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2 novembre 2020 1 02 /11 /novembre /2020 06:04

Questa notte, dopo lungo tempo, ho sognato mio padre. Camminava lungo il corridoio di casa, vestito di tutto punto in giacca e cravatta come quando si vestiva per andare al teatro, il volto atteggiato in un'espressione tesa e concentrata.
L'ho salutato pieno di gioia (poiché era da tanto che non mi visitava in sogno), ma lui ha proseguito il suo cammino, come se fosse troppo preoccupato per soffermarsi a rispondere. Cose più urgenti e gravi attiravano totalmente la sua attenzione, pensavo.
Io, nel sogno, ero allo stesso tempo bambinetto di pochi anni e adulto di molto più anziano di lui.

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2 aprile 2020 4 02 /04 /aprile /2020 06:40

Ecco di seguito un vecchio - e divertente - post di circa 10 anni fa che tratta di un prodotto che, già molto prima, aveva acquistato una certa popolarità tra i più giovani e che, periodicamente, aveva trovato una nuova diffusione (secondo un trend squisitamente generazionale che decreta corsi e ricorsi). Ciò che appare nuovo alla generazione più giovane è in realta un "vecchio" di cui si è persa memoria e che ritorna in forma "restyled".

Certi prodotti di merchandising sono intramontabili. Proprio in questi giorni sono i giovanissimi cultori di "Me contro te", a ritrovarsi con l'offerta di nuove varianti dello slime.
Forse proprio per questo motivo sono andato a cercare questa nota di tanti anni fa
Ma forse leggendolo si potrà apprezzare anche l'aspetto descrittivo della passeggiata con il cane, della visita all'edicola e della lunga chiacchierata oziosa con l'edicolante, tutti aspetti che oggi, ai tempi del Coronavirus ci sono preclusi, sia per via della forza dei decreti ai quali per senso civico obbediamo, sia anche per una forma pacata di diffidenza nei confronti del nostro prossimo che determina nei contatti occasionali una scarsa propensione alla conversazioneoccasionale, per strada o negli esercizi commerciali.

Ieri mio figlio (che, per la cronaca, va per i 16 anni) mi ha fatto fare una figura davvero barbina.

Visto che scendevo a far due passi con il cane e passavo dall'edicola, mi ha detto: "Papà, vedi se hanno lo Skifidol, slom, slim... insomma, non ricordo bene, lo Skifidol qualcosa".

"Va bene!" - ho replicato io docile.

Arrivo in edicola e acquisto le mie cose.

Poi ricordandomi della richiesta di mio figlio, dico: "Avete lo 'Skifidol'?"

"Ma, veramente ce ne sono tanti tipi diversi... Lei quale vuole?"

[davvero surreale...]

Ho pensato, tra me e me: Mi avrà preso per un maniaco delle cose viscide...

"Non so... [imbarazzo] ...veramente è per mio figlio".

"Ah!".

"Se mi consente, faccio una telefonata a casa e chiedo proprio a lui (visto che è il committente...).

Chiamo: dopo lunga attesa (l'avevo lasciato a guardare, intrippatissimo, Saw - ed era già arrivato al terzo film della serie...) - si degna di rispondermi...

"Senti un po', qua hanno una cosa che si chiama Skifidol Slime... E' questo quello che volevi? Ma ce ne sono tipi diversi: c'è quello viola, quello giallo e quello rosso, al momento... davvero un'ampia gamma...".

"Mah... Non so... Scegli tu, per me fa lo stesso".

[davvero, d'aiuto!]

Sempre più imbarazzato ho chiesto ulteriori delucidazioni per potere scegliere in modo informato.

Le confezioni, tutte identiche, avevano l'aspetto di piccoli bidoncini di plastica, agitando i quali si sentivano rumori di inquietante sciaguattio, come di un liquido denso sguazzante contro le pareti.

Un bel mistero, per me.

L'edicolante mi dice: "Quello giallo è all'urina (è immediata per me la sensazione di nausea), quello rosso al vomito (la sensazione di nausea si tramuta in conato a stento represso), quello viola al concime (e qui un'immediata impressione di benessere mi ha preso di fronte ad una cosa relativamente normale)".

Aggiungo, quasi per giustificarmi: "Sapete, è per mio figlio che ha 15 anni. Io non ne capisco nulla di questa cosa...La sto prendendo per lui, mica per me" (giusto per ribadire, a scanso di ulteriori equivoci).

Ma l'imbarazzo rimane forte egualmente.

"Va Bene. Prenderò quello al 'concime', degli altri due non posso sopportare nemmeno il pensiero!".

Vado a casa. Grande divertimento di mio figlio, quando riceve ciò che aspettava: ha subito aperto la confezione tirando fuori dal bidoncino una masserella dall'aspetto vomitevole che si spande da tutte le parti come un blob malefico e dal colore viola-shocking, degno di Elsa Luisa Maria Schiaparelli.

Gli dico: "Mi hai fatto fare una figura penosa all'edicola: La prossima volta vacci tu a comprare lo Skifidol! Per attenuare la vergogna, gli ho detto che era per te...".

"E gli hai detto la mia età?"

"Certo!"

"Avresti potuto far finta che ero più piccolo e dirgli che avevo cinque anni..." (evidentemente, lui stesso si sarebbe sentito in imbarazzo a richiederlo all'edicolante... Meno male! Almeno è un po' sensibile su questo punto... però, rifletto anche, proprio per questo mi ha vilmente mandato in avanscoperta...).

Ci gioca tutto il tempo nelle successive due ore, ispirandomi continue sensazioni di disgusto ogni volta che si avvicina con quella "cosa" tra le mani, invitandomi a palparla, a strizzarla, a maneggiarla, a farmela scorrere sulla pelle.

Una parte del suo godimento deriva dal mio raccapriccio e dall'espressione sgomenta che mi si dipinge in volto ad ogni suo tentativo di appiccicarmela addosso o di farmela toccare.

Non posso nemmeno sentirmela vicina quella "cosa", ma oggettivamente non emana alcun odore, malgrado l'aspetto così nefasto e malgrado ildecantato aroma al concime (secondo me, a posteriori, l'edicolante, vedendo il mio imbarazzo e avendo colto al volo la mia incompetenza in materia, ci aveva un po' marciato su questi aspetti).

"Toccalo, toccalo!" - mi dice mio figlio tutto eccitato - "Non è appiccicoso. Non macchia. Non si attacca alle superfici!"

I giochi di mio figlio si moltiplicano: e diventa anche sperimentale, valutandone la capacità di espansione e di assottigliamento senza che si laceri, o di allungamento in un filo sottile...

