Invisibile, l'acqua che scorre
gorgoglia sommessa
nella forra in basso
Cielo d'un incredibile azzurro che punge gli occhi
e il fumo di legna sale
in piccole nuvole discrete
infiltrandosi come nebbia leggera
nella fitta vegetazione selvatica
C'è lo scampanio di greggi invisibili
e qualche belato in dissolvenza
Di quando in quando
uno scalpiccio di piedi affrettati
e il rantolo di respiri affannati
Il borgo antico in basso
è dominato dalla mole torreggiante
dell'antico castello
Il basolato di pietre si stende davanti a me
e sale serpeggiando verso il monte
dove - verso la cresta -
s'intravedono ancora chiazze di neve
ciò che resta di un manto fitto e abbondante
La primavera avanza rigogliosa
e le gemme sono rigonfie di slancio vitale
pronte a tramutarsi nella prime foglie di tenero verde
e dovunque appaiono
nuvole rosa e bianche delle fioriture
degli alberi da frutta
Una voce lontana
annuncia roboante
l'arrivo degli atleti
alla fine della loro corsa selvaggia
Momenti istantanei di magia sospesa
sull'orlo dell'eterno
Un incrocio di sensazioni quasi perfetto A perfect day (per dirla con Lou Reed) on the sunny side of life
Invisibile, ma forte come non mai, dietro le quinte di questo scenario,
si aggira la nostalgia e un gusto acre di malinconia
sale alla bocca
Un giovane nigeriano torna a casa dopo quindici anni vissuti a New York. Ma Lagos è una città immensa, pullulante di storie e di vita, un'allucinazione febbrile che si sottrae allo sguardo. Ogni giorno è per il ladro è il diario di un ritorno impossibile in cui nostalgia, amore e rabbia indicano il sentiero di una peregrinazione affascinante e inquieta.
La voce narrante di Ogni giorno è per il ladro (titolo originale: Every Day is for the Thief, nella traduzione di Gioia Guerzoni, Einaudi Editore - Collana I Coralli) - 2014), opera dolente di Teju Cole, è la stessa di "Città Aperta" (già pubblicato presso Einaudi). Si tratta di uno studente di Medicina che, dopo dieci anni di assenza, fa ritorno in visita in Nigeria, nella sua città natale: e si tratta di un vero e proprio alter ego dell'autore.
Il libro si articola in 19 brevi capitoli, intensi e ciascuno corredato da una fotografia dello stesso autore.
Dopo le sebaldiane peregrinazioni per New York, Teju Cole ci accompagna in una visita nei luoghi a lui conosciuti della sua Nigeria e negli incontri con i familiari, i parenti e gli amici da tempo persi di vista.
Il suo occhio e la sua mente devono tornare ad adattarsi alle differenze, nonché al divario tra il passato ricordato e il presente vissuto, allo scarto tra memoria e realtà, e nello stesso tempo riprendere consuetudine con le bellezze e con le cose ammirevoli che, nonostante la corruzione e le disfunzioni, in Nigeria e a Lagos ci sono.
Come in Città Aperta di tratta di percorsi soggettivi, in cui i luoghi e la mente sono in costante connessione. I luoghi attivano e catalizzano i contenuti mentali e da questi incontri nascono narrazioni che rievocano il passato e attraversano il presente: come ha mostrato Sebald nella sua prosa autobiografica soggettiva non si può essere viaggiatori ed esploratori )o anche viandanti della vita) oggettivi, poichè la connessione tra la realtà osservata e lo scenario interiore che contemporaneamente si va muovendo è continuamente variabile e colui che ne vuole scrivere può soltanto registrare questi continui slittamenti tra interno ed esterno.
I racconti, capitolo per capitolo sino all'avvicinarsi del giorno temuto (ma anche atteso) della partenza e delle inevitabili separazioni, sono pervasi dalla nostalgia di un impossibile ritorno.
(Risguardo) Le città si aprono intorno a chi le attraversa come un paesaggio e si chiudono come una stanza, diceva Benjamin. Ed è cosí per il narratore di questo libro, un nigeriano che torna nel suo paese dopo quindici anni vissuti a New York. È fuggito da Lagos quasi di nascosto, per motivi misteriosi forse anche per lui: certo c’entrano la morte del padre e un risentimento mai elaborato per la madre. Ecco, rabbia e amore sono la coppia che definisce il rapporto con la sua città: una metropoli enorme, brulicante di vite e di storie in una quantità che stordisce, avamposto della modernizzazione globale e allo stesso tempo calviniana città invisibile. Il testo è accompagnato da diciannove fotografie dell’autore, diciannove immagini che fanno da controcanto ai capitoli come una storia parallela, diversa eppure puntata verso la stessa direzione: sia le parole sia le immagini, in fondo, si interrogano sugli ostacoli della visione. Lagos è una città difficile da vedere – nelle foto di Cole appare spesso sfocata, nascosta dalla griglia di un recinto, da una tenda, da un finestrino offuscato dalla pioggia, dalla ragnatela di un vetro rotto. Allo stesso tempo le parole del narratore (studente di Medicina e aspirante scrittore come il protagonista di Città aperta) sono, è vero, di una lucidità che confina con la spietatezza, ma anche segretamente fessurate dalla malinconia, dall’irrequietezza, dal rancore di chi è stato tradito. Un appannamento dello sguardo che è quello proprio dell’amore.
