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20 ottobre 2019 7 20 /10 /ottobre /2019 09:08
Alberi stroncati a Monte Pellegrino (Foto di Maurizio Crispi)

(Aprile 2019) Dopo molto tempo di sedentarietà e di brevissime uscite, anche a causa di un ginocchio traballante, un giorno mi son deciso e sono partito di prima mattina per fare una passeggiata da casa sino al Santuario di Santa Rosalia, zaino in spalla. Ed è stata anche la prima passeggiata di una certa lunghezza che mi sono deciso a fare dopo la morte di Frida, compagna fedele di corse e passeggiate, a gennaio.
E ce l'ho fatta, camminando di buona lena (secondo le mie possibilità) in 1h40' circa, percorrendo la Scala Vecchia e facendo anche alcuni tornanti della strada più moderna.
Questa passeggiata è stata per me fonte di grande gioia.
Innanzitutto, perché ho potuto dimostrare a me stesso che ce la potevo fare, malgrado gli acciacchi e la disabitudine al movimento e al tarlo della sedentarietà. E, in secondo luogo, perché ho potuto vivere il gusto dell'avventura di "casa mia": la sensazione cioè di aver a portata di mano il vasto mondo senza dover compiere grandi spostamenti per raggiungerlo, assieme a quella sensazione - altrettanto impareggiabile - dell'essere da solo nel silenzio e nella natura.
Ho avuto il piacere di constatare che tante cose sono rimaste identiche, mentre altre sono cambiate. Ho notato come dopo il devastante incendio di alcune estati fa, alcuni passaggi prima ombreggiati da grandi pini siano adesso del tutto spogli e desolati, non solo lungo le prime rampe della Scala Vecchia, ma anche lungo il suo tratto finale.
Qui, addirittura, sembra di vedere le vestigia di un'antica foresta pietrificata con tronchi calcinati dal fuoco che sono rimasti in piedi, mentre altri schiantati dal fuoco sono rimasti per terra come giganti uccisi che nessuno ha più rimosso.
Mi chiedo, considerando che Monte Pellegrino è una Riserva naturale orientata (la cui gestione è affidata al gruppo Rangers d'Italia) a chi dovrebbe spettare il compito di far pulizia delle macerie che il fuoco ha lasciato a terra e di mettere a dimora nuovi alberi per far in modo che i fianchi della montagna tornino ad essere coperti da un bosco.
Inoltre, un tempo, in diversi punti della montagna c'erano dei vaccari che qui portavano le mucche al pascolo e quindi molti tratti di terreno scoperto erano tenuti puliti dalle erbe infestanti in questo modo.
Adesso, essendo divenuto il Monte territorio della Riserva queste pratiche sono state escluse oppure sono cadute in disuso (considerando anche che oggi nessuno vuole più fare questi lavori), levando però un importante volano per il mantenimento della pulizia dei terreni, elemento primario - d'altra parte - per una più efficace protezione dagli incendi. Mi chiedo se gli ambientalisti nel proclamare il rispetto totale di determinati ambienti non pecchino di una forma di ottuso fondamentalismo, determinando come effetto paradossale di una pratica che vuole essere protezionistica e di tutela a condizioni di abbandono che poi sfociano (laddove arrivino degli incendi accidentali o, peggio, dolosi) in devastazioni e perdita delle caratteristiche che per l'appunto si intendevano preservare.

 

Ex-voto dedicati a Santa Rosalia (Foto di Maurizio Crispi)

L'arrivo al Santuario è stato come sempre emozionante. Quando sono entrato nella cappella-grotta sono stato subito contagiato dalla intrinseca forza del luogo, dalla sua sobrietà e dalla sua permanenza, immutata, nel tempo. Se si visita la grotta, e si legge prima la descrizione che ne fa Goethe (che salì qui nel corso del suo viaggio in Sicilia, parte del Grand Tour che egli compi in Italia), si può avere l'impressione che il tempo sia rimasto da allora fermo ed immutato.
Altrettanto bella è la prosecuzione della passeggiata verso il belvedere (un chilometro più in là) dove è stata eretta su di un plinto di cemento e marmo una grande statua di una santa Rosalia ieratica che fronteggia il mare e il lontano orizzonte. Questo è un luogo dove i fidanzati vengono a giurarsi eterno amore e dove, oltre alle loro scritte su fogli di cartone o di plastica, legano i propri lucchetti, come pegno della durata dell'amore, alla maniera di quanto è descritto in "Tre Metri sopra il Cielo", caso eclatante della finzione che entra d'impeto, in un gioco di emulazione e di specchi, nella vita reale (con la conseguente cascata di imitatori ed emuli a partire dai lucchetti legati a quintali sui lampioni di Ponte Milvio a Roma.
Il belvedere è un posto davvero magico perché si ha la sensazione di essere esattamente a metà tra la terra e il cielo e in vista del perfetto cerchio dell'orizzonte là dove mare e cielo si confondono in un una caligine blu, mentre barche a vela e bastimenti solcano le acque. Una visione d'incanto e evocativa de L'Infinito di Leopardi.

