizio Crispi
Le foto sono di Maurizio Crispi
Le foto sono di Maurizio Crispi

Le foto sono di Maurizio Crispi

(Fonte: dal Gruppo Facebook "Montagna Longa, 115 vittime: un disastro aereo dimenticato") SICILIA (Palermo) - E' il 5 maggio 1972. Una data difficile da dimenticare. Un aeromobile DC 8 dell'Alitalia, il volo AZ 112 Roma - Palermo si schianta sul costone della Montagnalonga, fra Cinisi e Carini, a circa 5 miglia nautiche a Sud dell'aeroporto di Punta Raisi. Muoiono 115 persone lasciando 98 orfani e 50 vedove. Tra le vittime i corpi di un giudice, di due giornalisti, di un paio di militari e di qualcuno che si pensò fosse dei servizi segreti. Qualche altro non fu mai identificato. Rimarrà negli archivi della memoria come la più grave tragedia nella storia dell'aviazione civile italiana.

A guidare l'aereo ci sono piloti di lunga e provata esperienza di volo. Roberto Bartoli e Bruno Dini. Con loro il motorista Gioacchino Di Fiore, anch'egli con il brevetto di 3° grado che lo aveva abilitato al pilotaggio di grossi aerei.

L'aeromobile, con a bordo 108 passeggeri e 7 membri dell'equipaggio, alle ore 21,46 decolla dalla pista di Fiumicino. Intorno alle ore 22,25 è sulla verticale dell'aeroporto palermitano a 5.000 piedi ed il bollettino meteorologico di Palermo Punta Raisi segna «calma di vento, visibilità 5 Km.».

Su Montagnalonga, dopo 3 processi e un'istanza di riesame, respinta nell'ottobre 2001 dal giudice di Catania Peroni Ronchet, se non si vuole prendere per buona la "verità" emersa nelle Aule di Giustizia, risultata a dir poco improbabile, non ci sono ancora verità e responsabilità.

L'8 maggio 1972, in una nota di agenzia della Reuter affiorò l'ipotesi della bomba, ma le indagini e le istruttorie che si susseguirono la scartarono del tutto.

Nonostante, all'indomani del grave evento, circolasse diffusamente in ambito giornalistico la notizia che si trattava di un atto stragísta e non di incidente di manovra, calò un improvviso silenzio, seguito da affrettate e incalzanti smentite.

Le famiglie Fais, Salatiello e la moglie e i familiari di Bartoli, costituitisi parti civili, nell'immediatezza dei disastro, contro i responsabili aeroportuali dell'epoca, i funzionari dell'Alitalia, dei Ministeri della Difesa e dei Trasporti, costrinsero la magistratura catanese a chiamare in giudizio quest'ultimi, i quali furono in seguito tutti assolti.

L'ipotesi di una bomba a bordo, subito scartata, fu invece raccolta dal rappresentante dei piloti Anpac nella prima commissione di indagine.

Il 27 giugno 1972, a 15 giomi dalla firma dei decreto di incarico dell'allora ministro Oscar Luigi Scalfaro, il colonnello Francesco Lino aveva già concluso per l'errore umano, nonostante il comandante Ferretti, membro della commissione d'inchiesta ministeriale, a nome dei piloti Anpac, avanzasse il sospetto di una esplosione nella carlinga.

La commissione, in base alle norme che regolano i rapporti tra Alitalia e Ministero dei Trasporti, avrebbe dovuto prevedere una composizione di 13 membri, di cui 3 appartenenti all'Anpac Ma il colonnello Lino la limitò a 11, escludendo, quindi, due piloti.

Sui piloti si rovesciarono accuse di inesperienza e tasso alcolico elevato. Sul Bartoli si riversarono accuse di distrazione, in particolare «evidenziatasi nel corso della giornata, a causa di annebbiamento cerebrale dovuto a droga o alcool». Versíone infamante, poi smontata dalla perizia dei prof. Ideale Dei Carpio. dirigente dell'Istituto di Medicina Legale di Palermo.
tratto da http://montagna-longa.noblogs.org/

Nel sito http://www.montagnalonga.it/ (da cui è tratta la foto) è tutto minuziosamente documentato anche con raccapriccianti filmati dei telegiornali dell'epoca.

Mi sono avvicinata a questa triste pagina, interessata dal fatto che tra le vittime ci fosse Cestmir Vicpaleck di anni 24, figlio dell'omonimo calciatore e allenatore di Juventus e Palermo e cugino (coetaneo) dell'allenatore Zdenek Zeman.