Hanno detto (quarta di copertina)
«Teju Cole «ci insegna a guardarci intorno e a cercare chiavi e risposte» (Goffredo Fofi, «Internazionale»)
«Cole parla del proprio tempo senza parlare del proprio tempo. Perché le domande piú grandi – quelle di cui si nutre la letteratura fondamentale – sono sempre le stesse» (Cristiano de Majo, «Rivista Studio»)
«Leggendo Teju Cole «si scopre come è fatto l’essere umano» (Francesco Longo, «Europa»)
L'Autore. Teju Cole, scrittore, storico dell'arte e fotografo, è cresciuto in Nigeria e vive a Brooklyn. Città aperta, il suo primo romanzo, pubblicato da Einaudi nel 2013, ha vinto il PEN/Hemingway Award, il New York City Book Award for Fiction e il Rosenthal Award, ed è risultato finalista al National Book Critics Circle Award, il New York Public Library Young Lions Award, e l'Ondaatje Prize della Royal Society of Literature. Inoltre, è stato giudicato uno dei migliori libri dell'anno da più di venti testate, fra le quali «The New Yorker», «The Atlantic», «The Economist», «The Daily Beast», «The New Republic», «Los Angeles Times», «Salon», «Slate», «New York magazine» e «Kirkus Reviews».
Ho trovato per puro caso, nella libreria che frequento di solito un piccolo volume che ha subito catturato la mia attenzione per via sia del titolo sia della bella immagine di copertina: è "Alice in Wonderland 'mPalermu", scritto da Gino Pantaleone(con illustrazioni di Monica Saladino e note di Maria Alessia Misiti), Qanat Edizioni, Palermo, 2018. L'ho letto subito, di getto, ammirandone le belle illustrazioni che lo corredano.
In questo piccolo libro un'Alice delle Meraviglie rediviva, inseguendo le tracce del Bianconiglio, si ritrova ad esplorare in un magico itinerario alcuni dei luoghi più celebrati di Palermo e così, lungo un percorso che accende in lei il senso della meraviglia, si ritrova a fare degli incontri con strani personaggi che le raccontano storie e curiosità legate ad una città come Palermo di grande fascino perché ha alle sue spalle una storia più che bimillenaria.
Si attiva così un percorso gioioso che è insieme storico, architettonico, artistico, ma finanche gastronomico nel quale, trattandosi di quella famosa Alice, alcuni incontri hanno un carattere assolutamente fantastico e surreale.
In aderenza al personaggio letterario, alcune frasi dei dialoghi sono riportate in lingua inglese (e ciò anche nel desiderio di creare un testo dagli usi molteplici in campo didattico). Ma in ogni caso si tratta di un libro godibile per tutti che rappresenta un tentativo lieve e non meramente didascalico di diffondere la conoscenza di Palermo e di attivare su questa città delle forme di story telling.
Non a caso il volume è stato pubblicato nel 2018, anno in cui Palermo è stata "capitale italiana della cultura".
Il volume è arricchito dalle belle illustrazioni di Monica Saladino, autrice anche dell'immagine di copertina, e dalla nota didattica di Maria Alessia Misiti.
Considerando la qualità del volume, è un vero peccato che la casa editrice non abbia fatto molto per divulgarlo: allo stato, infatti, non è disponibile la sua scheda, nè sul sito di Qanat, né su IBS.
L'autore. Gino Pantaleone (Palermo, 1959) è poeta e scrittore palermitano. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, Urla di dentro (1995), Io così, se volete (1997), Il vento occidentale (2007) e due saggi Non dobbiamo aver paura (2012) e Il gigante controvento – Michele Pantaleone, una vita contro la mafia (2014).
Anche se non ho mai abitato o villeggiato lì, Scopello è uno dei miei luoghi preferiti /e oltre alla bellezza intrinseca del piccolo borgo e della tonnara sottostante con i suoi meravigliosi faraglioni, Scopello significa anche - e soprattutto - Zingaro), sin da quando un anno o due dopo la famosa marcia pacifica del 18 maggio 1980 che, con oltre tremila partecipanti, contribui a salvare questo territorio dalla speculazione selvaggia, intrapresi un percorso a piedi da Castellamare del Golfo sino a Trapani, con l'intento di seguire minuziosamente il contorno costiero. Fu così che mi trovai a passare per la prima volta dalla Riserva dello Zingaro con lo zaino in spalla, fornito di una tenda leggera e di sacco a pelo. Per limitare il peso del bagaglio avevo portato con me solo due libri, un saggio in Inglese (ora non mi ricordo il titolo, ma lo potrei recuperare facilmente guardando tra i miei libri) sul tema dell'antropologia della morte e del morire (era un periodo in cui a distanza di circa dieci anni dalla scomparsa traumatica di mio padre la morte e il morire erano per me oggetto di un approfondimento continuo, attraverso letture sul tema e riflessioni) e Don Chisciotte della Mancia (in un'edizione poco ingombrante). Camminavo, mi fermavo, leggevo, prendendo il sole, nuotavo, e poi ancora lo stesso. Fu una marcia indolente, soprattutto nell'attraversamento dello Zingaro dove mi posi l'obiettivo di scendere in tutte le spiaggette. sicchè per arrivare sul versante di San Vito impiegai circa due giorni: ma l'obiettivo era quello di vivere il viaggio a piedi, non di raggiungere la destinazione finale nel tempo più breve. Pernottai anche all'interno della neonata Riserva, utilizzando uno dei casali ancora aperti e aperti alle necessità logistiche dei visitatori.