Santa Rosalia, statuetta in una cappella votiva a mezza via della Scala Vecchia di Monte Pellegrino (foto di Maurizio Crispi)

Quando mi allenavo seriamente con la corsa, salivo a Monte Pellegrino almeno una volta alla settimana, se non due. Qui, alla piccola cappella votiva dedicata a Santa Rosalia, alla metà circa della prima serie di rampe (le più dure, quanto a pendenza) sostavo sempre per un paio di minuti in meditazione. E raccomandavo alla Santa le persone che mi erano più care. Non pratico assiduamente la religione, eppure ci sono delle cose in cui credo fermamente. E d'altra parte i luoghi di culto dedicati ai santi diventano spesso dei luoghi di preghiera trasversali a molte religioni.
Forse non molti sanno che per molti dello Sri Lanka e di Mauritius il cammino per salire sino sino alla Grotta di Santa Rosalia è un percorso devozionale molto frequentato. Ogni domenica mattina, su e giù per la Scala vecchia c'è una vera e propria processione.
Anche questa volta, dopo tanti anni, mi sono fermato davanti alla piccola cappella a meditare, a dedicare pensieri alle persone che mi sono care e a quelle che non ci sono più, e a osservare gli ex voto.
Dopo questa sosta rigeneratrice sono ripartito di buona lena, lasciandomi alle spalle la parte più dura della Scala Vecchia.

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18 ottobre 2019 5 18 /10 /ottobre /2019 09:45
Marco D'Eramo, Il selfie del mondo, Feltrinelli, 2017

Marco D’Eramo è un sociologo e giornalista che ha studiato il turismo nel libro “Il selfie del mondo” (Fetrinelli, 2017 ed ora anche in economica).
Non tutto il libro è di pari interesse, ma la prima parte per coloro che amano il camminare di lunga durata, il trekking ed anche il camminare profondo, anche in opposizione, può essere stimolo di riflessioni.

In particolare, all'interno del volume si ritrova un argomento d'un certo interesse ed è quello  in cui D’Eramo decreta la morte di città e territori: questo verdetto rilasciato dall’Unesco è il “Patrimonio dell’Umanità” o World Heritage.
Molti pensano sia un grande riconoscimento, che aiuta a salvare città, territori e beni materiali e immateriali. Ma in realtà, come spiega bene D’Eramo, ne certifica la morte, trasformando un luogo vivo, in evoluzione, una città abitata da gente vera, in una "disneyland" per turisti.
O meglio, quasi sempre il processo è già avvenuto e quando arriva il patrocinio l’Unesco, si tratta soltanto di una sorta di convalida ufficiale. Il bollino Unesco poi non fa che incrementare all'ennesima potenza il numero dei visitatori.
Le città, i paesi e i territori sotto l'implacabile pressione del turismo globale (pensiamo a Firenze, Venezia o a San Gimignano) si trasformano, gli abitanti storici se ne vanno, per lasciar posto a B&B, Case Vacanze, Affittacamere, Airbnb. I negozi “veri”, che vendono beni di prima necessità, si trasformano prima i negozi di prodotti tipici, e poi in negozi di souvenir standard, uguali in tutto il mondo: e si tratta di un processo che è difficilmente reversibile, una volta avviato.

Prendiamo - a titolo di esempio - il caso del bel paese medievale di San Gimignano. Chi ha camminato sulla Francigena lo conosce bene.
Ma gli abitanti autoctoni non possono più vivere nel suo centro storico: i prezzi sono alti, non c’è più un negozio vero (non si vive di soli pinocchietti di legno!), ma solo rivendite di souvenir standard, poste una accanto all’altro; le strade sono piene di gente all'inverosimile: insomma, tutto l'opposto di una cittadina a misura d'uomo e di conseguenza il nucleo storico della cittadina si è spopolato e se ne sono andati tutti a vivere in periferia. E, per quanto riguarda la Toscana, quando arrivano i famosi pinocchietti si può decretare senza ombra di dubbio che il processo di disneylandizzazione di un luogo è cosa compiuta: e il luogo con le sue radici storiche e con le vite narrate e da narrare che contiene si trasforma in un anonimo non luogo.