Ma le vittime non hanno nome, sono vittime e basta e come tali gridano giustizia

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5 ottobre 2016 3 05 /10 /ottobre /2016 08:16
Un giorno della memoria familiare

(Maurizio Crispi) Il 4 ottobre è una data di ricorrenze per la mia famiglia.
Mio fratello Salvatore è nato il 4 ottobre e oggi avrebbe compiuto 69 anni.
Di papà si celebrava l'onomastico e, nello stesso tempo, dei nostri genitori l'anniversario di matrimonio.
E quindi, in questo 4 ottobre 2016, a tutti loro - anche se non ci sono più - vanno i miei più cari e commossi auguri.
In fondo, queste ricorrenze che rimangono vive nella mente e nel cuore servono a chi rimane per coltivare la memoria di chi non è più.
Ma, se lo sguardo e la memoria devono volgersi al passato per il giusto tributo a chi non è più e agli antenati che sono la nostra ragione di essere in questo mondo, bisogna nello stesso guardare al futuro e occuparsi dei vivi che sono quelli a cui un giorno passerà il testimone e che dovranno mantenere la memoria di noi.
E, quindi, in questo stesso giorno, è caduto l'onomastico di mio figlio Francesco... e ciò rappresenta la parte festosa della giornata per vvere la quale occorrerebbe non isolamento e solitudine, ma condivisione.
Le memorie hanno senso soltanto se possono essere condivise e trasmesse: altrimenti sono condannate a rimanere sterili e non produttive, soltanto una faticosa zavorra da portare sulle spalle.

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29 settembre 2016 4 29 /09 /settembre /2016 00:13
Marettimo e il ricordo d'un mio incontro con la wilderness

Con l'occasione del Trail di Marettimo (svoltosi il 18 settembre 2016) , in una maniera alquanto avventurosa ed improvvisata, ho spezzato le perniciose catene dell'immobilità in cui mi sentivo avvinto... andando, per di più, in un luogo che, da lungo tempo, mi sta nel cuore...
Marettimo (assieme a Levanzo), in particolare, è legata indissolubilmente alla memoria di un mio incontro con la wilderness e al confronto con una paura d cui desideravo liberarmi.

A Marettimo, senza esserci mai stato, mi avventurai la prima volta, deciso ad affrontare la natura selvaggia e a dormire all'aperto in un luogo del tutto isolato, poiché - malgrado esperienze già fatte in passato (ma sempre in compagnia), da un certo momento in poi fui preso da una sorta di fobia a ripeterbe di simili.
L'idea di dormire da solo e all'aperto, in specie, mi faceva paura.
Decisi così di affrontare questa mia bestia interiore, che mi faceva sentire meno libero, frontalmente e scelsi Marettimo anche perché oltre ad essere la più lontana dalla Terraferma delle tre isole dell'arcipelago, era un luogo a me sconosciuto, dove non avrei trovato nessuno dei punti di riferimento a me familiari (e dunque in qualche misura confortanti).

MarettimpVolevo un'esperienza diretta e brutale per contrastare la mia paura, un'esperienza non edulcorata
Sbarcato a Marettimo e acquistati alcuni generi di prima necessità, mentre il giorno volgeva al tramonto, mi diressi zaino in spalla (senza conoscere nulla del luogo in cui mi ero scaraventato, ripeto), verso Punta Bassana e poi piegando all'interno verso uno scollinamento che mi avrebbe portato - così ritenevo - dall'altro lato dell'isola. Ero deciso ad allontanarmi il più possibile dal centro abitato e di addentrarmi in un territorio sconosciuto e lontano dal consesso umano.
Dopo essermi lasciato il cimitero e Punta Bassana alle spalle, l'atmosfera cupa di fine giornata si rischiarò all'improvviso, poiché mi affacciai sul lato dell'isola rivolto ad ovest, che s'illuminava dei colori caldi di un tramonto marino di prima estate.
Camminai e camminai, finché arrivai in vista del Faro in un punto in cui si creava una piccola piana e la macchia mediterranea si diradava per lasciare luogo ad una gariga degradata dagli interventi umani di disboscamento (a quel tempo Marettimo non era ancora una zona naturalistica protetta).
E decisi di fermarmi lì, per trarre vantaggio anche da una vecchia rete di letto abbandonata, ma ancora in perfette condizioni, dove dispiegai il mio sacco a pelo.
Dopo aver consumato un frugale pasto, mi misi in attesa della notte che arrivò presto con un buio nero come la pece, che tuttavia era rischiarato dal periodico fluire delraggio di luce proveniente dalla lanterna del faro.
Notte di inferno, anche perché i rumori della notte arrivano alle mie orecchie amplificati con una lucidità quasi lisergica, eppure dormii quello che si può definre il sonno dei giusti, salvo un piccolo episodio di terrore quasi allo stato puro, al quale tuttavia seppi resistere.
Nel cuore del mio pernottamento, quando il buio era ancora fitto, presi a sentire a breve distanza da me - e il cuore mi balzò in gola - dei fruscii e dei rumori furtvi, insistenti, che non riuscivo a catalogare bene, fosse un fantasma o una presenza ostile...
Ma poi - dopo questa pausa, mi riaddormentai e dormii beatamente sino alle prime luci dell'alba.
Al momento di fare colazione e di aprire la tasca dello zaino che custodiva le mie poche scorte, scoprii che il tessuto di tela forte e robusta era forato e che il pacco di biscotti all'interno era stato manomesso...
Ma cos'era stato? Ma un topino ovviamente che non aveva resistito al richiamo della leccornia...!
Mi feci una grande risata.
Prova di iniziazione superata e mi dissi: "Non temerò più alcun male", sentendomi come quei Pellerossa d'America che per transitare dalla bambinitudine all'età adulta dovevano andare da soli nella foresta o comunque nella wilderness a cercare la propria visione e il proprio animale totemico, dal quale avrebbero potuto prendere - a pieno diritto - il proprio nome di adulti.
Stante questo riferimento antropologico, io dopo la prova iniziatica, avrei potuto a ben diritto assumere il nome di "Topo Seduto" o, meglio ancora, "Topo Dormiente".
Questa gita a Marettimo è stata dunque l'occasione per una giornata di atmosfera di avventura, ma anche stimolo per un viaggio a ritroso nel tempo sino a quella - fondante - esperienza e a tutte le successive occasione in cui ebbi modo di tornare a Marettimo per gustarne - il più spesso in solitudine - la Wilderness.

