Una piccola premessa. I singoli capitoli di cui è composto lo scritto, che verrà pubblicato su questo Blog in successive puntate, sono la rielaborazione di racconti che mi sono stati fatti da persone che ho incontrato nei miei viaggi, in occasione delle mie corse e talvolta anche nel corso della mia attività professionale di psichiatra e psicoterapeuta.
Le storie degli altri accendono sempre delle risonanze interiori e, per questo, sono anche le nostre.
Il mio desiderio, quando ho scritto queste brevi memorie prendendo a prestito le storie di altri che “sono venute a me” (nel senso che hanno avuto la potenzialità per accendere i miei personali ricordi) era quello di dare corpo alle mie riflessioni e ai miei turbamenti nell’essere giunto al termine di un decennio della mia vita (1990-2000) che sanciva assieme il passaggio ad una stagione diversa del mio esistere, ma anche il transito del millennio e, in qualche modo, il cambio di paradigma e la caduta di tutte le illusioni.
In un certo senso, ho voluto interpretare lo sgomento di fronte al tempo che passa inesorabile, le inquietudine di fronte alla morte individuale e a quella collettiva con il riaccendersi delle guerre che rendono attuali cose che pensavamo relegate al passato, ma anche l’infinita ricchezza della nostra condizione di pellegrini che si muovono incessantemente lungo una strada che non ha mai fine in un viaggio che va avanti sempre, anche quando abbiamo l’impressione di essere stanziali.
L’importante è sapere cogliere il mutamento, la trasformazione, il transito. E’ per questo che ho intitolato questa raccolta “Passaggi”.
Ogni riferimento a fatti, cose e persone eventualmente rintracciabile nei singoli capitoli è puramente casuale e va inteso come uil prodotto di una libera ricostruzione di un percorso tra sogno e reminiscenza, con in più qualche incursione nelle mie personali memorie.
Questo mio scritto, a puntate, viene attualmente pubblicato sulla webzine online "Nuove Dissonanze. Il contemporaneo Nella Cultura".
Io non sono di qui. Non appartengo a questa terra dove sono nato; e nella vita si impara, impara chi vuole imparare, che nessuno appartiene alla terra dov’è nato, dove l’hanno messo al mondo. Che nessuno è di nessun posto. Alcuni cercano di mantenere l’illusione e si costruiscono nostalgie, sensi di possesso, inni e bandiere. Tutti apparteniamo ai luoghi dove non siamo stati prima. Se esiste nostalgia, è per le cose che non abbiamo mai visto, per le donne con cui non abbiamo mai dormito e per gli amici che ancora non abbiamo mai avuto, per i libri non letti, per i cibi nella pentola non ancora assaggiati. Questa è la vera e unica nostalgia.
PIT II1 (Paco Ignacio Taibo II, Ombre nell’ombra, EST Marco Tropea Editore, 1996)
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Primo giorno
STRADA NEL SOLE
La strada si era dipanata per molte ore nel caldo monotono del giorno di scirocco.
Ricordo ben poco del tempo interminabile trascorso ad arrancare sulla superficie di questa strada. Solo poche immagini confuse, nient'altro che frammenti di pensieri che ora riemergono disposti secondo un disegno casuale per poi condensarsi in mosaici inaspettati. Certo è che non accadeva nulla, almeno apparentemente: non un evento degno di nota. Eppure, adesso, guardando retrospettivamente a quel giorno di cammino e di corsa, mi pare che mille cose si collocassero senza tregua in un paesaggio interiore continuamente mutevole. Non riesco ad avere reminiscenza nemmeno del motivo per cui mi trovavo di nuovo sulla strada e all'inseguimento di quale indecifrabile meta.
Man mano che andavo avanti, il sudore scendeva a rivoli copiosi in mezzo alle scapole e tra i peli del torace. Altre grosse gocce indugiavano pigramente sulla montatura degli occhiali inturgidendosi prima di cadere in rapidi movimenti elicoidali.
Sentivo l'asfalto ribollente sotto la suola delle scarpe di gomma e, di tanto in tanto, sul nastro della strada in movimento sotto di me, vividi luccichii segnalavano cocci di vetro bianchi verdi marrone scuro, residui di bottiglie lanciate a terra e poi più volte macinate dalle ruote delle auto di passaggio oppure conglomerati di finte gemme grumi dei detriti dei parabrezza frantumati da vandali o da ladri desiderosi di penetrare nello spazio interno dei preziosi santuari ambulanti. E, più di rado, il mio occhio veniva colpito dall’opaco lucore metallico di oggetti da tempo incastonati nella solida superficie catramosa.