È paradossale che l’unintended consequence del voler mantenere l’unicità, l’irripetibilità di un sito, produca in realtà un 'non luogo' sempre uguale a se stesso in tutti i siti heritage della terra. Come per trovare i veri sangimignanesi devi uscire e allontanarti dalle mura medievali, così per trovare dove vivono davvero i laotiani di Luang Prabang bisogna pedalare in bicicletta per un paio di chilometri su Photisalath Road per raggiungere la città vivente”.
Il turismo è l’industria più pesante, più importante e più impattante del XXI secolo, tanto che ormai si parla dell’"Età del turismo" riferendosi alla nostra era.
Ovviamente l’etichetta Unesco non è causa del turismo, ma ne è in qualche modo certificato di garanzia, e copertura ideologica (istituzione “a fin di bene”).
L’etichetta Unesco ha aperto all’industria turistica una nuova, meravigliosa, sconfinata terra di conquista: perché costruire nuove Disneyland quando disponiamo di una caterva di città viventi e di territori che aspettano (anzi chiedono disperatamente) di diventare parchi a tema, col semplice mummificarsi, e quindi svuotarsi?”. E ovviamente poi si paga il biglietto, perché stupirsi se sui sentieri delle Cinque Terre o delle Gole di Samaria da anni, a Venezia da dopodomani o in altri luoghi a seguire pian piano, si pagherà il biglietto per entrare?".

Marco D'Eramo, Il selfie del mondo, Feltrinelli, Universale Economica, 2019

Marco D'Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo, Feltrinelli (Campi del sapere), 2017

(Dalla quarta di copertina) Un saggio che analizza il fenomeno sociale e globale del turismo: una ricerca attualissima, una critica sorprendente della contemporaneità, che è anche uno straordinario viaggio intorno al mondo.

Il turismo è l'industria più importante di questo nuovo secolo, perché muove persone e capitali, impone infrastrutture, sconvolge e ridisegna l'architettura e la topografia delle città. D'Eramo tratteggia i lineamenti di un'epoca in cui la distinzione tra viaggiatori e turisti non ha più senso e recupera le origini di questo fenomeno globale, osservandone l'evoluzione fino ai giorni nostri. La nascita dell'epoca del turismo rivive attraverso le voci dei primi grandi globetrotter, a partire da Francis Bacon, passando per Samuel Johnson, fino a Gobineau e Mark Twain, che restituiscono una concezione del viaggio ancora elitaria e che, tuttavia, porta con sé quella ricerca del diverso, del selvaggio e dell'autentico tipica di ogni esperienza turistica. Attraverso un percorso urbano che si sviluppa su tutto il mappamondo, d'Eramo smaschera la dialettica del fenomeno turistico e la affronta senza pregiudizi snobistici, collocandola nello spirito del suo tempo.

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4 ottobre 2019 5 04 /10 /ottobre /2019 09:12
La panchina è mia! (foto di Maurizio Crispi)

Ogni mattina sono alla piazzetta della Noce (a Palermo), nei pressi dell'Istituto Valdese, dove mio figlio Gabriel va a scuola.
Io vado a piedi o in macchina e lì ci incontriamo con Maureen e Gabriel, poco prima dell'orario di ingresso.
La piazzetta, dominata da una statua della Madonna che riposa su di un alto plinto, benchè risistemata di recente e spesso sporca di spazzatura fluttuante, tipo sacchetti di plastica e incarti spostati dal vento qua e là, quel tipo di lordura endemica che caraterrizza tante vie e piazze della nostra città.
Ma, nello stesso tempo, è confortevole, perchè fornita di alcune panchine in ferro che (stranamente) non sono ancora state vandalizzate, forse perchè considerate dagli abitanti del quartiere un "loro" bene pubblico.
All'orario del mio arrivo, solitamente non c'è nessuno e le panchine sono tutte libere.

Poi, appena un po' più più tardi, la piazzetta si anima e arrivano alcuni abituali suoi frequentatori, probabilmente del quartiere, alcuni dei quali vanno ad occupare sempre la stessa panchina.
Una mattina, desideroso di cambiare prospettiva, sono andato a sedermi proprio su quella panchina.
E mi sono sistemato a fare le mie cose per un'attesa operosa (si interpreti: leggere un libro).
Nemmeno avevo iniziato a leggere che è arrivato un tizio del gruppo di panchinari fissi e benchè, tutte le altre panchine fossero libere, si è seduto accanto a me con tenace invadenza.
Io sono rimasto ma sentendo la mia privacy compromessa. Come quando al cinema, benchè la sala sia del tutto vuota, uno arriva e si piazza o davanti o dietro o accanto a te.
Da parte del frequentatore abituale della piazzetta (indigeno del quartiere giunta) ho sentito quell'azione come una dichiarazione di possesso, non detta a parole: "Questa panchina è mmmmia!".


 

La Piazzetta della Noce (foto di Maurizio Crispi)

Siccome di lì a poco sarebbero arrivati Maureen e Gabriel e , a meno di stringersi come sardelle, non ci sarebbe stato posto per tutti, dopo  una dignitosa persistenza durata qualche minuti, mi sono spostato per sedermi sulla panchina di fronte che era libera, ovviamente.

Poco dopo, la mia defezione, sono arrivati i suoi compagni di merendine, quelli con cui il ciondolamento senza far nulla si protrae nell'arco della mattinata. E quello, il primo della combriccola ad arrivare sul posto, è rimasto a fissarmi a lungo.
Wow!

