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30 ottobre 2019 3 30 /10 /ottobre /2019 09:51
Chris Kraus, I Love Dick, Neri Pozza, 2017

Afferma René Girard, nel suo testo Geometrie del desiderio (Raffaello Cortina, 2012) che in tutte le relazioni amorose, incluse quelle "letterarie", vige il principio secondo cui,in maniera occulta o esplicita, debba esserci la presenza di un terzo, il cui esserci serve ad alimentare la passione amorosa e tutti i movimenti interiori su cui si fonda la relazione.

Il testo di Chris Kraus, I Love Dick (traduzione dall'inglese americano di Maria Nadotti), pubblicato da Neri Pozza (Collana Bloom), nel 2017, è una valida semplificazione di questo assunto ed  è anche - per molte ragioni - come scrive Joan Hawkins nella postfazione si presenta - se lo si volesse etichettare in qualche modo - come una fiction "teoretica", nel senso che in contesto epistolare-diaristico una triangolazione amorosa evolve rapidamente - senza aver visto prima qualsivoglia "consumazione" - verso una dimensione cerebrale ed una condivisione intellettuale, piuttosto che fisica.

Chris Kraus, filmmaker sperimentale e sposata da anni con l’intellettuale Silvère Lotringer, nel corso di una serata assieme Dick, critico culturale inglese, crede di innamorarsi di lui, sulla base di poche parole e sguardi scambiati (e la prepotente sensazione di una nascente complicità). Nasce quindi nei giorni seguenti, senza che ci sia stato alcun approccio fisico, un fitto scambio epistolare, quasi febbrile, con Dick: molte delle lettere non saranno mai spedite.

Lo scambio epistolare è pienamente condiviso con Silvère che è anche autore di alcune delle lettere indirizzate a Dick.

Si crea dunque un triangolo amoroso, in larga parte del tutto mentale (da qui la definizione di "fiction teoretica"), mentre Chris continua a cercare di suscitare una qualche attenzione da parte di Dick. Questo coinvolgimento emozionale, ma anche intellettuale, nei confronti di un terzo, conduce Chris e Silvère a riprendere dei contatti sessuali, ormai interrotti da anni, ma in un successivo momento alla loro separazione definitiva, per quanto poi il loro rapporto continui in modi diversi.

Nella realtà vissuta, ci saranno soltanto due o tre incontri tra Chris e Dick, tutti caratterizzati da una fondamentale ritrosia da parte di Dick che non apprezza l'irruenza di Chris e cerca di prenderne le distanze.

La dimensione epistolare si trasforma dunque in una dimensione diaristica, in cui Chris si rivolge continuamente a Dick, assunto a suo interlocutore ideale, per raccontargli dei suoi viaggi, del suo lavoro, dei suoi ricordi intellettuali, dei suoi pensieri e riflessioni sul mondo artistico che frequenta, sulla sua arte.

Il rapporto tra Dick e Silvère prosegue e si rafforza, prendendo le forme di una collaborazione culturale, da cui Chris invece è esclusa. Per Chris, dunque, Dick è un catalizzatore di emozioni, di riflessioni e di idee. Dick, in realtà, non è interessato per nulla a le, anzi al contrario trova l'esuberanza di Chris eccessiva e fuor di luogo. Tra le righe - ecome sembra suggerire il finale - si è portati a pensare che l'invaghimento di Chris abbia funzionato piuttosto per l'attivazione e il consolidarsi di una relazione tra Dick e Silvére, su di un piano intellettuale e collaborativo, dunque di stampo omosociale, benché non direttamente agita sul piano omosessuale.

Si può sicuramente affermare che il modello di relazione a tre offerto da Chris Kraus nella sua opera si ponga ad un estremo di un ampio spettro di relazioni amorose traingolari, al cui estremo opposto si collocano quelle in cui due partner di un stesso sesso dividono una relazione amorosa con un terzo partner di sesso opposto, con diverse possibili configurazioni. dalla condivisione di uno stesso spazio di vita e momenti di relazioni sessuali duali differenziate alla non condivisione di spazi di vita comuni e relazioni sessuali a tre, prevalenti ma non esclusive (con una coppia che nella sua costituzione è dominante rispetto all'altra), per arrivare infine a situazioni in cui la scelta di un parner terzo solo esclusivamente nell'ambito della sessualità avviene solo occasionalmente e in contesti specifici (quelle che vengono definite situazioni "trasgressive", idioma più recente rispetto all’espressione di sapore ottocentesco quale era la cosiddetta “licenziosità libertina”) e in cui la presenza di un partner terzo ed intercambiabile sovente in situazioni promiscue ha la funzione di rinsaldare la relazione e la complicità all'interno di una coppia, attivando il desiderio.