Quella fu davvero una magica avventura. Anche il tratto costiero successivo mi portò dei bei doni. Ero solo con me stesso e con le mie letture. Avevo bisogno di un periodo di decompressione dopo un viaggio appena concluso nel quale con altri tre compagni di viaggio (assortimento non riuscito) avevo percorso circa 13.000 km in auto, partendo dalla Sicilia e ritornandovi attraverso il Nord Africa, un vero e proprio tour de force punteggiato da litigi, incomprensioni e piccoli incidenti (come ad esempio il furto subito di tutte le pellicole già esposte).
In poco meno di una settimana fui a Trapani come mi ero ripromesso e da lì, per concludere degnamente l'avventura traghettai per Levanzo.
Già in precedenza tuttavia, prima ancora della famosa Marcia, avevo raggiunto lo Zingaro, ma in gommone: con una Teresa di cui aspiravo ad essere "fidanzato"), la sorella e il fidanzato di lei: arrivo dal mare, dunque, e pernottamento in una casa di Uzzo che era di proprietà della famiglia di quest'ultimo. Anche questa fu un'avventura magica.
Dopo la mia solitaria marcia a piedi, ritornai diverse volte allo Zingaro: sarebbe veramente lungo enumerare tutte le volte che vi feci ritorno, da solo o in compagnia: ma posso citare il periodo in cui stetti da solo a Scopello per una settimana e, ogni giorno, affrontavo una corsa a piedi, avanti e indietro per la riserva dello Zingaro e subito dopo, facevo un analogo percorso di cabotaggio costiero in canoa.
Ci sono andato di recentissimo lo scorso 10 febbraio 2019), non per iniziativa mia, accettando la proposta di partecipare alla gita: dopo un'assenza di circa dieci anni.
Perché questa prolungata assenza? Uno dei motivi è che, da un certo momento in poi, non fu più possibile portare il cane al seguito (anche tenendolo al guinzaglio) e occorreva lasciarlo in gabbiotti appositamente attrezzati.
Ma, soprattutto, a partire dal 2010 (anno della morte di mia madre) e, ancor di più, dopo cinque anni con la morte di mio fratello, ho progressivamente ristretto le cose che mi sentivo disposto a fare outdoor e in cui avventurarmi. Sono diventato molto più statico, a meno che non si trattasse di situazioni che potevo (e posso) documentare fotograficamente (come le gare di corsa e gli eventi sportivi).
Mi sono rinchiuso per così dire "nella mia stanza", utilizzando come interfaccia nel mio rapporto con il mondo la macchina fotografica oppure la connessione internet, dove pubblicare le mie foto oppure divulgare i miei articoli (e i libri , come dirò in seguito).
Ecco lo stato dell'arte: affronto malvolentieri l'idea di uscire di casa e di andare a fare brevi escursioni, anche le mie corse o camminate sono diventate faccende da compiere negli isolati attorno a casa. Tra le mie mete preferite ho persino abolito Mondello che, prima, era un luogo cult con il quale sentivo la necessità di essere in contatto pressoché quotidianamente.
E se vado in luoghi che furono teatro delle mie avventure ed esplorazioni trascorse vengo sommerso dal ricordo e dalla rievocazione di quei tempi.
Questo mi piace, ma - nello stesso tempo - mi dispiace.
Come se fosse diventato più importante il ricordo che non vivere nell'hic et nunc.
Poi va a finire che godo egualmente delle occasioni che mi si presentano: mi rammarico, tuttavia, che non nascano mai da una mia iniziativa, al prezzo di dover sormontare una grandissima inerzia certamente noiosa (me ne rendo conto) per chi mi circonda e, soprattutto, quando mi ritrovo a sperimentare cose che ho fatto nelle mie - per così dire - vite precedenti, il momento presente si trasforma in un ponte verso ere passate ed ecco che, attraverso questo rimuginare, si affaccia la nostalgia, non tanto per l'irraggiungibilità di ciò che non è mai stato sperimentato e che è rimasto per sempre nel limbo delle possibilità, quanto piuttosto per il fatto che ciò che si è sperimentato in quella forma rimane unico ed irripetibile. Forse perchè nelle età più giovani della vita esiste sempre, al nostro interno, qualcosa che permea le nostre percezioni, una scintilla o un fuoco (a volte) che hanno a che vedere con la speranza e con la certezza che si hanno a disposizione serbatoi di tempo illimitato. Forse per questo motivo sono poco esplorativo nei confronti dei nuovi panorami musicali che nascono e tramontano sempre più velocemente: non accetto questa musica e ritorno con nostalgia a quella che segnò i miei anni giovanili. Una volta uno mi disse: "Non posso più ascoltare la musica degli anni Sessanta e Settanta. Se lo faccio sono preso da una fortissima nostalgia e sento come se un tradimento imperdonabile fosse stato perpretato. E allora preferisco non ascoltarla più, anche se non c'è stato più niente di più bello quanto quelle note e quelle canzoni".