Nei giorni successivi mi sono sempre seduto in panchine diverse della piazzetta, ma mai più su quella.
Il tizio che indossa sempre pesanti occhiali da sole e che è sempre con la barba non fatta, arriva sempre poco dopo di me e sistematicamente si siede su quella panchina (si siede sempre esattamente sul lato della panchina che io avevo occupato quella volta).
Mi sembra che mi guardi in cagnesco e in maniera ostentamente prolungata, con gli occhi nascosti dietro quegli occhialacci neri. Quel suo sguardo insistito mi dice: "Vedi, questa panchina è mmmmia! Mia! Mia!"
Mi è sembrato si sia trattato di un fenomeno sociologicamente rilevante che ha a che vedere con la "marcatura" del territorio e con l'affermazione di proprietà personale su qualcosa che, in verità, è pubblico.
Come se quella panchina in quella specifica piazzetta assolvesse alla funzione del cosiddetto "stammtisch" delle birrerie tedesche (in cui il termine fa riferimento sia al gruppo di persone che si riuniscono, sia al tavolo - usualmente rotondo - da esse occupato).
Questo piccolo episodio mi ha fatto ricordare del tempo in cui frequentavo i corsi universitari.
Quando ero ancora una matricola, avevamo una lezione nelle prime ore del mattino, forse alle 7.30, e occorreva andare al Policlinico molto presto.
La lezione si svolgeva in un'aula ad anfiteatro, con i banchi a scala, e con una fila di poltroncine, proprio in basso, dove il professore aveva la sua postazione.
C'erano alcuni miei colleghi che occupavano solitamente quelle poltroncine e, per poterlo fare, arrivavano prestissimo, con largo anticipo: erano un misto tra quello che oggi si definirebbe un "nerd", ma a quei tempi la parola adatta era "secchione" e il tipo del leccaculo. Chi di loro arrivava per primo occupava i posti anche per tutti gli altri: in fondo, avevano costituito una sorta di lobby informale. Si capivano bene tra loro (e si tratta di quelle intese che si colgono al primo sguardo).
In omaggio alla loro duplice natura, oltre a prendere accanitamente appunti, presentavano il "Segno di De Musset", cioè facevano continuamente dei movimenti oscillatori con la testa (per indicare che avevano ben capito e che stavano seguendo, bevendo le parole del prof come se fossero acqua benedetta), come quelle famose statuine cinesi con la testa oscillante. Era uno spettacolo proprio buffo. E, poi, da parte loro c'era il rito delle domande pseudo-intelligenti, sempre per farsi notare dal professore ed entrare così nelle sue grazie. Erano anche quelli che spesso e volentieri si intrattenevano con il prof a fine lezione e facevano capannello attorno a lui.
Io me ne fregavo di tutto questo.

Non avevo simili preoccupazioni e un'assoluta fiducia nelle mie risorse personale, senza bisogno di ricorrere a simili astuzie.
Forse proprio per questa mia diversa concezione, lo stile leccardino di questi miei colleghi mi indisponeva.
E così decisi che per una volta sarei arrivato prestissimo, molto prima di loro e che avrei occupato una di quelle poltrone di prima fila.
Non vi dico le reazioni. Perchè uno dei secchioni/lecchini rimase ovviamente senza posto e privato della possibilità di esercitare le sue virtù. E non ci potè nulla: io benchè pressato a lasciare la poltroncina rimasi con il culo incollato ad essa.
L'escluso era incazzato nero e si muoveva come un leone condannato all'esilio, come se fosse stato privato della possibilità di esercitare un diritto acquisito e inamovibile.
Ma tant'è.

Io durante quella lezione mi divertii tantissimo, guardando di sottecchi la mimica e il comportamento di quel povero esiliato a cui avevo rovinato per una volta la festa.
E benchè con il suo sguardo dicesse "Quella poltrona è mmmia!" fu costretto alla fine ad accettare la sua condizione di escluso.

 

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13 settembre 2019 5 13 /09 /settembre /2019 10:20
Il venditore ambulante di generi di ortofrutta (Giuseppe)

Nel 2013, scrissi di "quel venditore di strada vicino casa".
Ebbene, Giuseppe (questo è il suo nome), ormai quasi trentenne, è ancora lì a vendere frutta di stagione, talvolta sacchi di patate o altri ortaggi. Ogni volta solo pochi articoli che cambiano di giorno in giorno, a seconda della fornitura che riceve.

Ebbene, lui è sempre là.

Sin dalla mattina presto e talvolta sino ad un'ora inoltrata della notte.

Il mandato che riceve da coloro a cui deve rendere conto è quello di non poter andare via se prima non ha smaltito tutta la mercanzia. E ciò a prescindere da qualsiasi condizione atmosferica. E poi, a notte tarda se ne va a casa a piedi a oltre mezzora di cammino.

A notte inoltrata, talvolta lo vedo che sonnecchia su di una sedia di plastica sbilenca, quando proprio non ce la fa più. incappucciato nella sua felpa se si fanno sentire il gelo e l'umido della sera.