Forse, pensavo, si trattava proprio di monete perdute da qualche accattone distratto o da uno dei moderni lavoratori improvvisati della strada o da una zingara mendica avvolta nei suoi vistosi stracci. Ma, d'altra parte, non potevano essere piuttosto monete buttate via con disprezzo perché di poco valore? Negli States opulenti persino i bambini buttano via sdegnati il cent di rame del resto, anche se poi subito dopo arrivano l'uomo o la donna dei sacchetti a raccattarli, in attesa di poter costituire un piccolo gruzzolo che non sapranno mai poi come spendere oppure per racimolare subito il minimo necessario per una buona bevuta con alcool di infima qualità.
Oppure spunta qualcun altro a raccogliere comunque queste monetine, perché, pur partecipe di benefici e privilegi di vario tipo, crede fermamente nella santa forza del dollaro e nelle fortune costruite a partire dal mitico primo cent. E - in attesa che ciò possa avverarsi - ognuno dei nichelini racimolati - i pezzi da un cent ma anche tante altre monete, di poco valore, di forme e fogge diverse, di metalli diversi - vengono allocate dentro scatole di alluminio o di ferro borchiato che poi rimangono in giro per le case utilizzate come fermaporte massicci dove l'incauto visitatore rischia di inciampare o di rompersi un piede.
Ancora, evocata dal brillio opaco di questi pezzi di metallo e dal luccichio più deciso dei frammenti di vetro bianchi e verde smeraldo, viene la visione di uomini che - abbagliati dal miraggio di tesori sperduti - battono, durante i lunghi autunni e inverni, le distese delle spiagge, che sono state affollate dalle orde estive o da gruppi di bagnanti più tranquilli e meno accalorati, e vanno alla ricerca di minerali di ori di argenti e di altri metalli pregiati. E conducono la loro ricerca con sofisticati scanner tarati per i diversi tipi di metalli, ma tutto ciò che trovano è il più delle volte rappresentato solo da miseri oggetti di lega d'alluminio o da volgari imitazioni in altri materiali senza valore, semplice paccottiglia: ma questi cercatori arraffano tutto ciò in cui si imbattono, anche gli oggetti di più scarso valore, presi dal sacro timore che, sfidando la sorte, possano essere abbandonati dalla fortuna bendata che potrebbe condurli prima o poi ad incappare nel mitico rolex.
Mentre le ore del giorno scorrevano, inesorabili verso il regno del demone meridiano, ho continuato a correre, senza che una sola figura umana entrasse nel mio campo visivo per chilometri e chilometri.
Quando mi sentivo più stremato, anziché fermarmi, prendevo a camminare al passo, sforzandomi di mantenere un’andatura ancora energica, e così avevo modo di osservare meglio ciò che mi sfilava davanti in un'interminabile processione.
La strada con il suo selciato di pietre grigie squadrate che si affacciavano dalle sbrecciatura della sottile patina di asfalto, emanante un pesante odore bituminoso e distesa frettolosamente per rendere più scorrevole la sua superficie alle ruote delle auto, mi appariva sempre deserta, persino quando rade figure vi si materializzavano, ma smorte e con la fissità di statue al centro di uno scenario dipinto. A tratti il sole cocente cedeva il passo ad una profonda zona di ombra fresca e rilassante e, quando arrivavo al suo limitare, mi ci immergevo con sollievo, desiderando che non finisse mai, ma nello stesso tempo assalito dal prepotente desiderio di venirne fuori rapidamente per sentire di nuovo sulla pelle il calore bruciante del primo meriggio.
A spingermi nelle zone battute dal sole, forse risuonavano dentro di me le note della canzone Keep on the sunny side of the road, keep always on the sunny side, venata dal viscerale ottimismo della musica Country & Western - o era forse Take a walk on the wild side di Lou Reed? Eppure, molte delle fugaci apparizioni umane sparse lungo la strada erano collocate sul lato d’ombra, immoti figuranti in pose di millenaria catalessi, sulle soglie di marmo della porta di casa, oppure abbandonati in una sorta di pietrificazione sfingea su scomode sedie impagliate o di più dozzinale plastica collocate direttamente sul selciato della via quasi a delimitare uno spazio magico davanti alla propria dimora, dominato così da un tempo sospeso ed immutabile.
Cassonetti sbilenchi mi sfilavano accanto, assalendomi con ondate di odori nauseabondi, alcuni eruttanti fumo nero e fiamme, assieme ad ondate di calore opprimente, a vapori di stracci e di gomma bruciata, e - attorno - la superfice della strada annerita e resa vischiosa dai liquami prodotti dalle materie organiche che nelle loro viscere si decompongono lentamente. E intanto grossi camion mi superavano con il suono violento e assordante delle trombe aggressive, accompagnati dal perentorio brillio di cromature in un turbinio di suoni di sensazioni olfattive e di brandelli di immagini retiniche rapide ed evanescenti; fuori strada, quattroperquattro prepotenti con i guidatori attaccati al telefonino per perseguire il bisogno di essere sempre connessi alla rete, nugoli improvvisi di motorini guidati da coatti metropolitani con la cuffia del walkman calcata sulle orecchie e con l'aria istupidita mi incrociano turbinanti o mi sorpassano, mandando di colpo in frantumi la cattedrale di silenzio che sto attraversando.