E' come se il tempo presente, nel confronto con il passato, perdesse "luccicanza", mentre tutto ciò che è avvenuto nel passato finisce con l'attenere ad una sorta di età dell'oro che, al confronto con l'età del ferro del presente, finisce con l'assumere un assoluto predominio.
Oggi, forse per questo motivo, leggo più che mai, di tutto: i libri sono una porta d'accesso infinita ad altri mondi, ad altri luoghi, alle vite di altre persone. I libri sono lo strumento che mi consente di viaggiare stanto nel chiuso del perimetro delle mura della mia stanza. Una volta da giovane, pur avendo una vita movimentato, solevo dire della mia stanza di studio, dove passavo anche ore del tempo libero, che in essa avevo tutto ciò che mi serviva: i libri e la musica e che avrei potuto passarvi ore e ore senza sentire l'esigenza di null'altro.
E questo è quanto.
Trent' anni di Zingaro. Ricordi, bilanci, progetti s' intrecciano in occasione di conferenze, escursioni, incontri promossi per celebrare la prima riserva naturale istituita in Sicilia. Due le date
(foto e testo di Maurizio Crispi) Le Giuggiole è un nuovo circolo Arci di Palermo (nel centro storico a due passi dal Teatro Massimo: Via San Basilio n. 37) che "...accoglie idee e persone con la volontà di allargare gli orizzonti dei più piccoli e delle loro famiglie attraverso l'arte, la cultura e la condivisione".
L'idea-guida è stata quella di creare uno spazio di condivisione per adulti e bambini (dalla più tenera età), tale da consentire ai primi di fruire di un proprio momento sociale e nello stesso tempo tale da vedere i propri piccoli, anziché semplicemente al seguito - come accade nei locali ordinari, privi di questa specifica mission - impegnati in attività libere o in spazi appositamente strutturati e pensati per loro per attività più complesse ed eventualmente guidate da piccoli progetti didattici e dall'intento di introdurre alla lettura, come - ad esempio - la lettura ad alta voce per i piccini, oppure la messa a disposizione di una piccola biblioteca varia, pensata appositamente per loro.
Nello stesso tempo la mission de "Le Giuggiole" è più impegnativa, in quanto si propone di dar vita ad una serie di iniziative culturali e ad attività psicomotorie e/o ludiche (anche queste indirizzate ad adulti, a coppie, a mamme o a bambini delle diverse fasce di età).
Le Giuggiole, di fatto, almeno qui a Palermo, città che - come possono notare i cittadini provenienti da altri Stati dell'Unione europea più a Nord - è scarsamente "children friendly" (se non per quanto riguarda sporadiche iniziative scaturenti dalla buona volontà di pochi), colma sicuramente un vuoto e si propone con delle mire decisamente ambiziose e pregevoli per la loro ricaduta nel sociale.
La multiformità dei progetti de Le Giuggiole è facilitata, d'altronde, dall'ampiezza dello spazio a disposizione tale da consentire di differenziare le attività in corso tra quelle semplicemente leisure a quelle più strutturate.
Per questi motivi, quindi, il nome che denomina il circolo - scelto da Laura Brancato, Petra Trombini e Simona D'Alessandro, le tre intraprendenti socie che con questo progetto hanno dato vita ad una loro idea - è quanto mai significativo, poiché fa riferimento sia alla bellezza ornamentale del giuggiolo, sia alla particolare prelibatezza dei suoi frutti. Un luogo sicuramente da far andare i suoi fruitori in "brodo di giuggiole", cioè di consentir loro di sperimentare situazioni e contesto estremamente piacevoli!
La inaugurazione ha avuto luogo il 7 febbraio 2019 e le attività del circolo sono partite con un programma denso e attraente che verrà rinnovato di mese in mese con nuove proposte. Trattandosi di un circolo Arci, tutti gli adulti al loro primo accesso dovranno fare il tesseramento Arci, con validità annuale.
Se si dà una veloce occhiata alla pagina Facebook dedicata si potrà constatare che sia l'inaugurazione che i primi giorni di attività hanno riscosso un successo davvero significativo e molti lusinghieri giudizi.
Per chi non lo sapesse, la "giuggiola" è il frutto prodotto dalla pianta del giuggiolo, il cui nome scientifico è Ziziphus jujuba. Si tratta di un piccolo arbusto di provenienza asiatica, che nel corso dei secoli si è diffuso nei paesi mediterranei e in Italia. Coltivato per i suoi prelibati frutti, ma adatto ad essere coltivato anche come pianta ornamentale, il giuggiolo produce delle drupe ovoidali, con buccia sottile e liscia di color rosso scuro, la cui polpa ha una consistenza compatta e farinosa, dal sapore dolce leggermente acidulo, che ricorda quello della mela.