Almeno, non ho mancato di fare delle foto.

La mia piccola vendetta: gli ho detto: "Ora una di queste foto la metto nel tuo profilo FB".

"Noooooo!" - ha fatto lui - "Non farlo perché poi mi taggano per l'eternità, mentre faccio questo gioco...".

Anche lui, allora, ha i suoi pudori...

 

Skifidol slime. Nulla di nuovo sotto il sole. In corsi e ricorsi le stesse vengono proposte con nomi diversi ed anche funzioni diverse.

In fondo l'antecedente illustre di Skifidol è "Blob", l'informe extraterrestre dall'aspetto di ameba melassosa che tutto ingloba al suo passaggio.

Successivamente, negli anni Ottanta, nella saga dei "Masters Of the Universe" un famoso cartone animato con tutto un corredo di merchandising di oggetti per l'infanzia, venne fuori un tranello a forma di trono dove i personaggi buoni (He-Man, in testa, l'eroe indiscusso della saga) venivano intrappolati dal cattivo faccendiere che voleva diventare, con i suoi intrighi, padrone dell'universo e, azionando una leva a lato del trono, una pasta verdastra, densa e vischiosa, colava sul personaggio, impicciandolo.

Ma ogni volta, azionando un'altra levetta che liberava un meccanismo a molla, il prigioniero che, per definizione,era invincibile si liberava e ancora una volta trionfava nella sua battaglia contro il Male.

 

Skifidol su Wikipedia: https://it.wikipedia.org/wiki/Slime_(gioco)

Sono tanti appiccicosi
tutti da lanciare...
sono trasparenti, colorati
e ti fanno scompisciare!

Skifidol Attack è il loro nome,
sono elastici e invadenti...
divertono anche i secchioni
e son tutti travolgenti!

Con Manine e Piedoni puoi ora scatenarti veramente...
e sfidare i tuoi amici
con il gioco più divertente!

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31 gennaio 2020 5 31 /01 /gennaio /2020 11:56

Un giorno Gabriel mi ha chiesto: Papà, ma tu quando muori?
Sono un po' basito. Farfuglio qualcosa, poi gli dico: Spero non subito...
Replica di Gabriel: Domani? Dopodomani?
Io: Non so... Ma di certo vorrei il più tardi possibile!
Gabriel: Allora, tu morirai tra un milione di anni!

Tutto è connesso. Mi sono ricordato di un frammento di dialogo tra mia madre ultranovantenne e la signora Maria, da oltre 30 anni impiegata presso di noi come governante. 

Mi racconta la signora Maria che un giorno, quando già si era improvvisamente indebolita, la mamma le disse: Eh, Maria! Presto partirò per un lungo viaggio. E, dopo una pausa, aggiunse: E mi devi promettere che quando io sarò partita ti prenderai cura dei miei figli. La signora Maria, per sdrammatizzare, le disse: Ma, signora Irene, un viaggio per dove? Dove se ne vuole andare?

E la mamma replicò: Sarà un viaggio verso un paese molto, molto, lontano.
Ma non aggiunse altro. Fu una dellepoche volte in cui parlò della sua fine. Altre volte ci diceva, quando si rendeva conto che la sua efficienza si andava incrinando (soprattutto nell'essere di supporto a mio fratello) ci diceva che avrebbe essere portata al Polo Nord ed essere lasciata ad addormentarsi fuori nel freddo e al buio, come un tempo usavano fare gli Inuit (Eschimesi) anziani che, quando si rendevano conto che stavano per diventare decrepiti ed incapaci di avere un ruolo attivo nella vita del gruppo familiare, si allontanavano a piedi trai i ghiacci della Groenlandia, dove poi aspettavano la morte4 per assideramento. Aveva letto tanto prima il Romanzo "Il paese delle Ombre lunghe" (deldimenticato, oggi, Hans Ruesch) che io le avevo passato e neera rimasta molto colpita.

Mia mamma, Irene Salatiello Crispi

C'era molta serenità in questi suoi discorsi, una serenità che nulla aveva a che vedere con la sicurezza di ciò che ci attende nell'Aldilà che la Fede cristiana fornisce circa la promessa di una vita eterna. Non entrava mai nel merito del "dopo", anche se sono convinto che la mamma, pur nella laicità della sua visione, avesse comunque la percezione che sarebbe entrata nel "Mistero" (un mistero insondabile, per la verità) e, in questo processo di transizione, non chiedeva mai aiuto a nessuno, confidando esclusivamente in se stessa, così come aveva fatto nella sua vita operosa affrontando tutte le piccole e grandi battaglie quotidiane.

E la notte seguente ho sognato.  
Mi ritrovavo a tentare di estirpare una tenace pianta grassa. Sembrava fosse viva e le sue radici, grosse come arti, si spingevano dentro la terra avviticchiandosi ad altri tronchi vicini.

Con la sua resistenza, manifestava una forte volontà di sopravvivenza.
Poi, quando con uno sforzo estremo riuscivo ad eradicarla, la pianta divelta prendeva a muovere il moncone delle radici come fruste, divincolandosi dalla mia presa. E avevo la sensazione che stesse diventando con questo moto minacciosa, capace di sopraffarmi: una vaga ma crescente sensazione di pericolo, quasi fossi alle prese con una belva.
E questo frenetico movimento continuava fino a che non recidevo quelle grosse radici pulsanti con una forbice da giardinaggio, incontrando una resistenza all'azione delle lame non di certo lignea ma come di carne viva.

 

Oliver Sacks, Gratitudine, Adelphi

Il giorno dopo, al risveglio, ho afferrato da un piccolo cumulo di libri non ancora letti “Gratitudine” di Oliver Sacks e nel giro di poche ore soltanto, grazie alla sua esilità, l’ho letto.
Il piccolo volume raccoglie quattro scritti autobiografici di Sacks composti nel periodo che decorre dal compimento dei suoi ottant'anni, evento seguito quasi immediatamente da quello infausto dell'identificazione di una grossa metastasi epatica di un melanoma all’occhio di cui aveva sofferto anni prima, alla morte.
Si tratta di pagine che disegnano sentieri già da lui già percorsi ma che hanno allo stesso tempo la valenza un commiato dalla vita e di un rapido, intenso, bilancio del suo percorso vitale, in cui ciò che domina, più che la nostalgia per ciò che egli si accinge a lasciare, è il sentimento di gratitudine per ciò che egli ha potuto fare, per le tracce che è riuscito ad imprimere e, soprattutto, per ciò che ha ricevuto dagli altri. Tutte cose per le quali provare un sentimento di gratitudine che, in nessun modo, potrà essere offuscato dal rammarico di fronte alla vita che fugge via.
Sacks scrive dalla vetta dei suoi ottant'anni: è un’età che ancora non mi appartiene e che non so se raggiungerò; in ogni caso. le sue parole mi hanno offerto fecondi spunti di riflessione.