Qualche volta gli offro un caffè e un cornetto.

Una volta, di pomeriggio, mi ha chiesto di comprargli delle merendine al supermercato, dicendomi che poi me le avrebbe pagate. Ma io ho voluto offrirgliele.

Qualche volta compro da lui della frutta, ma poi me ne pento sempre perchè pur di liberarsi della merce, mi offre un'intera cassetta a prezzi stracciati e i frutti marciscono prima che faccia a tempo a consumarli. Per non parlare del fatto che stando in mezzo alla strada o le prendi di mattina presto oppure te le ritrovi poi completamente ricoperte della polvere della strada
Qualche volta, mentre è impegnato a vendere ad un braccio dell'incrocio e la frutta, messa in mostra all'altro, rimane incustodita e gliela rubano: approfittando della sua assenza qualche automobilista agguanta qualcuna delle cassette.

Giuseppe il venditore di frutta

Qualche volta, al passaggio, tento una conversazione su argomenti diversi: parliamo del tempo che fa, della partita di calcio che ha visto, ma inesorabilmente lo scambio verbale sfocia in una richiesta da parte sua di comprare qualcosa e questo anche a sera inoltrata: il suo problema è che deve sbarazzarsi di tutta la merce che gli è stata assegnata prima di poter tornare a casa.

All'inizio di dicembre del 2017 mi ha detto che di questa vita non ne poteva più e che si era stancato.

Io gli ho detto: "Bravo! Qualche volta bisogna avere la forza di cambiare..."

Ha aggiunto: "Io me ne voglio andare. Una mia sorella sta a Bologna e per la prossima settimana mi ha preso un appuntamento per un posto di lavoro".

Ebbene, malgrado questa dichiarazione d'intenti, Giuseppe è ancora là a vendere.
O il suo sogno di libertà non c'è mai stato e ha detto solo per dire di questa sua possibile emancipazione.
Oppure quelli per cui vende non hanno voluto che se ne andasse.

Mi intristisce vederlo lì ogni giorno della sua vita, bloccato in un'eterna ricorsività ad un incrocio di vie, specie dopo quella breve conversazione.

Giuseppe è ancora là a vendere, con il bello e il cattivo tempo, con il freddo dell'inverno e nella canicola dell'estate dalle prime ore del mattino sino a notte tarda. Sembra inamovibile: come se facesse parte integrante di quell'incrocio.

Se questa non è una forma di schiavitù, ditemelo voi.

Di seguito, ripropongo cià che scrissi di lui nel 2013

 

E Giuseppe è ancora lì a vendere frutta e ortaggi
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19 agosto 2019 1 19 /08 /agosto /2019 17:36
Il dormiente, foto di Maurizio Crispi
Il dormiente

Mi pervade un senso di estraneità e spaesamento
A volte più forte che mai: e allora mi sento veramente senza una patria
E quanto più mi sento radicato,
tanto più sono sradicato da ogni luogo
Forse perchè il posto dove mi sento più radicato
è una roccaforte isolata situato nel mio intimo
il ritiro ultimo dove rifugiarsi
Ce la metto tutta,
ma i miei sforzi sono vani
rimango estraniato

Questa notte ho fatto un sogno
Ero in un posto che, ad occhio e croce,
assomigliava alla casa di Altavilla e al terreno circostante
Dovevo ricevere la fornitura di acqua per l'irrigazione
Avevo aperto i rubinetti e i miei sensi erano all'erta
L'acqua con grande scroscio cominciava ad arrivare e a riempire i serbatoi
Ma, all'improvviso, qualcosa andava storto
altissimi zampilli cominciavano a schizzare verso l'alto
dalle giunzioni dei tubi

Succede di solito, perchè la pressione dell'acqua è forte,
ma stavolta si trattava di qualcosa di anomalo,
d'una forza quasi apocalittico
E, infatti, all'improvviso, grosse pietre
cominciavano a venire fuori dai muri della casa
e dalle pareti della vasca di raccolta,
la malta che le teneva uniti liquefatta (era questa l'impressione)
Tutto veniva portato via come da un maremoto,
un'onda di Tsunami,
ma solo la seconda parte, quella micidiale del risucchio
provocato dal ritirarsi delle acque che hanno profanato la terra

Mi ritrovavo sconsolato a guardare il disastro
Laddove c'era la casa
ora c'erano soltanto mucchi di pietre traballanti,
enormi buchi nei muri
o meglio dei loro frammenti rimasti in piedi in equilibrio precario
Ma non fuggivo via
Mi vedevo anzi mentre mentre mi davo da fare a preparare il cemento
e, senza nessun criterio, mettevo cazzuolate qua e là
per rabberciare i buchi
per tenere assieme i massi pencolanti,
per rimediare in qualche modo
Capivo tuttavia
che tutto questo mio agitarmi era assolutamente inutile
Una sinecura
Eppure, iterativamente,
continuavo a riempire caldarelle e buttavo l'impasto di cemento qua e là,
a casaccio
quasi fosse soltanto un'azione rituale,
un'apotropaismo per scongiurare mali peggiori
di cui l'evento di cui ero stato vittima e testimone
era soltanto l'annuncio ominoso
E, alla fine, c'era vicino a me mio fratello
nella sua carrozzina
Lo mettevo a suo agio con il tavolo davanti
e con il giornale ben dispiegato, come facevamo un tempo
La sua presenza era rassicurante e benevola