Le giuggiole si possono consumare fresche subito dopo la raccolta oppure si possono conservare per lungo tempo essiccandole o mettendole sotto spirito; si prestano inoltre per preparare confetture e sciroppi, o come ingrediente per farcire dolci secchi e biscotti. Il frutto del giuggiolo è inoltre l’ingrediente principale della ricetta di un particolare liquore, conosciuto come “brodo di giuggiole", assieme ad altri frutti come il melograno, ad esempio.
La fama e l’apprezzamento di questa bevanda si diffuse e perdurò nel tempo, tanto che il ‘brodo di giuggiole’ diede origine ad un’espressione metaforica giunta fino a noi. Il detto popolare “andare in brodo di giuggiole” venne pubblicato per la prima volta nel 1612, nel primo vocabolario di lingua italiana scritto dall’Accademia della Crusca, famosa istituzione culturale fondata a Firenze alla fine del Cinquecento. L’intento dell’opera era quello di affermare la lingua fiorentina come lingua superiore a tutti i dialetti presenti nella penisola italiana, codificandone i vocaboli e presentandola come modello per definire un linguaggio comune. Il dizionario fin dalla sua prima edizione, riportava l’espressione proverbiale “andare in brodo di giuggiole”, indicando come significato una situazione estremamente piacevole, in cui è possibile “godere di molto di chichessia” o uno stato d'animo decisamente positivo ed ottimista.
Le Giuggiole, Palermo. 1.2K likes. Le Giuggiole è un nuovo circolo Arci che accoglie idee e persone con la volontà di allargare gli orizzonti dei più piccoli e delle loro famiglie attraverso ...
Grazie a mio figlio Francesco che mi ha diretto ho fatto un'esperienza attoriale. Chi l'avrebbe mai detto?
Nessun merito da parte mia ma solo di mio figlio, che mi ha diretto egregiamente, spiegandomi ogni volta in maniera coinvolgente ciò che dovevo fare e quali stati d'animo dovevo provare ad esprimere.
Devo ammettere che quando mio figlio mi fece leggere lo script dal titolo "Addio alle stelle" e mi disse che avrei dovuto essere il suo personaggio adulto rimasi un po' perplesso.
Non avevo mai fatto prima una simile esperienza. Anche leggendo la sceneggiatra, mi ero sentito un po' confuso nel vedere l'elencazione e la descrizione dei diversi momenti in cui si sarebbe dovuta articolare la narrazione.
Per Francesco era un must che si dovesse realizzare in campagna da noi (ad Altavilla)
Pur con delle forti remore, gli dissi di sì.
Ci lanciammo nell'impresa tra Natale e i primi dell'anno: devo dire che mi sono lasciato coinvolgere e che mi sono anche divertito, soprattutto quando si verificavano i classici svarioni (come gli errori nella sequenza gestuale, lo sguardo in camera, o l'andatura troppo svelta o troppo lenta), con quelle tipiche riprese da backstage che a volte si possono vedere mentre scorrono i titoli di coda dei film.
Per fortuna non era previsto il parlato.
Nel vedere il prodotto finale montato e con la colonna sonora (tra l'altro Francesco ha scelto di usare Sugaree, uno dei miei brani preferiti dei mitici Grateful Dead) mi sono anche commosso per ciò che il corto è riuscito a esprimere.
E non posso esimermi dal dire di aver provato anche una punta di autocompiacimento narcisistico: ma nel film, non sono più me stesso, perchè sono trasformato dall'occhio del regista
In Addio alle stelle c'è qualcosa di profondo, soprattutto nella proposta narrativa (che fa da filo conduttore) della commistione tra passato e futuro, mentre il presente non è altro che un attimo fuggente in cui alcuni oggetti carichi di magia possono fare da ponte tra età diverse della vita, con tutto il carico di nostalgia che il contatto con il proprio passato può comportare.
Giorni vuoti
la casa vuota
una sepoltura improvvisata
in mezzo ai cipressi messi a dimora anni prima
per onorare un altro amico a quattro zampe
pietre su pietre
terra alla terra
una piccola lapide
la ciotola con i biscottini preferiti
e una pallina per i giochi
Frida è rimasta lì in campagna
Negli ultimi tempi,
quando andavamo,
poi voleva rimanere
Se ne stava immobile vicino alla casa,
a guardarmi
Ero costretto a trascinarla in auto
Era come se quello fosse da sempre stato il suo posto designato
e ora Frida é là
contenta, io voglio immaginare,
perché sta riposando in pace
mai io andrò sempre a trovarla
come non smetterò mai di chiamarla Frida! Frida!
Andiamo, è tempo di andare!