 

Oliver Sacks

Oliver Sacks, nato a Londra in una famiglia di fisici e scienziati - il più giovane di quattro fratelli di una coppia ebrea -, è stato neurologo e scrittore.
In Gran Bretagna frequenta il Queen's College a Oxford dove consegue Bachelor of Arts nel 1954 in fisiologia e biologia. Presso la stessa università, nel 1958, intraprendendo un Master of Arts, ottiene una laurea in medicina e chirurgia, che gli permette di esercitare la professione di medico.
Lascia l’Inghilterra per trasferirsi prima in Canada e poi negli Stati Uniti nel 1965. Professore di Neurologia clinica presso l’Albert Einstein College of Medicine e di Neurologia alla New York University School of Medicine ha iniziato la sua attività di divulgazione scientifica descrivendo le sue esperienze neurologiche con i pazienti negli anni Settanta e pubblicando anche su The New Yorker e The New York Review of Books articoli di carattere medico- scientifico. Il suo libro più conosciuto è Risvegli, dal quale è stato tratto il film con Robin Williams e Robert De Niro, e a cui sono seguiti i racconti altrettanto noti di altri suoi casi clinici Su una gamba sola e L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello. Tra gli altri suoi libri L’isola dei senza colore, Emicrania, Un antropologo su Marte, Allucinazioni, editi in Italia da Adelphi. Feltrinelli ha pubblicato Diario di Oaxaca nel 2004.
Oliver Sacks è morto a New York il 30 agosto 2015.
"La fortuna mi ha abbandonato" aveva scritto in una lettera a febbraio sul New York Times annunciando il cancro al fegato "Ora spetta a me decidere come vivere i mesi che mi restano. Devo vivere nel modo più ricco, profondo e produttivo che posso".
Tra le sue ultime dichiarazioni:
"E ora, in questo frangente, in cui la morte non è più un concetto astratto, ma una presenza — una presenza fin troppo vicina e a cui non puoi dire di no — mi sto di nuovo circondando, come feci quando ero ragazzo, di metalli e minerali, piccoli emblemi di eternità."
"Qualche settimana fa, in campagna, lontano dalle luci della città, ho visto il cielo intero «spolverato di stelle» (per dirla con Milton); un cielo come questo, pensavo, si può vedere solo su altipiani elevati e desertici, come quello di Atacama in Cile. Questo splendore celeste mi ha fatto improvvisamente capire quanto poco tempo, quanta poca vita, mi siano rimasti. La mia percezione della bellezza del paradiso, dell’eternità, era per me inseparabilmente mescolata con un senso di transitorietà — e di morte. Ho detto ai miei amici, Kate e Allen: «Mi piacerebbe vedere di nuovo un cielo come questo mentre muoio». «Ti porteremo fuori con la sedia a rotelle», mi hanno risposto."

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15 maggio 2019 3 15 /05 /maggio /2019 08:22
Salvatore Crispi da piccolo

Le riflessioni che seguono scaturiscono da una vecchia foto in cui mi sono imbattuto casualmente  l'altro giorno, un'immagine dell'infanzia di mio fratello. Guardando questa foto un po' sfocata, sono stato colpito dal suo sorriso e anche dalla sua postura dritta (che aveva conquistato grazie alla continua fisioterapia cui era sottoposto, inizialmente anche in centri fuori dalla Sicilia. Salvatore da piccolo poteva stare seduto con la schiena dritta, senza accoffolarsi in avanti, come invece era negli ultimi della sua vita.
Mi sorprende guardare queste sue foto. Malgrado la sua grave disabilità, io credo che sia stato un bambino felice, perché era cresciuto in un ambiente familiare di totale dedizione, ma soprattutto per il fatto che i miei genitori - sin dall'inizio - avevano cercato di farlo crescere pienamente integrato nell'ambiente familiare allargato e nella dimensione sociale, dandogli l'idea e il feeling che lui non era un "diverso" e che, comunque, gli erano aperte molte possibilità.
Nello stesso modo, io fui addestrato da miei genitori a tenere conto dei suoi limiti, sempre, e nello stesso tempo, a fornire tutto l'aiuto necessario in modo tale che nessuno fosse insostituibile (e così è stato, quando mio padre è morto precocemente). I miei genitori per molto tempo della nostra infanzia facevano in modo che lui potesse partecipare a tutte le attività familiari, comprese gite, escursioni, picnic, brevi viaggi, oppure semplicemente l'andare al mare nei mesi estivi. Si faceva tutto assieme sempre, rispettando il principio del "Nessuno deve essere lasciato indietro". Per loro era importante che Salvatore venisse considerato alla pari: era per questo che, nei limiti del possibile, a volte lo mettevano in piedi per ritrarci in fotografia: e allora, da ragazzo, sempre grazie alla fisioterapia poteva reggersi in piedi, se sostenuto opportunamente e senza applicare una forza eccessiva per tenerlo su, perchè in questi casi in mancanza di una motilità volontaria era la stessa spasticità a fungere da leva (si può vedere questo in una delle immagini successive, in calce al testo). Ed erano fieri di lui e dei suoi progressi: non ritenevano - in difformità all'atteggiamento mentale di molti - che la disabilità fosse una cosa da nascondere o di cui vergognarsi, in quanto oggetto socialmente scomodo. In questo, i mei sostenuti dalla loro intelligenza e dall'amore che provavano per il loro primo figlio, furono dei veri pionieri.