Un veicolo rombante è balzato a velocità vertiginosa dalle mie spalle, schizzando sull'asfalto davanti a me senza che nemmeno per un attimo potessi sbirciare all'interno dell'abitacolo, giusto per dare un volto ai passeggeri e al guidatore prepotente.
Un gabbiano dalla possente apertura d’ali mi è passato davanti planando in velocità proveniente dalla mia destra, trasportato dal vento come un aquilone bianco-grigio librandosi quasi all'altezza del suolo e prendendo lo slancio per poter decollare di nuovo in una rapida cabrata. Ma, nello spazio di un attimo, colto ancora nella piena forza dell’ascesa all'incrocio di due traiettorie, si è schiantato con un colpo secco contro il plexiglass del finestrino posteriore dell'auto in corsa; di scatto la sua rotta si è spezzata e della meravigliosa sagoma volante nulla è rimasto, se non un ammasso informe e sanguinolenta che subito è precipitata sull’asfalto, producendo nell’impatto, un tonfo umido, e accompagnata con una certa inerzia da qualche piuma che cadeva indolentemente fluttuando nell’aria, quasi rammaricata di non far più parte della complessa macchina vivente di carne e sangue e di non essere più preposta al volo.
La bocca riarsa dalla calura, sono stato attratto da una baracca che si stagliava nella lontananza circondato dai colori sgargianti di insegne pubblicitarie, un bar improvvisato per la vendita di acqua, bibite varie spremute e altri generi di conforto.
Mi ci sono accostato e ho chiesto dell’acqua per dissetarmi.
L'uomo del bar mi ha guardato con aria stranita e, dopo avere a lungo rovistato sotto il bancone, mi ha dato la mezza bottiglia di acqua minerale che gli avevo chiesto , continuando a fissarmi come se la mia fosse stata la richiesta di un ET piovuto in quel luogo da chi sa quali lontananze. Forse ad attirare la sua attenzione, così fastidiosa, erano la mia faccia stravolta dalla fatica oppure il mio berretto intriso di sudore e sgocciolante dalla visiera.
Ho preso la bottiglia, e, girando le spalle all’uomo, me ne sono andato. Mentre, mentre mi allontanavo, ho allentato con dita nervose il tappo a vite di plastica per tracannare subito alcune avide sorsate. L'acqua era gelida e mi ha fatto quasi male scendendo lungo l’esofago; sulla superficie della bottiglia si era formata subito, non appena era stata tirata fuori dalla ghiacciaia, un sottile velo di condensa.
Poi, una parte dell'acqua l'ho versata sulla superficie interna del mio berretto alla ricerca di un poco di refrigerio.
Sentivo adesso l’impatto del caldo violento.
Con un rombo sordo ed intollerabile nelle orecchie, vampate di calore mi assalgono e le tempie pulsano impazzite. Fantastico che la mia testa possa scoppiare all’improvviso in una tempesta di grumi di sangue e di materia cerebrale; che il mio corpo, ridotto a fantoccio decapitato, di colpo possa cadere stecchito per terra.
In preda ad una strana sensazione, ancora stringendo la bottiglia di plastica semivuota, scivolosa dei residui di colla dell'etichetta che le gocce di condensa hanno staccato e ora penzolante come un cencio dalla mia mano, mi sono accostato ad un basso muro rivestito di intonaco scrostato e ingrigito dal tempo, oltre il quale si distendeva il luminoso orizzonte azzurro del mare: la sua purezza e la sua forza inquinati soltanto dalla presenza di un cargo rugginoso alla fonda nell'acqua bassa, impegnato in misteriose operazioni di svuotamento del suo carico. Ho guardato a lungo oltre le sue lamiere corrose dalla salsedine e scrostate della loro vernice verso il punto dell'orizzonte in cui mare e cielo sembravano dissolversi l'uno nell'altro in un unico mélange blu dove mi è sembrato di scorgere, immersi in una nebbiosa evanescenza, profili di isole lontane. Ho stretto gli occhi sforzandomi di mettere meglio a fuoco queste ombre e ho immaginato fugacemente di potermi librare in volo per giungere alle meravigliose terre di fiaba vagheggiate dai primi naviganti, ma - per quanto mi sforzassi, dopo la prima fuggitiva impressione - non mi sono rimasti davanti agli occhi altro che tonalità di blu cangiante percorse da mobili punti neri.