Ma per una volta, in verità, è stata lei a dirmi,
senza parole, E’ tempo di andare!
per ricordarmi che il tempo dei commiati
arriva sempre, inesorabile,
per tutti,
quando solo ombre saremo
Il posto dove ora giace in pace. Soffia il vento. Stormiscono le fronde e si vede in lontananza il mare. E' proprio un luogo di pace. Ma qui tornerò a lavorare ancora per sistemare meglio questa sepoltura improvvisato. Forse, porrò anche una piccola lastra di marmo con su inciso il nome di Frida e l'arco della sua vita. Forse, vicino alla piccola lapide, metterò ad ardere una piccola fiammella di cera. Con Gabriel, verremo di sicuro a portare dei fiorellini per salutarla ancora e ancora...
Frida's last day. Vorrei ricordare qui che Frida (2003-2019) fu "figlia" del Ser.T (discendente da una cagnona dal pelo tutto bianco che per questa sua caratteristica era stata chiamata appunto "Bianca" e che era stata adottata dagli operatori della struttura, dotata - per le sue necessità - di un ampio giardino interno; il Ser.T (Servizio Tossicodipendeze) fu il luogo in cui lavorai sino a buona parte del 2004. Frida è stata in assoluto il cane più longevo tra quelli che ho avuto nel corso dei decenni.
Mi ha accompagnato nello spostamento dal Ser.t ad altra sede lavorativa, nel passaggio all'età felice del pensionamento e mi è stata vicino in un periodo in cui si sono alternati lutti ma anche importanti cambiamenti e felici eventi.
Frida è stata sempre una testimone silenziosa e fiduciosa, molto monella ed indisciplinata: essendo una meticcia aveva la tendenza spiccata a seguire i suoi istinti.
Il veterinario mi diceva che secondo lui, a giudicare dalla chiazze scure sul dorso che si intravedevano sotto il pelo bianco, doveva avere degli ascendenti di cani cacciatori, quelli che hanno appunto le "roane".
Era molto monella, scappava sempre sempre per andare a razzolare tra i rifiuti dove trovava sempre saporiti bocconi (per lei) oppure, quando eravamo in campagna si allontanava per andare a rotolarsi voluttuosamente su resti immondi, fossero escrementi vecchi oppure resti organici di vario tipo: e da queste imprese ritornava poi tutta orgogliosa (e puzzolente): un puro orgoglio canino per il quale non si poteva mai rimproverarla.
L'ho sepolta in campagna, a Piano Aci.
E questo è ora il posto dove Frida giace in pace.
Soffia il vento. Stormiscono le fronde e si vede in lontananza il mare.
E' un luogo di pace.
Ma qui tornerò a lavorare ancora per sistemare meglio questa sepoltura improvvisata.
Forse, porrò anche una piccola lastra di marmo con su inciso il nome di Frida e le indicazioni dell'arco della sua vita.
Forse, vicino alla piccola lapide, metterò ad ardere una piccola fiammella di cera.
Con Gabriel, verremo di sicuro a portare dei fiorellini per salutarla ancora e ancora..
Tutti i cani che ho avuto sono stati per me dei grandi amici, perché con loro ho sempre condiviso le mie solitudini, che c'erano sempre, anche quando ero circondato da altri.
La solitudine è una condizione basilare dell'esistere e bisogna essere consapevoli di ciò.
I nostri amici a quattro zampe ci aiutano in ciò, perché condividono la nostra solitudine con i loro silenzi e con quella fiammella inestinguibile di amore che brilla nei loro occhi, quando ti guardano.
E a volte noi non li ripaghiamo mai abbastanza con gratitudine.
Si è addormentata in auto, mentre - come sempre - andavamo in campagna. L'avevo messa dietro, nel portabagagli, perché davanti stava scomoda ed era irrequieta. Improvvisamente, mentre viaggiavo, ha avuto la netta sensazione di un'assenza. Ma non perché fosse cambiato qualcosa nel panorama delle mie senso-percezioni: eppure ho avuto questa sensazione in modo ben preciso. E ho pensato: "Frida se ne è andata". E infatti, quando siamo arrivati e ho aperto il portellone, Frida si era come addormentata ed era volata via.
Ciao, Frida. Rimani nei nostri cuori! Avrei voluto chiuderle gli occhi, come si fa con le persone. Ma non ci sono riuscito.
Il posto che ho scelto per la sua sepoltura lo avevo già individuato da tempo. Da quando Frida aveva cominciato a stare male, cioè. E' lo stesso luogo della sepoltura di una cagnolina, una cucciola di pastore tedesco, Theela si chiamava, morta precocemente poco dopo i suoi tre mesi di età. Così Frida non sarà del tutto sola: Gli altri cani stanno sepolti un po' più in basso.
Ho dovuto procedere in fretta perchè non avevo molto tempo a disposizione: dovevo ripartire in tempo per andare a prendere Gabriel a scuola...
Prima di mettere la terra ho steso su Frida il tappettino su si sdaraiva in auto e, accanto a lei, ho messo il suo guinzaglio
Poi, ho messo a dimora una piantina. Mi piace pensare che le radici del giovane virgulto si nutriranno di Frida e che Frida possa ricrescere come albero
Ciao Frida! Un giorno, forse ci rivedremo, quando anch'io sarò ombra: se esiste un luogo in cui vanno tutti i cani morti e i loro padroni è possibile che ci rincontriamo.