E qui il sogno finiva

This must be the place

 

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5 luglio 2019 5 05 /07 /luglio /2019 08:08
Brainstorming

Riposo
Meditazione
Preghiera
Scoramento
Staiu muriennu di cavuru
Non ce la faccio più
Disperazione 
Solitudine

 

Brainstorming

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28 giugno 2019 5 28 /06 /giugno /2019 08:24
Foto di Maurizio Crispi - Palermo, panchina infiorata

Giaccio sulla panca di sasso
ingentilita da una coperta di grassi fiori purpurei
Via vai di api laboriose
dentro e fuori le corolle carnose
dove vorrebbero ancora impollinare
ma quei fiori hanno esaurito il loro ciclo vitale
- loro, le api, non lo sanno, sembra -
e sprigionano già l’odore greve della decomposizione

I gabbiani veleggiano,
mentre i piccioni ormai sempre più sparuti
timidi si nascondono

Abbandonato sulla dura pietra
dormo
per un attimo sogno, forse,
all'improvviso i raggi obliqui
del sole nascente
mi colpiscono di taglio il volto
gli occhi ancora chiusi

Cambia la temperatura
ma il freddo della panchina sotto le schiena e le natiche
continua ad essere di sollievo
e gusto così la carezza calda del sole
sulla pelle
Poi,
splish splash,
vengo bersagliato dai gentili doni
di un gabbiano in volo
Apro gli occhi e li volgo al cielo
accettando l'imprevisto
con stoica attitudine
Mi alzo e vado
fiducioso
verso un nuovo giorno

Foto di Maurizio Crispi - Palermo, panchina infiorata

Manco a farlo apposta Splish splash è il titolo di una canzone in stile Elvis degli anni Sessanta motivo per cui ho modificato il titolo aggiungendovi "splosh"...

 

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6 giugno 2019 4 06 /06 /giugno /2019 09:30
London Undergrond, come rifugio antiaereo durante la II Guerra Mondialeu

Durante la II Guerra Mondiale, i londinesi per proteggersi dai bombardamenti tedeschi si rifugiarono nei tunnel della metropolitana che, già allora, era estesissima e ramificata, ponendosi di fatto come un enorme rifugio antiaereo già a disposizione.
Dicono che, una volta cessato l'allarme immediato, alcuni, per paura, ci rimanessero nei giorni successivi a bivaccare per proteggersi così dall'imprevedibile prossimo raid.
Senza che fosse stato previsto dal piano di protezione della popolazione civile, all'interno delle gallerie nacquero punti di vendita (ambulanti o anche fissi) di ogni genere: dal venditore di The caldo, al libraio fornito di un suo barachino mobile, a quello che somministrava generi di ristoro diversi etc.
Si creò nella profondità dell'Underground londinese un abbozzo di società civile.

Peter Ackroyd, I sotterranei di Londra, Neri Pozza

Tra i governanti britannici, così racconta uno storico inglese in un suo libro che contiene una serie di piccoli saggi sulla "Londra sotterranea", si generò paura che la popolazione scesa nelle gallerie  - una volta assuefattasi  a quelle diverse condizioni di vita - non sarebbe più risalita alla superficie. Per questo motivo, essi scoraggiarono queste forme di iniziativa spontanea e, una volta cessata l'emergenza, proibirono decisamente ogni bivacco sotterraneo (si veda al riguardo Peter Ackroyd, I Sotterranei di Londra, Neri Pozza, Il Cammello Battriano, 2014).
C'è in questo piccolo frammento di storia - che suona quasi come un apologo - un insegnamento relativo alla dimensione claustrofilica che con facilità nella vita di una persona qualsiasi (anche molto attiva ed estroversa) può da un momento all'altro prendere piede e radicarsi.
C'è il fascino potente del claustrum come luogo fisico (ma anche un luogo della mente) nel quale ciascuno può rifugiarsi e stare perché lì non "non temerà alcun male"
Quando si cominciano ad apprezzare le gioie e l'infinita sicurezza del claustrum può diventare difficile tornare indietro, risalire alla superficie o venire fuori negli spazi aperti .
Specie se, in quello spazio claustrale, hai a disposizione tutto ciò di cui puoi avere bisogno.
Quando morì mio padre io che, allora, ero ancora studente universitario, mi insediai nella stanza adibita a suo studio personale, il suo "Sancta Sanctorum". Lì, lasciando tutte le sue cose, aggiunsi come stratificazione aggiuntiva le mie: libri di studio, libri di altro genere (narrativa o saggi) dischi, oggetti personali di ogni genere.
Quella per me divenne una stanza accogliente, dove - a prescindere dalle ore dedicate allo studio - passavo gran parte del mio tempo. Mi piaceva molto anche quest’idea delle stratificazioni archeologiche in cui io andavo aggiungendo il mio strato a quello di mio padre che, a sua volta, nel suo studio aveva collocato libri e oggetti di pertinenza della generazione che lo aveva preceduto.
E la cosa curiosa è che, per motivi complicati (di cui qui non parlerò), nel corso dell’ultimo anno specialmente, ho fatto ritorno a quella stanza in pianta relativamente stabile, colonizzandola con oggetti del presente (o del passato recente) e aggiungendo quindi un ulteriore strato a quelli precedenti, compreso il lungo periodo in cui mio fratello aveva utilizzato la stanza come ufficio del Coordinamento H.