E c'era da un lato la mamma che non perdeva mai il sorriso e papà che si assumeva il compito di infondere forza e di assumersi il privilegio/onere di svolgere i compiti più gravosi, soprattutto quando Salvatore crescendo era aumentato di peso: sino al 1962, dunque sino ai suoi 14 anni e rotti, abitammo in una casa senza ascensore, sia pure al primo piano. E quello del trasporto da casa sino all'auto divenne presto un compito esclusivo di mio padre: declinava quasi sdegnosamente ogni offerta di aiuto. Quando Papà non c'era, ero io ad aiutare la mamma nelle entrate e nelle uscite a casa.
Ecco, i miei genitori si fecero carico di tutto e per tutto di mio fratello, metaforicamente e materialmente.
Io sono cresciuto in questo clima, di parità. La mamma non aveva un comportamneto differenziato, in termini di maggiore tolleranza, nei confronti di mio fratello. Se la facevamevo innervorsire, con la ridarella, per esempio, di rimproveri ne dispensava in maniera eguale a me e a lui: un'attitudine di eguaglianza, mai viziata da un eccesso di buonismo protettivo di marca cattolicheggiante. E io appresi a comportarmi nei confronti di mio fratello come un'eguale: quando ebbe una prima carrozzina moderna (portata dalla Germania da mio zio Giovanni) che apparve ai miei occhi come uno spider rispetto alla precedente oesante e poco maneggevole, quando eravamo in casa da soli (anche se la nonna era presente, era come se fossimo soli), io da spingitore, mi lanciavo in corse pazze su e gù per la casaosa, affrontando gli angoli e i punti di svolta a tutta birra e rischiando qualche volta di far ribartare la carrozzina. E io stesso qualche volta mi ci mettevo seduto per provarla. Per via di questa attitdine di papà e mamma io sono diventato rapidamente capace di occuparmi di mio fratello, fondamentalmente con lo spirito che così facendo non stessi facendo nulla di eccezionale o di straordinario, ma soltanto una cosa assolutamente normale e ordinaria: cose come alzarlo dal letto, mettecelo, aiutarlo a mangiare, quando i miei uscivano. E anche in queste circostanze ci divertivamo da matti.

 

Salvatore Crispi: da piccolo, sul cavallo a dondolo

Poi, in una fase successiva, i miei decisero diversamente. Rifletterono sul fatto che, procedendo in questo modo, io sarei stato sacrificato e che avrei dovuto andare incontro a delle rinunce che non era giusto infliggermi. Con la crescita corporea di mio fratello le difficoltà logistiche erano aumentate a dismisura, anche perchè negli anni Sessanta e ancora dopo, ci si doveva muovere in un mondo irto di barriere architettoniche. E fu così che decisero di differenziare le cose: a partire dai miei 11 o 12 anni, ogni estate io facevo un breve viaggio con la mamma in luoghi relativamente lontani: le più grandi città italiane come Roma, Venezia, Napoli e alcuni paesi europei. Questo, una volta, pochi mesi prima di morire, mi raccontò la mamma, chiedendomi scusa - a mo' di preambolo - se, in tante circostanze, aveva privilegiato Salvatore, trascurandomi.
Forse proprio per questa forma di integrazione massima, mio fratello negli anni dell'adolescenza, assieme ai cambiamenti legati alla pubertà,  ebbe un lungo periodo di crisi, perché cominciò a non accettare più tanto la sua disabilità.
Ricordo di un periodo difficile durato mesi interi in cui chiedeva disperato ai miei genitori di aiutarlo a farlo guarire, dichiarandosi disposto a sottoporsi a qualsiasi intervento chirurgico che fosse possibile fare, anche se fosse stato a rischio di riuscito o se avesse potuto mettere a repentaglio la sua vita. Ricordo  notti insonni in cui mio fratello nel suo letto piangeva e si disperava, mentre i miei cercavano di consolarlo, sentendosi del tutto impotenti. Cosa non farebbe un genitore per far stare bene il proprio figliolo? A volte lo si fa, persino implorando il miracolo: la mamma mi ha raccontato, più avanti negli anni,di essere stata con lui persino da Padre Pio (ma questo accadeva nei suoi primi anni di vita).
Ovviamente, non c'era alcun tipo di intervento chirurgico che si potesse affrontare per sanare la situazione.
Alla fine, lui si rassegnò. Si ristabilizzò. Non perse il suo sorriso, che però da quella fase cruciale della sua vita, fu venato di malinconia.
Ed anche dopo quella crisi, non lesse più un solo romanzo, perchè i romanzi forse gli facevano sentire la discrepanza tra le infinite possibilità della fantasia e i limiti duri del suo mondo con cui doveva quotidianamente confrontarsi.  Viceversa, si avviò un processo di riconversione totale dei suoi interessi intellettuali ed ebbe inizio il lungo, inarrestabile, processo di approfondimento delle tematiche concernenti le disabilità in tutte le le loro sfaccettature: credo che ebbe un ruolo decisivo in questo percorso la creazione da parte di mio padre dell'ASAS (ovvero Associazione siciliana per l'Assistenza agli Spastici)

Il sorriso di mio fratello
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12 maggio 2019 7 12 /05 /maggio /2019 19:27
Francesco Crispi canottiere (1935)

Gli anni in cui mio padre praticò il canottaggio agonistico furono ovviamente quelli dell'anteguerra (sicuramente dal 1936 per quanto riguarda le competizioni del GUF).
Non ho notizie precise su quando esattamente abbia cominciato a vogare e perchè, cosa l'avesse spinto in quella direzione, insomma: sicuramente, comunque, l'avvio delle attività agonistiche fu dopo il compimento del 18° anno o giù di lì. Faceva parte della compagine della Canottieri Palermo, anche se credo - ma non sono del tutto certo di questo -che per un periodo fosse nella squadra del Dopolavoro ferroviario (mio nonno lavorava nelle Ferrovie) e, sicuramente, come universitario partecipava alle competizioni di canottaggio nella cornice dei GUF, ovvero "Gruppi universitari fascisti" che furono l'articolazione universitaria del Partito Nazionale Fascista (di queste partecipazioni ho trovato un ritaglio di giornale, con tanto di foto), di cui lui stesso mi parloò qualche volta.
La sua specialità era il Due senza e il suo compagno di voga fu da sempre Gianni Carbone (che, solitamente occupava il posto di voga n. 1 (capovoga, ovvero).  Ma poi, a seconda delle circostanze, mio padre e lo stesso Carbone facevano parte di altri armi, a quattro e a otto vogatori.
I vogatori di Palermo allora non erano molti: il canottaggio, come altri sport, era un'attività di élite, che come altri sport si considerava un'emanazione delle attività ginniche..
Quindi, ciascun vogatore faceva molte cose: non poteva essere specializzato in un unico armo.
Papà partecipava ogni anno, sin dall'inizio delle sue attività agonistiche, ai "Littoriali dello Sport" che, con la dizione completa di Littoriali dello Sport, della Cultura e dell'Arte e del Lavoro, erano manifestazioni culturali, artistiche e sportive, destinate ai giovani universitari, svoltesi in Italia tra il 1932 ed il 1940 e che, allora, per quanto riguarda il loro versante sportivo si ponevano come una tra le massime competizioni nazionali nelle varie discipline.
Nel Due senza, lui e il suo compagno di voga, salivano sempre sul podio, spesso sui primi due gradini. Così lui mi raccontava spesso con un giustificato orgoglio.
Di fatto, era un giovane promessa. Papà mi diceva sempre che, se non fosse intervenuta la guerra e se si fossero disputati i Giochi Olimpici del 1940, quasi certamente sarebbe stato selezionato per prendervi parte. E c'era del rammarico nelle sue parole, si capiva bene dal modo in cui la sua voce si faceva quasi sognante.
Sempre nell'anteguerra, partecipò ad un corso di formazione per allenatori di canottaggio.
Il canottaggio gli rimase sempre nel cuore e ha continuato a praticarlo amatorialmente: Ogni volta che poteva usciva a vogare, sia utilizzando le barche della Canottieri Palermo, sia alla sede di Mondello del Circolo Canottieri Roggero di Lauria.
Quando io compii i 17 anni, fu lui ad iniziarmi al canottaggio e darmi i primi rudimenti della voga. Ed io seguii più che volentieri la strada che lui mi aveva indicato.