Questo è il posto di Frida. Soffia il vento. Stormiscono le fronde e si vede in lontananza il mare. E' un luogo di pace. Ma qui tornerò a lavorare ancora per sistemare meglio questa sepoltura improvvisato. Forse, porrò anche una piccala lastra di marmo con su inciso il nome di Frida e l'arco della sua vita. Forse, vicino alla piccola lapide, metterò ad ardere una piccola fiammella di cera. Con Gabriel, verremo di sicuro a portare dei fiorellini per salutarla ancora. Tutti i cani che ho avuto sono stati per me dei grandi amici, perchè con loro ho sempre condiviso le mie solitudini, che c'erano sempre, anche quando ero circondato da altri. La solitudine è una condizione basilare dell'esistere e bisogna essere consapevoli di ciò. I nostri amici a quattro zampe ci aiutano in ciò, perchè condiv
Accade a Palermo: una miriade di sacchetti di scorie di plastica abbandonati lungo il marciapiedi di una delle vie più importanti della città.
Una lunga teoria di sacchetti ed anche di oggetti singoli, ma più ingombranti, mescolati in un melange di colori con le foglie secche dei platani, inzuppate dalla pioggia.
Maurizio Crispi
Accade a Palermo: una miriade di sacchetti di scroie di plastica abbandonati lungo il marciapiedi di una delle vie più importanti della città di Palermo.
Una lunga teoria di sacchetti e di oggetti singoli, più ingombranti, mescolati in un melange di colori con le foglie secche dei platani, inzuppate dalla pioggia.
Ho osservato questo scemio lungo l'asse di via Libertà, nel giorno successivo a quello in cui - nottetempo - è prevista la raccolta differenziata dei rifiuti urbani solidi in plastica (in particolar modo il 4 gennaio mattina).
Sacchetti pieni di rifiuti di plastica, alcuni squarciati, singoli oggetti di plastica voluminosi sparsi lungo il marciapiedi dell'asse viario di via Libertà, quasi che - mentre veniva effettuata la raccolta - gli stessi sacchetti venissero buttati giù ad arte dal camioncino su cui erano stati caricati.
La loro disposizione, infatti, escludeva decisamente il fatto che essi fossero caduti durante la marcia da un camioncino stracarico. Per avallare questa ipotesi i sacchetti e gli oggetti di plastica avrebbero dovuto trovarsi sulla sede stradale, non sul marciapiedi.
Che sia stata una forma di boicottaggio da parte degli addetti dell'azienda preposta?
Insomma, una mano raccoglie, mentre l'altra insozza.
Una vera e propria forma di schizofrenia civica.
Altra causa possibile del malfatto (o misfatto che sia) discende dalla letale commistione di carenza di personale, da utilizzo di mezzi non adeguati e, least but not last, da strafottenza.
Dico questo sulla base di una mia recente osservazione.
Nottetempo, ho sentito dei rumori provenienti dalla mia via e ho guardato dalla finestra.
C'era ferma un camioncino del RAP davanti ad un cancello che dà accesso ad un condominio.
Era al lavoro un unico addetto (oggi, con termine politicamente corretto, dicesi "operatore ecologico", non più "spazzino" o "netturbino", termini entrati nel novero delle parole ingiuriose e per questo desueti) nella veste di factotum, quindi autista ed operatore al tempo stesso.
Con mia somma sorpresa procedeva in questo modo: ha rovesciato il contenuto di un grande contenitore condominiale (era la notte della raccolta organica, in questo caso) sull'asfalto e, quindi, con le mani ha sollevato i singoli sacchetti, lanciandoli nel cassone del camioncino. Tutto ciò che si è sparso per terra, le minuzzaglie, insomma, lo ha lasciato sull'asfalto.
Quindi, quasi allegramente, si è rimesso alla guida ed è ripartito per la prossima tappa.
Non c'è bisogno di altre parole per commentare: credo che ognuno possa trarre le debite conclusioni.
Nubi plumbee
gravano sulla città al risveglio
pioggia gelida e raffiche di vento
ombrelli che si schiantano
monnezza alla deriva nelle pozze di acqua piovana
foglie secche e oggetti di plastica sparsi
lungo i marciapiedi
quasi fossero stati lanciati ad arte
da netturbini burloni o forse dispettosi
gatti morti, abbandonati da giorni,
si guardano attorno con occhi ciechi,
le cornee opacate e il pelo arruffato
Poi, dopo tanto travaglio e tormento,
si affaccia il sole e scampoli di cielo si aprono nell’azzurro
«Fuori la neve continua a scendere silenziosa. È ormai quasi buio. Nella yurta invece è caldo. Bevo l'ultimo sorso dalla tazza e infilo la giacca per tornare al lavoro. Ciclopi, terremoti e bufere facciano quel che devono, io sono Marco Scolastici e dalla mia Itaca non me ne vado piú».