Elvio Fachinelli, Claustrofilia, Adelphi 1883

Era questa la stanza dove, all'occorrenza accoglievo anche i miei amici o dove portavo le mie fidanzate (anzi, nei loro confronti, il farle entrare dentro questa stanza era una prova molto speciale).
La stanza infatti non solo era un luogo fisico, ma anche era uno spazio della mente molto personale ed intimo.
In quel periodo sentii intenso il fascino del claustrum di cui accennavo prima: più stavo in quella stanza più mi veniva difficile uscirne fuori. Pensavo: Qui ho tutto ciò che mi serve, perché mai dovrei fare la fatica di uscire?
Ma quella fu soltanto una fase transitoria.
Poi, uscii di nuovo a riveder le stelle, per riecheggiare il verso dantesco.
Ma l'attrazione del claustrum è sempre potente (affascinante ed insidiosa assieme). E come non ricordare qui il bellissimo saggio di Elvio Fachinelli, Claustrofilia (Adelphi, 1983)?

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16 aprile 2019 2 16 /04 /aprile /2019 07:23

Nel settembre 2009 andai a seguire una gara podistica (già allora non correvo più, ma partecipavo agli eventi di ultra come fotografo).
Mi sono imbattuto in un DVD nel quale erano salvate alcune gallerie fotografiche di quel periodo
Non sono riuscito subito a ricordare di quale gara si trattasse: per saperlo avrei dovuto consultare la mia agenda di quell'anno che, al momento, non avevo a portata di mano, ma poi in quello stesso archivio di DVD ho ritrovato anche le foto della gara podistica. Si trattava di una delle prime edizioni della "6 ore di Angizia" (Luco dei Marsi, pronvincia di Aquila, Abruzzo) che, in quell'anno, alla vigilia, ospitava anche un raduno degli atleti di ultra di interesse nazionale e un convegno sulla ultramaratone, nel quale io svolgevo la funzione di moderatore.
A quel tempo facevo parte del consiglio direttivo della IUTA ed ero il responsabile dell'Area Comunicazione.
In quel viaggio, come a volte succedeva, mi accompagnò mio figlio Francesco.
Eravamo partiti in auto da Palermo. All'andata eravamo sbarcati a Napoli, mentre per il ritorno avevo deciso di imbarcarmi a Civitavecchia,
Non c'erano margini di tempo troppo ristretti e quindi abbiamo potuto fare la strada verso il luogo dell'imbarco con comodo, con spazi aperti per il vagabondaggio turistico "on the road".
L'imbarco a Civitavecchia lo avevo scelto, anche perchè - il giorno successivo alla gara di Angizia - era previsto un sopraluogo nella zona attorno a Tarquinia (Viterbo) dove si sarebbe disputato Il Campionato del Mondo IAU 100 km: con alcuni componenti del Consiglio direttivo della IUTA, assieme al presidente del comitato organizzatore della 100 km degli Etruschi abbiamo fatto questa diversione. E poi ciascuno è andato per la sua strada: con Francesco quindi siamo rimasti a girare per Tarquinia e dintorni, tra il 7 e l'8 settembre in attesa dell'imbarco a Civitavecchia. Le foto che ho ritrovato sono state scattate appunto proprio in quest'arco di tempo.
Un'autentica situazione da "viaggio con papà", di cui nel momento in cui scrivo questa nota, dopo diecianni ho quasi perso memoria.
Imbattersi in questa galleria fotografica è stata per me una sorpresa davvero grata.
La maggior parte delle foto sono state fatte in giro per Tarquinia, una cittadina che presi ad amare molto dopo che l'ebbi scoperta, in occasione della mia unica partecipazione alla 100 km degli Etruschi, forse nel 2006, e dove sono tornato tutte le volte che ho potuto.
Altre, invece, sono state scattate a Tuscania.
Cosa dire di quelle foto? Mi ricordano nostalgicamente di un momento del passato. Quando vivi un evento, dei giorni, delle circostanze, non sai mai sei sei felice o meno, semplicemente non ti poni il problema. Se volgi lo sguardo indietro al passato dal momento presente, riporti in vita il tuo spettro di un tempo remoto e hai l'impressione che quel particolarmente momento fosse particolarmente felice, anche se quel momento era la risultante di un gioco complesso di luci ed ombre, di gioie e di dispiaceri, di tormenti interiori e di slanci. Eppure, guardando indietro, tendi ad espungere e a omettere le parti spiacevoli, come se se venisse inserito un filtro che elimina tutto ciò che possa alterare la rappresentazione immobile di un orizzonte perduto, una sorta di Shangri-la della mente. Ed è per questo motivo che il tuffo nel passato impone al gioco delle emozioni un sentimento nostalgico, relativamente ad un "come ero" non realistico. Ma vi è di più, un salto indietro nel tempo (nel caso di cui stiamo parlando, si tratta di un flashback, collocabile circa dieci anni prima), comporta il confronto anche con le perdite e i lutti che si sono succeduti. Eravamo nel 2009 e ancora, la mamma non era morta. Mio fratello godeva di buona salute. Frida era viva e vegeta (anche se nella circostanza l'avevo messa a pensione): quindi, guardando quelle foto, guardo un'immagine di me ancora vergine dall'aver sperimentato dolori e perdite (altri ce n'erano stati prima, ma il tuffo in un particolare momento del passato, comporta l'attenuazione - se non una completa schermatura - dei momenti dolorosi ancora precedenti). E poi c'è ad affacciarsi prepotente quella dimensione del viaggio, l'ampiezza degli orizzonti aperti davanti a me (come quando si viaggia su di una strada e ci si ferma qua e là a curiosare, in totale libertà). E questo, assieme alla leggerezza d'animo (che almeno apprentemente si evidenzia) dà la misura della differenza rispetto al momento presente, quello in cui mi sembra che l'ampiezza dell'orizzonte davanti a me si sia ristretto e si sia fatto asfittico, assieme all'altra consapevolezza - quella che dà l'irrimediale misura del tempo trascorso tra quel momento del passato ed ora - della sentenza di un termpo che si ò fatto stretto: non più un tempo illimitato e di una fonte inesauribile di energia, ma un tempo drammaticamente a termine (con le inevitabili riflessioni sulla fine).
Ancora, al tempo di quegli scatti non avevo avviato il mio profilo facebook.
Queste foto, quindi, sono del tutto inedite.