 

Il quattro senza del GUF Palermo ai campionati siciliani del 1936 (Messina)

Mi insegnò personalmente i primi rudimenti, utilizzando il cosiddetto "Canottino" che era una specie di gozzo (ma più slanciato e leggero) con i classici banchi trasversali per sedersi ed un unico posto di voga con gli scalmi mobili nella fiancata e, poi dopo che ebbi i primi rudimenti, la Iole a posto singolo dotata di strapuntino per un passeggero-istruttore.
Su questo tipo di imbarcazione mi insegnò la tecnica di voga vera e propria, prima mostrandomi come si faceva e poi facendomi vogare mentre lui seduto nel posto del passeggero, mi andava correggendo. Questo tipo di Iole ormai nei circoli di canottaggio è virtualmente scomparsa.
Papà, nella voga, era sempre forte e mi intimoriva: rimase proverbiale, la volta in cui in un'uscita con il Canottino fui capace di far cadere in acqua lo scalmo di ottone, sicchè per salvare la situazione fu lui a mettersi al posto di voga e fare ritorno alla sede a mare del Lauria utilizzando un remo solo. In quella circostanza papà non perse il suo contegno, ma ebbi la sensazione che fosse stato davvero irritato dalla mia sbadataggine e che lo costrinse a fare rientro nella sede del circolo, come un principiante.

Mio padre e il canottaggio
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Mio padre e il canottaggio
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16 aprile 2019 2 16 /04 /aprile /2019 07:23

Nel settembre 2009 andai a seguire una gara podistica (già allora non correvo più, ma partecipavo agli eventi di ultra come fotografo).
Mi sono imbattuto in un DVD nel quale erano salvate alcune gallerie fotografiche di quel periodo
Non sono riuscito subito a ricordare di quale gara si trattasse: per saperlo avrei dovuto consultare la mia agenda di quell'anno che, al momento, non avevo a portata di mano, ma poi in quello stesso archivio di DVD ho ritrovato anche le foto della gara podistica. Si trattava di una delle prime edizioni della "6 ore di Angizia" (Luco dei Marsi, pronvincia di Aquila, Abruzzo) che, in quell'anno, alla vigilia, ospitava anche un raduno degli atleti di ultra di interesse nazionale e un convegno sulla ultramaratone, nel quale io svolgevo la funzione di moderatore.
A quel tempo facevo parte del consiglio direttivo della IUTA ed ero il responsabile dell'Area Comunicazione.
In quel viaggio, come a volte succedeva, mi accompagnò mio figlio Francesco.
Eravamo partiti in auto da Palermo. All'andata eravamo sbarcati a Napoli, mentre per il ritorno avevo deciso di imbarcarmi a Civitavecchia,
Non c'erano margini di tempo troppo ristretti e quindi abbiamo potuto fare la strada verso il luogo dell'imbarco con comodo, con spazi aperti per il vagabondaggio turistico "on the road".
L'imbarco a Civitavecchia lo avevo scelto, anche perchè - il giorno successivo alla gara di Angizia - era previsto un sopraluogo nella zona attorno a Tarquinia (Viterbo) dove si sarebbe disputato Il Campionato del Mondo IAU 100 km: con alcuni componenti del Consiglio direttivo della IUTA, assieme al presidente del comitato organizzatore della 100 km degli Etruschi abbiamo fatto questa diversione. E poi ciascuno è andato per la sua strada: con Francesco quindi siamo rimasti a girare per Tarquinia e dintorni, tra il 7 e l'8 settembre in attesa dell'imbarco a Civitavecchia. Le foto che ho ritrovato sono state scattate appunto proprio in quest'arco di tempo.
Un'autentica situazione da "viaggio con papà", di cui nel momento in cui scrivo questa nota, dopo diecianni ho quasi perso memoria.
Imbattersi in questa galleria fotografica è stata per me una sorpresa davvero grata.
La maggior parte delle foto sono state fatte in giro per Tarquinia, una cittadina che presi ad amare molto dopo che l'ebbi scoperta, in occasione della mia unica partecipazione alla 100 km degli Etruschi, forse nel 2006, e dove sono tornato tutte le volte che ho potuto.
Altre, invece, sono state scattate a Tuscania.
Cosa dire di quelle foto? Mi ricordano nostalgicamente di un momento del passato. Quando vivi un evento, dei giorni, delle circostanze, non sai mai sei sei felice o meno, semplicemente non ti poni il problema. Se volgi lo sguardo indietro al passato dal momento presente, riporti in vita il tuo spettro di un tempo remoto e hai l'impressione che quel particolarmente momento fosse particolarmente felice, anche se quel momento era la risultante di un gioco complesso di luci ed ombre, di gioie e di dispiaceri, di tormenti interiori e di slanci. Eppure, guardando indietro, tendi ad espungere e a omettere le parti spiacevoli, come se se venisse inserito un filtro che elimina tutto ciò che possa alterare la rappresentazione immobile di un orizzonte perduto, una sorta di Shangri-la della mente. Ed è per questo motivo che il tuffo nel passato impone al gioco delle emozioni un sentimento nostalgico, relativamente ad un "come ero" non realistico. Ma vi è di più, un salto indietro nel tempo (nel caso di cui stiamo parlando, si tratta di un flashback, collocabile circa dieci anni prima), comporta il confronto anche con le perdite e i lutti che si sono succeduti. Eravamo nel 2009 e ancora, la mamma non era morta. Mio fratello godeva di buona salute. Frida era viva e vegeta (anche se nella circostanza l'avevo messa a pensione): quindi, guardando quelle foto, guardo un'immagine di me ancora vergine dall'aver sperimentato dolori e perdite (altri ce n'erano stati prima, ma il tuffo in un particolare momento del passato, comporta l'attenuazione - se non una completa schermatura - dei momenti dolorosi ancora precedenti). E poi c'è ad affacciarsi prepotente quella dimensione del viaggio, l'ampiezza degli orizzonti aperti davanti a me (come quando si viaggia su di una strada e ci si ferma qua e là a curiosare, in totale libertà). E questo, assieme alla leggerezza d'animo (che almeno apprentemente si evidenzia) dà la misura della differenza rispetto al momento presente, quello in cui mi sembra che l'ampiezza dell'orizzonte davanti a me si sia ristretto e si sia fatto asfittico, assieme all'altra consapevolezza - quella che dà l'irrimediale misura del tempo trascorso tra quel momento del passato ed ora - della sentenza di un termpo che si ò fatto stretto: non più un tempo illimitato e di una fonte inesauribile di energia, ma un tempo drammaticamente a termine (con le inevitabili riflessioni sulla fine).
Ancora, al tempo di quegli scatti non avevo avviato il mio profilo facebook.
Queste foto, quindi, sono del tutto inedite.