(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)
(foto di Maurizio Crispi)

(foto di Maurizio Crispi)

Marettimo, oh cara! Il Trail di Marettimo (come altre prove del Circuito Ecotrail Sicilia è la dimostrazione netta e pulita di come un'occasione di sport sia lo spunto per trovarsi - per "essere" - in un luogo assolutamente fantastico e pieno di grandi risorse e bellezze sia paesaggistiche sia naturalistiche, nonchè dotato di un patrimonio di memorie storiche e mitologiche. Per i Greci che erano particolarmente sensibili a tutto ciò di ominoso e sovrannaturale fosse contenuto in certi luoghi, Marettimo un'isola dotata di un'aura di sacralità (il suo nome presso i Greci era "Hierà Nèsos" che significa appunto "isola sacra") ed era quindi dedicata ad attività cultuali, ma anche coincidente con la Itaca di Ulisse, secondo la teoria "trapanese" dell'Odissea, inizialmente proposta da Samuel Butler e poi ripresa anche da altri. Per non parlare poi dell'antico presidio romano, successivamente trasformato in monastero bizantino con una chiesetta fortemente suggestiva in una posizione preminente sul mare, dove nella distanza spiccano le sagome delle altre due Egadi e poi il profilo più lontano ed indistinto della terraferma. E che dire poi del Castello di Punta troia che sarebbe di origini addirittura normanne e che fu impiantato su di una preesistente torre di avvistamento?

Marettimo é inoltre ricchissima di flora e fauna selvatica e, soprattutto, sul versante occidentale vi si ritrovano grandi grotte marine dove sono stati avvistati esemplari di Foca monaca.

Insomma, Marettimo val bene una visita e quella del Trail di Marettimo e del Egadi Running Cruise che tornerà anche nel 2017 è l'occasione giusta per ritrovarcisi, per scoprirla o per continuare ad esplorarla (se ci si è già stati), occupandosi al tempo stesso della propria attività sportiva preferita.

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22 aprile 2016 5 22 /04 /aprile /2016 00:22
Dio benedica il Capitano Vere! Un film e un romanzo che sono rimasti vividamente impressi nella mia memoria