Come una marea, è salita dentro di me l'onda di sconforto per aver perso irrimediabilmente la presa sul tempo del sogno, e - prostrato - nel sentir venire meno le mie forze - mi sono appoggiato con il braccio nudo al muro scabro, lasciando aderire la mia guancia alla ruvidezza dell'intonaco e bevendone la frescura. Per un attimo interminabile ho lasciato che le sensazioni fluissero attraverso il mio corpo, ma poi ho avvertito senza preavviso l’urgente bisogno di svuotare la vescica, un bruciore intollerabile proprio alla radice del mio membro avvizzito dalla corsa. Rimanendo immobile nella stessa posizione, con il braccio e la gota poggiati all’intonaco, soltanto curvandomi un po’ in avanti l'ho tirato fuori dai leggeri pantaloncini da jogging e ho cominciato a pisciare, osservando il mitto lungo e abbondante, ma - guardandolo - un'impressione di straniamento mi ha preso nell'osservarne il colore rosso rugginoso - lo stesso colore rugginoso delle lamiere del cargo lontano all’orizzonte - e nel sentire l'odore pesante dell'urina, un odore di malattia e di morte, e nel guardare la chiazza scura dai contorni irregolari che si andava disegnando sul muro e il rivolo altrettanto scuro che ingrossandosi rapidamente ha cominciato a scorrere veloce verso la cunetta della via.
Questi rivoli di urina in corsa nella cunetta e dopo verso il tombino di drenaggio mi hanno fatto pensare con nostalgia e con profondo desiderio alle chiazze di bagnato che ogni tanto compaiono lungo la strada interminabile, generate dagli abitanti delle case nel tentativo di rinfrescare l’aria attorno alle loro abitazioni: vicino a queste chiazze, si formano, a volte, piccole pozze più profonde dalle quali emana un odore leggero di frescura e di terra bagnata.
Prosciugato dalla calura, vorrei buttarmi per terra e avvoltolarmi nella polvere umida per cercare sollievo dall'arsura che mi divora. E intanto facce gioviali, facce sorridenti, traboccanti di benessere patinato, occhieggiano verso di me dall'alto di gigantesche affiche pubblicitarie, questi fottuti manifesti che inneggiano ad un fasullo e improbabile ottimismo nei confronti della vita, al vacuo sunny side of life della filosofia country and western.
E non c'è alcuna possibilità di sfuggire a questo bombardamento di immagini che ti guardano da ogni parte
Nell'uniformità opprimente del calore di fornace in cui sto immerso, si è formata allora nella mia retina la superficie del chott tunisino alle soglie del Sahara, l'interminabile distesa piatta ricoperta da una crosta di fango disseccato e di sale cristallizzato, una corteccia dura e compatta che fa rilucere questa spianata di dimensioni ciclopiche di mille pagliuzze, e lontano, quando la distesa è stata martellata dai raggi del sole si levano tremolanti colonne di aria calda che offuscano la trasparenza dell’aria. E sulla linea incerta dell’orizzonte, in uno scenario di prospettive evanescenti, il viaggiatore può aver l’impressione di intravedere città esotiche con minareti svettanti, carovane di cammelli in marcia oppure ancora distese d'acqua che riflettono il cielo dell'azzurro più intenso ed abbagliante e piante di palma da datteri svettanti, con le chiome mosse piano dalla brezza che evocano fontane opulente e giochi d’acqua mormoranti.
Proseguo spossato il mio cammino, ma sento che non è per molto ancora .... le mie gambe sono ora irrigidite i muscoli dolenti vado ancora avanti perché la mia metà è lontana, resistendo alla tentazione di buttarmi sfinito a terra.
Ora, il giorno volge al tramonto, le ombre si allungano e i colori di violenti e forti contrasti cedono il passo a tinte più tenui, ma non così la mia corsa che continuerà durante la notte e poi ancora quando il sole sorgerà di nuovo: non c’è via di uscita possibile, se non questo interminabile scorrere di scenari cangianti eppure sempre eguali.
Vorrei potere disporre liberamente di me stesso e del mio corpo e non doverlo sentire così estraneo e vincolato alle catene della terra, questa terra infida che a volte da dietro un piccolo mucchio di alghe molli estirpate dalle loro radici e apparentemente innocue è subito pronta a morderti a sangue a far penetrare dentro la tua carne i suoi denti aguzzi e invisibili.
Vorrei essere compenetrato del tempo della realtà e del tempo del sogno.
E mentre procedo sull’ultimo ritaglio dell’asfalto ancora battuta dalla luce radente del sole che muore, e vado sprofondando nell’ombra, con l'orecchio della mente ascolto i rumori della notte, brandelli di rumorose conversazioni, un lontano abbaio di cani che esercitano le loro funzioni di tristi guardiani del nulla, gli strazianti guaiti di un randagio, questi ultimi più vicini, il lamento di un povero animale forse appena schiacciato dalle ruote di un auto in corsa.
Maurizio Crispi © riproduzione riservata
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