 

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4 aprile 2019 4 04 /04 /aprile /2019 14:20

Il presente scritto si riconnette ad uno più lungo che pubblicai alcuni anni fa nel blog dedicato a mio padre (Francesco Crispi giornalista. Chi era), nel tentativo di creare per lui una vita digitale post-mortem, visto che lui venne a mancare, quando ancora le connessioni digitali non avevano preso piede (ed ancora era ben al di là dal venire il PC come strumento di scrittura e di conservazione dei dati personali di ciascuno).
In quello scritto rievocavo il giorno della morte di papà e quelli successivi.
Questo, più breve, è centrato sul rimpianto di una mia azione mancata ed è stato stimolato da una lettura che mi sono ritrovato a fare nei giorni precedenti (più che altro è stata una singola frase ad avermi colpito).

Si ritorna spesso nei luoghi della mente dove continuano a vivere i nostri dolori e i lutti che abbiamo subito.
In calce inserisco il link a quello scritto.

Francesco Crispi (foto dall'archio fotografico di famiglia)

Una mattina mio padre partì.
Era usuale per lui partire per motivi di lavoro.
Sempre in aereo, il più delle volte.
Viaggi rapidi, spesso dalla mattina alla sera: la meta principale e più frequente Roma.
Quindi, il suo uscire per una partenza non era molto differente da una normale uscita per andare al lavoro in città. Nulla di diverso da una normale routine.
Alle sue partenze così frequenti in famiglia non si riservava mai una particolare attenzione. Eravamo ben organizzati anche per quanto riguardava tutte le necessità di mio fratello.
Quella mattina, lui era di partenza ed io mi ero già impossessato del bagno che condividevo con lui.
Mi salutò attraverso la porta chiusa.
Io ricambiai distrattamente, quasi irritato da questa interruzione. Non feci il minimo sforzo per aprire la porta e ricambiare con un minimo di calore.
Mio padre non fece più ritorno, da vivo.
Ma questa è storia nota. Il suo aereo si schiantò sul monte, al suo ritorno, quella sera stessa.
Non lo vidi più, nemmeno nella cassa da morto.
Ciò che vidi fu soltanto una bara già sigillata e mi dissero che lui che era lì dentro.
Ho sempre rimpianto nella mia vita quel saluto non dato con il calore che avrebbe richiesto quel commiato, se il destino dietro la porta si fosse in qualche modo annunciato, in forma di presentimento o che so cosa.
Se avessi saputo che quella era l'ora del commiato definitivo, mi sarei precipitato ad aprire la porta e a stringerlo tra le braccia in un forte e definitivo abbraccio. E ho pensato che quella porta chiusa, a creare una separazione fisica tra me e lui, sia stata un'anticipazione di quell'intercapedina di legno e zinco della separazione negativa e definitiva, irrevocabile, quando il suo corpo - o quel che ne restava - entrò in casa dopo più di due giorni dal disastro per una veglia dolente.
O forse no: tra me e lui, in quel periodo, c'era un certo impaccio nell'intimità fisica. Stavamo un po' a distanza: e questo distanziamento era accentuato dal fatto che, da un lato, ammiravo mio padre per la sua statura intellettuale e lo ponevo su di un piedistallo per me irraggingibile, dall'altro, aborrivo i suoi piccoli difetti che invece lo rendevano umano. Ed ero in una fase della vita difficile, poichè cercavo di distanziarmi da lui e non semplicemente vivere nella sua ombra gigantesca. A chi mi diceva: "Allora, sei il figlio di Ciccio Crispi?", io solevo rispondere irritato:: "Sono Maurizio Crispi", seguendo il classico copione iconoclastico dell'adolescenza ribelle.
Quindi, è probabile che quell'abbraccio non ci sarebbe stato. Ma forse, se avessi aperto la porta, ci sarebbe stato almeno il ricordo di un ultimo vis à vis.
E' così che io rimpiango quell'ultimo commiato che non ci fu mai, o abbraccio o sguardo mancato che fosse stato. Per non contare poi tutte le parole non dette, rimaste per sempre in sospeso.
La sua partenza, in realtà, lasciò in me un vuoto incolmabile, le cui tracce tuttora riconosco dentro di me.

Un'immagine che ben può rappresentare l'idea e il sentimento di un commiato.

Un'immagine che ben può rappresentare l'idea e il sentimento di un commiato.

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26 marzo 2019 2 26 /03 /marzo /2019 08:53