Parlando di queste diverse configurazioni gli esempi nella letteratura e nella cinematografia sono molteplici, a partire da quello che si può considerare un classico del genere e che è il romanzo Jules e Jim di Pierre Roché (e il film che ne è stato tratto, considerato uno dei capolavori di Jean-Luc Godard), ma possiamo anche fare riferimento al bel film basato sulla vita reale, Il Professore Marston e Wonder Woman (che offre un esempio di convivenza a tre tra il professore Stanton, il creatore del personaggio femminile dei fumetti Wonder Woman due donne, in sfida alle convenzioni dell'epoca). E la lista degli esempi letterari e cinematografici potrebbe allungarsi notevolemente, sino al recentissimo film dello spagnolo Gaspar Noé, Love.

In queste relazioni a tre, ovviamente, esiste anche una forte componente omofila che lega tra loro intensamente i due partner dello stesso sesso, più facilmente esplicitata tra donne  (nella combinazione 2W+1M) che non tra gli uomini nel caso della configurazione 2M+1W.

Si tratta di situazioni che spesso dai benpensanti re dal perbenismo ottuso sono state bollate come licenziose, peccaminose, frutto del vizio, perverse, ma che in realtà rappresentano una sfida ad un modo di essere e di amare totalmente diverso da ciò che recitano le convenienze e le ristrettezze morali. E, in parte, ancora oggi, questi comportamenti sono oggetto di riprovazione sociale.

Il quesito che viene lanciato sul tappeto è infatti questo: "Perchè mai un uomo non dovrebbe poter amare contemporaneamente due donne? O una donna due uomini?”.

Una situazione a tre che, se agita concretamente con tutti i necessari adattamenti, è sicuramente ben più coraggiosa di squallide situazioni in cui un terzo partner esiste, ma sta nell'ombra di una relazione extraconiugale che deve rimanere segreta alla consapevolezza sociale.
La liberazione sessuale vera passa attraverso l'abolizione di tutte le segretezze, dalla libera esplicitazione delle proprie attrazioni e desideri e dalla condivisione inclusiva con il proprio partner.

Gay Talese, La donna d'altri, Rizzoli

Si veda a questo riguardo il magnifico racconto  sulla nascita negli Stati Uniti di questo tipo di movimento di liberazione sessuale che uno dei massimi rappresentanti del new journalism Gay Talese ha fatto nel suo La donna d’altri (The Neighbor’s Wfe),partendo in larga parte da materiale osservativo da lui personalmente raccolto, originariamente pubblicato nel 1980  e riedito nel 2012 (BUR Rizzoli) con una nota di aggiornamento su persone e luoghi da parte dello stesso talese che per scrivere questo libro si "infiltrò" negli ambienti scambisti del tempo e che per qualche tempo si prestò anche - per raccogliere materiale osservativo di prima mano - ad esercitare le funzioni di direttore di un salone per massaggi. Ecco cosa scrive Talese, in particolar modo, nel descrivere l'atmosfera della Associazione scambista e di libero amore, chiamata Sandstone Retreat che lui si trovò personalmente a frequentare e a osservare "in modo partecipato", come si ritrava a dichiarare nella sua postfazione al volume:

A volte il salotto di Sandstone poteva sembrare un circolo letterario, ma il piano inferiore restava un luogo destinato ai piaceri, con spettacoli e musiche che molti visitatori non si sarebbero mai immaginati di sperimentare sotto un unico tetto, nel corso di un'unica serata.
Dopo aver sceso la scala coperta da un tappeto rosso, gli ospiti entravano in un ampio localein penombra: il caminetto illuminava i cuscini sparsi sul pavimento, dove stavano sdraiaiti uomini e donne di cui si scorgevano silo i volti in ombra, le membra intrecciate,i seni prosperosi, le dita che afferravano, le natichein movimento, le schiene sudate, le spalle, i capezzoli, gli ombelichi, i lunghi capelli biondi sui cuscini, le grosse braccia che stringevanofianchi morbidi e candidi, la testa di una donna che andava su e giùsopra un pene in erezione.Sospiri, lamenti estatici, i risucchi delle carni che si accoppiavano, risa, mormorii, la musica trasmessa dall'impianto stereo, lo scricchiolio della legna nel camino.
(ib., p. 408).
E più avanti, Talese continua enunciando l'assalto senso-percettivo a cui veniva sottopostoun'ospite di Sandstone apppena giunto e ancora alle prime armi:
...donne a cavalcioni di uomini, coppie sdraiate fianco a fianco, donne con le gambe sopra le spalle del partner, un uomo nella posizione del missionario con i gomiti affondati nei cuscini rivestiti di madras e il sudore che gli colava dal membro barbuto. Accanto una donna tratteneva il fiato e ansimava, mentre l'uomo dentro di lei godeva
; un'altra rispondeva a quei suoni arcuando la schienae aumentando il ritmo per lasciarsi andare all'orgasmo (...)
In  un angolo della sala illuminata da luci cangianti proiettate sulle pareti, si scorgevano le sagome di alcune persone nude che stavano ballando. In un altro angolo una donna unta di oli stava supina su di un tavolo, mentre cinque persone la accarezzavano e massaggiavano ogni parte del suo corpo. Un uomo muscoloso stava in punta dei piedi davanti al tavolo e si sporgeva verso le sue cosce divaricate per leccarle i genitali.
(ib., p.409)