"La Storia di Billy Budd, gabbiere di parrocchetto" (romanzo postumo di Herman Melville), nell'edizione italiana per i tipi di Bompiani, con prefazione pregevole di Eugenio Montale, autore altresì della traduzione), è per me un libro importante per me, quasi cult.
Quando ero appena decenne mio padre mi portò a vedere il film in bianco nero che ne era stato tratto (1962), con Terence Stamp nella parte di Billy Budd e Peter Ustinov (peraltro anche regista del film) nei panni del Capitano Vere.
Il poster del film (1962), Billy Budd, diretto da Peter UstinovIo, pur piccolo, rimasi molto colpito dalla scena finale con l'impiccagione di Billy Budd che a me parve vittima di un'ingiustizia e assurto al ruolo di santo..
Quando tornammo a casa, papà prese dalla libreria la copia del romanzo e mi lesse ad alta voce la parte di uno dei capitoli finali in cui si raccontava lo stesso fatto, con il suo climax emozionale quando Billy Budd, prima dell'esecuzione comminata per il suo delitto (ma impropriamente nel flusso narrativo melvilliano, poichè il capitano vere prima di decidere ciò, avrebbe dovuto consultarsi con un Ammiraglio in rispetto delle regole vigenti) grida davanti a tutto all'equipaggio e agli ufficiali e sottufficiali schierati: "Dio benedica il capitano Vere".
Billy Budd é una sorta di presenza angelicata (che secondo alcuni interpreti del testo melvilliano rappresenta la forza della natura che, in quanto tale, non può integrarsi nel mondo degli uomini), piombato nel rude mondo della marineria militare britannica, gentile e affabile con tutti, benvoluto e capace, pronto ad accollarsi qualsiasi compito gli fosse richiesto tanto che il capitano Vere pensava di promuoverlo presto ad un rango superiore per sfruttare al meglio le sue capacità.
Benvoluto da tutti, fuorché dal cupo e luttuoso Maestro d'armi di fortuna John Claggart che prende ad angariarlo e a stargli addosso (si direbbe oggi a mobbizzarlo), fintantoché all'ennesima provocazione Billy Budd reagisce e lo colpisce, uccidendolo (un omicidio preterintenzionale, si direbbe oggi secondo il linguaggio giuridico), ma siccome tra l'equipaggio della nave da guerra serpeggiavano malumori che erano giunti all'orecchio degli ufficiali, Billy Budd per via di quel gesto, psicologicamente motivato, viene accusato non solo di insubordinazione e di omicidio, ma anche di tentativo di ammutinamento, come se il suo gesto fosse stato espressione di una rivolta che covava ancora senza aver avuto ancora palesi manifestazioni.
Una storia che Melville trasse da un libello che circolava ancora ai suoi tempi e che raccontava questo episodio "vero", in cui Billy Budd diveniva una sorta di Cristo redivivo che veniva impiccato per via dei peccati commessi da altri e che, tuttavia, perdonava il suo giustiziere e lo assolveva chiedendo per lui la benedizione di Dio.
Il film e quel libro da cui papà mi lesse il punto più alto, mi rimasero impresse ed ebbero per me un potente influsso formativo.
Questo volume di cui vedete la copertina è uno dei libri che mi sono più cari e di dà i brividi pensare che papà e mamma, pur con le loro magre risorse, in tempo di guerra continuavano a comprare e a leggere romanzi che poi costituirono il nucleo iniziale della loro biblioteca di narrativa.
E, attraverso questo piccolo episodio, non possa fare altro che ribadire quanto sia stata importante l'azione continua di mio padre nell'mpliare i miei orizzonti, nelforgiarmi lasciandomi però libero di seguire i miei percorsi e di ammpliare i miei orizzonti, facendomi sempre vedere qualcosa "al di là", con la grande lezione di vita che la curiosità e la voglia di sapere devono essere alla base di tutto il nostro operare.
Ed ecco di seguito il brano topico, quello che mio padre mi lesse al nostro ritorno a casa. E ricordo quella lettura vividamente, come fosse ieri, con le inflessioni di voce opportunamente modulate da papà per rendere bene tutto il pathos della scena.

 

Una volta, in alto mare, l'impiccagione di un marinaio era fatta generalmente sul pennone di trinchetto. Nel caso presente, per particolari motivi, era stato prescelto l'albero maestro. Assistito dal cappellano il prigioniero fu condotto sotto un pennone di quest'albero. Fu osservato allora, e commentato più tardi, che l'ottimo uomo in questa scena finale non perdette tempo nelle formalità di rito. Scambiò alcune parole col condannato, ma l'autentico Vangelo era piuttosto nell'aspetto e nelle maniere che nella sua lingua. Gli ultimi preparativi furono condotti innanzi rapidamente da due nostromi e l'esecuzione stava per compiersi. Billy era in piedi col viso rivolto a poppavia. Al momento estremo le sue sole parole, pronunciate senza alcun impedimento, furono queste: "Dio benedica il capitano Vere". Tali sillabe, così inattese da parte di un uomo che aveva il vergognoso laccio attorno al collo; questa benedizione di un convinto di fellonia mandata verso i posti d’onore e detta con l’accento melodiosodi un uccello che sta per spiccarsi dal ramo, ebbe un effetto formidabile, accresciuto anche dalla rara bellezza del giovane marinaio, fatta più spirituale dalle ultime e sì cocenti esperienze.
enza volere, come se la gente della nave fosse il veicolo di una corrente elettrica, con un sola vocedall’aalto e dal basso, un grido si levò: “Dio benedica il capitano Vere”. E in quell’istante Billy dovette essere in tutti i cuori come già era in tutti gli occhi. (p.182-183)

Herman Melville, La storia di Billy Budd, Bompiani, 1942

Il testomelvilliano è stato oggetto di una trasposizione in opera lirica (arrangiamento musicale su libretto di Edward Morgan Forster e Eric Crozier) da parte di Benjamin Britten.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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