Nell'aria vibrante del primo mattino
profumata di primavera
corro come un tapascione
Intanto, penso
sono
e ricordo
Andavo al cinema con mia madre, da piccolo
Spesso
A vedere magari film poco adatti per la mia età
Ne ricordo due
Il Pianeta proibito (che poi mi procurà gli incubi)
e Orizzonte perduto (e, anche in questo caso, la scena finale rimase
indelebilmente impressa nella mia giovane mente)
E poi tanti altri film, potrei menzionare qui
Ben Hur oppure El Cid
ma anche mio padre soleva portarmi al cinema
Ma di rado ci andavamo tutti assieme
E poi ricordo con mia madre
una partita con le bocce di legno sulla sabbia
un pomeriggio inoltrato, d'estate,
mentre il sole tramontava alle nostre spalle
 e la superficie piena di impronte si riempiva di ombre
E ricordo anche le nostre sagome proiettarsi sulla spiaggia
via via più lunghe
E' il ricordo di un raro momento in cui ero solo con la mamma,
come quelle volte al cinema
Ma non ho memoria che la mamma giocasse con me
Ricordo piuttosto ore e ore di giochi solitari
con i soldatini
con le scatole di cartone che collezionavo
per usarle come blocchi di costruzione per fortezze e castelli
con i pezzi di legno spiaggiati e raccolti sulla sabbia
e di cui ero gelosissimo
con i tappi di metallo delle bibite e delle gazose
che tenevo in un grande sacco di plastica indistruttibile
sino ad averne più di mille
Oppure i giochi segreti
come fare buchi nel muro
oppure mescolare gli aftershave di mio padre
per dargli fuoco
- giochi da piccolo chimico, insomma -
oppure gli esercizi alchemici di fusione del piombo
sul fornello a gas o della plastica
(la materia prima proveniva dai soldatini: che scempio!)
sempre per vedere cosa succedeva
Qualche volta, giocando, mi facevo male,
come quando mi sforacchiai la mano con un paio di grosse forbici
A parte le rare circostanze in cui, nei miei giochi, si univano i cuginetti
ero quasi sempre da solo
(non esattamente da solo, poichè in casa c'era sempre qualcuno,
ma se devo rappresentarmi, mi penso da solo)
Poi, naturalmente, c'erano le letture e i disegni
i giornalini, prima il Corriere dei Piccoli
e poi Topolino
e i romanzi, Verne e Salgari in testa a tutti
Ore e ore disteso a leggere, d'estate, a casa da solo,
quando non si andava al mare
Oppure pomeriggi interi di letture, mangiando a grossi pezzi
il pane caldo appena portato dal panificio e nello stesso tempo
ingollando parole

E sulla spiaggia ore interminabili,
scavando enormi trincee e costrendo castelli e vulcani

Questo, io ricordo della mia infanzia:
i momenti più vividi con mia madre rimangono
quelle andate al cinema e la partita a bocce sulla spiaggia,
quella volta in cui, stranamente, eravamo soltanto io e lei
Di quella partita a bocce emerge l'emozione
di un'intimità forse eccessiva con la mamma,
una sensazione che mi fece sentire in imbarazzo

 

Siamo quello che abbiamo vissuto:
la cosa che mi è venuto meglio
con Francesco, quando era piccolo,
è stata andare a vedere film con lui
e ora, guarda caso, lui ha deciso di seguire la strada del cinema

Con Gabriel lo stesso: una delle cose che preferisco di più
è quando andiamo a cinema assieme
Invece, sia con uno in passato,
sia adesso con Gabriel, la cosa che mi viene più difficile
è partecipare ad un gioco,
lasciarmi andare al flusso dell'inventiva fanciullesca
Il gioco vero, quello a cui mi sono addestrato da piccolo,
era sempre un gioco solitario
non ho mai appreso un modello di gioco partecipativo e condiviso

In fondo anche adesso, continuo a fare le stesse cose:
in campagna passo ore a scavare e a zappare,
a costruire muretti a secco,
a fare impasti con il cemento,
ad accendere fuochi
Continuo a leggere a tappe forzate,
perchè le cose da leggere sono tante
e ho la sensazione che ci sia sempre meno tempo

Ho corso questa mattina
e queste immagini si sono affollate nella mia mente.

 

Ricordare correndo
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27 aprile 2018 5 27 /04 /aprile /2018 08:22
Uomo alla finestra, Piana degli Albanesi (foto di Maurizio Crispi)

Ricordo che quando ero piccolo, guardavo sempre un manufatto di ceramica a casa dei nonni.
Si trattava di una tavoletta di terracotta (o ceramica, adesso non ricordo bene) - dimensioni presunte: un buon 15x20 se non di più -, la cui superficie era lavorata in rilievo così da apparire della consistenza di un muro di mattoni, in cui si stagliava una finestrella aperta con le imposte e gli stipiti verdi. Al davanzale stava affacciato, puntellandosi sui gomiti un omino con cappello nero a cilindro e palandrana scura.
Il volto dell'omino era sormontato da un naso adunco e non aleggiava sul suo volto l'ombra di un sorriso.
Mia nonna dai capelli bianco-azzurrini (la nonna Erminia che per me era la nonna "Ia") per farmi stare buono prendeva una seggiolina, mi ci faceva sedere proprio al cospetto dell'omino alla finestra e mi diceva: "Stai qua a guardare e vedrai che, a un certo punto, l'omino chiuderà le imposte e se ne andrà!".
Io ci credevo, e passavo ammaliato molto tempo su quella seggiolina, cercando di cogliere nel busto e nel volto dell'obiettivo il fremito di un movimento, anticipatore della complessa azione che la nonna mi aveva annunciato.

E, ogni volta che andavo in visita dai nonni, volevo sedermi proprio là davanti, in contemplazione.

il meraviglioso e il fantastico sono fatti di queste cose:

il più delle volte si stratta di un'atmosfera, di qualcosa che si anticipa con la fantasia e non importa se la cosa vagheggiata si manifesta veramente nella realtà.

E' sufficiente il fatto di poter pensare che un evento magico atteso potrebbe accadere per renderlo quasi reale.
L'omino di  terracotta, affacciato alla sua finestra è ancora nella mia mente e spesso, nella realtà, mi pare di rivederlo in fortuiti avvistamenti.

Quello che segue è il racconto originale, ouvbblicato con il titolo "L'omino affacciato alla finestra. Un ricordo d'infanzia" nel mio profilo Facebook, tra il 2009 e il 2010.

finestrella - l'omino alla finestra

Quando ero piccolo e andavo in visita a casa dei miei nonni, la nonna aveva escogitato un sistema per farmi stare buono, visto che solitamente ero irrequieto e scalmanato, come solo i bimbi piccoli sanno esserlo. Nella loro sala d'ingresso, appesa al muro, c'era una statuina di terracotta dipinta - molto realistica - che rappresentava una finestra con le persiane spalancate e dipinte (in verde), a cui stava affacciato - leggermente proteso in fuori e appoggiato al davanzale a braccia conserte - un ometto in nero (compreso un cappelluccio a tesa larga) con una faccia enigmatica su cui campeggiava un naso lievemente adunco.

Questa statuina si trovava appesa al muro ad altezza degli occhi di una persona di statura media, ma per me che allora ero alto quanto un soldo di cacio, ad una distanza incommensurabile.