Nel volume pubblicato da Einaudi (Collana Stile Libero Big, 2018), Marco Scolastici, giovane pastore dell'Appennino proprio nella zona colpita dal terremoto, racconta la sua storia di resistenza alla catastrofe ambientale. Malgrado le difficoltà, infatti, egli è voluto rimanere vicino alla casa e nella terra dei suoi avi, proprio sopra la faglia: ha deciso di rimanere, assieme ai suoi asini, alle sue pecore e ad una trentina di cani maremmani
Il libro che, in forma di appassionato diario, racconta la storia del suo ritorno a quella terra e della sua ressitenza, si chiama Una Yurta sull'Appennino. Storia di un ritorno e di una resistenza ed è la toccante testimonianza su come si possa amare una terra, al punto da sacrificarsi per non lasciarla, malgrado le calamità naturali: terremoto e neve, in questo caso.
Marco Scolastici che ha scelto di tornare alla terra del bisnonno e del nonno, abbandonando gli studi universitari di Economia e commercio per fare il pastore, ha sentito la chiamata di quelle terre nei pressi di Macereto a due ore d'auto da Roma, come colpito da un'improvvisa vocazione.
Ed è stata la forza di qesta chiamata a indurlo a resistere e rimanere con i suoi animali, anche quando le reiterate scosse sismiche hanno reso la sua casa inagibile e le stalle in pericolo di crollo.
Ha continuato a resistere e, per svernare, ha preso ad abitare in una Yurta mongola.
Le terre di Macereto (nel territorio di Visso nelle Marche) sono state la sua Itaca, a cui dopo aver percorso una lunga strada ha fatto ritorno e a cui ha deciso di rimanere abbarbicato.
Il percorso narrativo è suddiviso in dieci incisivi capitoli, una sorta di idea-lista che lo porta a visitare le tappe essenziali del suo percorso (e ripetendo in ciò un gioco che soleva fare con la sorella Roberta), partendo dalla neve (è sepolto sotto una coltre di neve dopo una tormenta che sembra non finire mai mentre gli animali nelle stalle non possono nè mangiare né bere) e finendo con neve, quando in un empito di coraggio decide di uscire dalla Yurta e lottare per la vita dei suoi animali e per la sua Itaca.
Una storia che è bella, a tratti commovente. Ed un percorso che non è fatto solo di cronaca, ma forse soprattutto di assemblaggio di eventi intimi ed interiori (oltre che a veri e proprio sprazzi di memorie familiari) che offrono - in una tessitura a patchwork - l'intera vita di Marco Scolastici, conducendo il lettore ai perchè più profondi delle sue scelte e della sua resistenza. Apprezzo molto, tra l'altro, che non sia stato utilizzato il tanto abusato termine, oggi, di "resilienza", molto amato - sino all'ossessione - da certi psicologi degli sport di lunga durata ed estremi.
Prima ancora di attenzionarlo in libreria, mi era capitato di sentire su di una rubrica su RAI3 - forse RAI3 Mondo) un'intervista a Marco Scolastici, nella quale si parlava anche del suo libro: da lì ad acquistarlo per leggerlo il passo è stato istantaneo.
(Risguardo di copertina) Marco Scolastici era un ragazzo come tanti, iscritto alla facoltà di Economia a Roma, pieno di incertezze sul futuro. Poi un giorno, in un bar, si è imbattuto in una foto su un calendario: ritraeva il vecchio acero di Macereto, il Monte Bove, i pascoli in cui suo bisnonno Venanzio era cresciuto: curandoli, desiderandoli e infine comprandoli. Meno di una settimana dopo Marco ha lasciato la capitale. Il suo è stato un viaggio di ritorno verso casa difficile, talvolta doloroso, e quando pareva concluso la terra ha cominciato a tremare: era il 2016. Il buon senso gli suggeriva di scappare, ma quello sconosciuto altopiano delle Marche per lui era la vita. Non poteva abbandonare le sue pecore, i suoi asini, i maremmani. Cosí ha montato una yurta mongola accanto alla propria casa inagibile e ci ha trascorso l'inverno. Il sisma non sarebbe stato la fine di tutto, ma l'occasione per un nuovo inizio.
«Il silenzio è diluito in tutto ciò che fa parte dell'altopiano. Anche per questo il terremoto è stato sconvolgente: per la prima volta ho sentito le montagne urlare e, dopo l'urlo, i rumori sono diventati gli stessi che si sentono ovunque. È stato cosí per settimane, mesi, poi lentamente la natura ha cominciato a ricucire le cose, come è avvenuto milioni di volte nella storia di questa terra. Tra poco il silenzio tornerà a essere intatto come lo era nelle prime settimane in cui esploravo Macereto alla ricerca del suo sussurro».
L'autore. Marco Scolastici (1988) è originario di Tarquinia, vive sui Monti Sibillini e la sua storia ha superato i confini dell'Italia. La yurta sulle montagne di Visso dove ha trascorso l'inverno del 2016 è diventata un simbolo di speranza e un punto di riferimento per la gente del posto. A trovarlo sugli Appennini sono passati scrittori e artisti di fama internazionale. Il Premio Rigoni Stern gli ha consegnato il riconoscimento «I Guardiani dell'Arca». "Una yurta sull'Appennino" è il suo primo libro.
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Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre
armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro
intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno
nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).
Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?
La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...
Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...
Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e
poi quattro e via discorrendo....
Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a
fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.
E quindi ora eccomi qua.
E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.