 

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9 aprile 2019 2 09 /04 /aprile /2019 08:39
Piazzetta di borgata con giostrina a Palermo (foto di Maurizio Crispi, 2013)

 

Piazzetta di borgata
e alberi rivestiti di verde tenero
e siliquastri risplendenti
di gemme amaranto 
e, per loro, il manto di smeraldo
non è ancora arrivato

Tempo lento

C'è una giostrina
ferma e silenziosa

E c'è anche una mini-ruota
dotata di navicelle-mazinga
che oscillano lievi,
ma non ci sono bambini
e mancano voci, giochi e risa

Panchine numerose,
anch'esse vuote
molte di loro
quasi del tutto sommerse
dalla crescita selvaggia
di erbe infestanti

Solo dalla spalliera di una
emerge una testa rivestita di candidi capelli,
talmente immobile
da far pensare ad una statua

E, al margine, si vede il memento
d'un transito cruento,
un palo della luce
con un mazzo di fiori di plastica e una foto sbiadita

Dovunque,
incarti vuoti, 
fogli di giornale gualciti e sporchi,
resti di frettolosi picnic
che ispirano una vena sottile di malinconica assenza

Il sole primaverile
picchia forte
Il vento fa incurvare
gli steli d'erba
E, nell'ombra, si avverte
una traccia del freddo dell'inverno
che ancora indugia

Sono preso da un greve torpore,
le palpebre pesanti
mi si chiudono
e vorrei lasciarmi sprofondare
nel letto invitante
d'erba smeraldina e foglie morte
e sentire l'odore della terra
ancora umida di pioggia

La tentazione è forte

Ma lo so...
Non devo

Seguendo quest'impulso
potrei anche scivolare in un pozzo di solitudine,
o in una prigione labirintica,
o in una Chernobyl della mente
o in una fredda cripta di cemento

E allora volgo le spalle
all'incanto della piazzetta
e m'incammino a lenti passi
per andare 
altrove
 
Oltre

______________________________________________
Questo scritto l'ho recuperato da una vecchia galleria fotografica su Facebook (Aprile 2013), di cui era il commento.
In quelle foto c'era mio fratello, ed anche Frida, allora nel pieno delle forze.

Testo e galleria fotografica sono il ricordo di uno dei tanti momenti che condividevo con mio fratello: lo accompagnavo alle sue riunioni e poi me ne stavo a vagabondare nei dintorni, senza meta.
Raccogliendo pensieri ed immagini.

 

Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
Viaggio intorno ad un giardinetto pubblico
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Come sono arrivato qui

DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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