Mia nonna prendeva una seggiolina per bambini la metteva di fronte alla statuina e mi diceva:

"Ora se tu stai qui a guardare, vedrai che, ad un certo punto, quel signore con il cappello chiuderà la finestra e se ne andrà. Però lo farà soltanto se tu te ne starai qui bello fermo a guardare per tutto il tempo senza distogliere la tua attenzione".

Io, pieno di meraviglia e - al tempo stesso - timoroso, mi mettevo lì con lo sguardo levato verso l'alto e stavo a guardare, a guardare, a guardare, attendendo l'evento meraviglioso annunciato.

Dopo un po' di tempo, quando mi rendevo conto non era accaduto niente, andavo da mia nonna a lamentarmene, quasi con le lacrime agli occhi.

"Non è successo niente, nonna!", mi lagnavo.

E lei: "Sicuramente, perchè non sei stato fermo abbastanza!"

 Oppure: "Magari, ha chiuso la finestra proprio adesso che te ne sei andato!, vai a controllare!"

Ed io ci tornavo di corsa, per rimanere  ogni volta con un palmo di naso.

L'omino era lì. affacciato alla finestra a guardare il mondo e me.

Ancora oggi penso spesso all'omino nero affacciato alla sua finestrella e mi chiedo se stia ancora là a guardare il mondo con la sua espressione un po' sorniona oppure se non si sia ritirato, per andarsene a riposare dopo così tanti anni.

Mi piacerebbe fare ritorno in quella casa (dove ora abita ancora una mia zia) per verificare  se adesso quella finestrella di ceramica non si sia finalmente chiusa.

Non mi rammarico affatto dello stratagemma di mia nonna: penso che sia bello instillare nei bambini il senso del mistero e la capacità di attendere giorno per giorno qualche evento meraviglioso e fuori dall'ordinario.

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15 gennaio 2018 1 15 /01 /gennaio /2018 07:29
Capsula del tempo

 

Siamo sempre alla ricerca di tracce del passato, di elementi e piccoli frammenti che possano aitarci a ricostruire un quadro più ampio del passato che ci consenta di rileggere il presente tenendo conto di radici e di filoni di pensiero che scendono indietro sino al passato più lontano. Ed è un compito che - per chi vada avanti con gli anni - si fa sempre più arduo, poichè spesso vengono a mancare i "testimoni" coloro che hanno vissuto in prima persona eventi remoti che ci riguardano. Per essere "accoglitore di memorie", occorre che ci siano stati dei "donatori" di esse: solitamente è così. Ma non tutto viene donato tempestivamente, oppure altre cose sfuggono alla narrazione, oppure altre ancora - che pure sono importanti - vengono taciute . Di altre che non possono essere trasmesse oralmente vengono lasciate tracce materiali.
E se, casualmente, rinveniamo qualcosa, una traccia, un piccolo documento, un oggetto, un pizzino scritto, un album di disegni, quel rinvenimento è una festa. Come quando un archeologo ritrova un frammento che lo riporta indietro nel tempo e gli consente di visualizzare una civiltà scomparsa o di dare vita a delle pietre altrimenti mute. E i grandi ritrovamenti avvengono spesso casualmente, quando si è abbandonata la volontà di trovare.
Ed è casualmente che mi sono ritrovato tra le mani una voluminosa opera in due tomi, proveniente dal passato, probabilmente di proprietà del nonno Giosué.
Si tratta del Nuovo dizionario dei sinonimi della Lingua Italiana di Niccolò Tommaseo (una "nuova" edizione "napolitana", eseguita sulla quarta milanese accresciuta e riordinata dall'autore), pubblicata Napoli presso Gabriele Sarracino nel 1859.
Sfogliando uno dei due tomi. le pagine si sono casualmente aperte in corrispondenza di quello che pareva essere un segnalibro, un esile foglio di carta quadrettato, ingiallito dal tempo. Solo che su una delle sue facce recava un messaggio.
Un messaggio emozionante per me. Quasi che il tomo di Tommaseo avesse avuto la funzione di Capsula del tempo oppure quella della proverbiale bottiglia che, recando sigillato dentro di sé un messaggio, arriva miracolosamente al suo destinatario designato dopo aver percorso i sette mari seguendo il capriccio dei venti e delle correnti.

Il biglietto vergato dalla mano della mamma (la cui scrittura masntenne poi abbastanza identica, solo diventando nei tardi anni un po' più spigolosa e tremolante) dice delle parole che mi riguardano direttamente.
Un messaggio segreto - con un chiaro riferimento al giorno della mia nascita - da seppellire dentro un libro, una traccia che doveva essere lasciata, forse perchè proprio io ne leggessi il messaggio a distanza di anni o forse soltanto perchè la mamma aveva bisogno di dire quelle parole a se stessa nell'unica maniera in cui la sua inflessibilità interiore le consentiva.
Se ne comprende meglio il contenuto se si pensa che la mamma (le fonti di ciò sono alcune mie zie) in pubblico non manifestava un eccedente amore nei miei confronti. Poche coccole, poche volte prendermi in braccio e tenermi così. Forse perchè non voleva in alcun modo che preferiva me a mio fratello che era stato sfortunato e che non era nato sano.
Dovette essere quello, la scoperta della malattia di mio fratello, un grande trauma che i miei genitori cercarono di fronteggiare al meglio delle loro risorse e delle loro conoscenze.
Dopo due anni circa, arrivai io: per i miei dovette essere una festa la mia nascita, quando si resero conto che ero passato dalle strettoie del parto senza inconvenienti.
Il principio che papà e mamma adottarono (questa fu una delle poche cose che appresi direttamente dalla mamma, pochi mesi prima della sua dipartita), era quello dell'assoluta eguaglianza di comportamenti nei confronti miei e di mio fratello.
E lei con me, temendo di eccedere e di infrangere questo principio, non si abbandonava mai ed evitava le effusioni: soprattutto in pubblico, mentre in privato, quasi furtivamente ci si abbandova per brevi momenti (secondo un'altra testimonianza che mi è stata trasmessa).

Questo biglietto, fortunosamente trovato, testimonia quanto invece lei sia stata lieta e fiera della mia nascita e che sia andata alla ricerca di ponti verbali per celebrare una nuova vita che era nata il 9 agosto 1949 con il suo carico di speranze: una radiosa aurora dopo la sofferenza e nella sofferenza.
Ma la bellezza interiore di papà e mamma fu comunque quella di essere riusciti sempre, momento per momento, la mala sorte in gioia e in celebrazione del trionfo della vita e della speranza, sfuggendo alla tentazione del farsi vittima, del cadere nel gorgo del pessimismo e della rinuncia alla lotta testarda per una costante ridefinizione dei termini.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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