Insomma, quella che viene descritta da Talese è una situazione di sesso orgiastico, in cui il piacere è accresciuto da stimolazioni sensoriali multiple, quasi sinestesiche, e per usare le parole di Talese, "...un potente afrodisiaco audiovisivo, un 'tableau vivant' degno di Hieronymus Bosch": il naturale punto di arrivo e inizio nello stesso tempo di enormi sviluppi "libertini", a partire dalla liberazione della relazione di coppia dai vincoli rigidi postoi dalla morale borghese. Tutto ha inizio - se si legge la storia dei diversi personaggi che convergono verso la creazione di un luogo come il Sandstone Retreat - dall'introduzione nel rapporto di coppia codificato di un terzo, non più soltanto nell'immaginazione ma nella realtà.
Il finale di Love Dick che, appunto, si innesta in questo filone che attiene ad una triangolazione amorosa per così dire "sincronica" e non più suggellata dalla segretezza in cui viene mantenuto il "terzo", escluso dal rapporto formale di una coppia qualsivoglia, è suggellato da una delle pochissime azioni esplicite di Dick, che invia due lettere una a Silvère e l'altra a Chris: ma quella destinata a Chris è soltanto una miserevole fotocopia della lettera scritta per Silvère. Questo fatto, assieme alla constatazione che la prima lettera d'amore per Dick è stata scritta da Silvère e non da Chris fa dire alla postfatrice che "...nel classico triangolo girardiano, le donne funzionino funzionano come tramite per una relazione omosociale tra uomini..." e dunque sembrerebbe proprio che, alla fine di tutto, in tutta questa storia venga celebrato il trionfo di una relazione amicale tra Dick e Silvère, da cui alla fine Chris viene ad essere totalmente emarginata (p. 290).

 

(Risguardo di copertina) Filmmaker sperimentale di trentanove anni, Chris è sposata con Sylvère, docente universitario di cinquantasei anni. Appassionata d’arte di cattiva qualità, che secondo lei rende molto piú attivo chi la osserva, Chris, diversamente da Sylvère, non si esprime in un linguaggio teorico. È abituata perciò ad attenersi a un perfetto silenzio quando Sylvère si avventura nei suoi discorsi sulla teoria critica postmoderna.

Non facendo piú sesso, i due però non evitano affatto di parlare. Praticano anzi una rigorosa «decostruzione» a modo loro. In altre parole, si raccontano tutto.

Dopo aver trascorso l’intero anno sabbatico di Sylvère in un cottage sperduto tra le montagne a un’ora e mezza da Los Angeles, una sera i due cenano in un sushi bar di Pasadena con Dick, critico culturale inglese e buon conoscente di Sylvère. Durante la cena, mentre i due uomini discettano sulle ultime tendenze del postmoderno, Chris si accorge che Dick cerca di continuo il suo sguardo, e non può fare a meno di sentirsi eccitata da quell’inaspettata attenzione. Eccitazione che si accresce quando, dopo aver raggiunto casa di Dick nel deserto di Antelope Valley, per trascorrervi la notte ed evitare così di avventurarsi sulle strade innevate, Chris si rende conto che l’inglese flirta apertamente con lei. Lo sogna perciò tutta la notte. Ma la mattina dopo, quando si sveglia sul divano letto offerto dal loro generoso ospite, Dick non c’è piú.

Quella scomparsa le sembra il perfetto compimento di un’intensa storia non vissuta, anzi, come confessa a Sylvère, di una «Scopata Concettuale». Una volta tornati nel cottage, Sylvère – per un gioco perverso o forse perché per la prima volta dall’estate scorsa Chris gli appare animata e viva – le suggerisce di scrivere a Dick e di esprimergli i suoi sentimenti.

Pubblicato per la prima volta nel 1997 e tornato prepotentemente a far parlare di sé, I love Dick è un romanzo di culto considerato «uno dei piú importanti libri femministi degli ultimi due decenni» (Observer) oltre che «un formidabile romanzo di idee» (New Statesman).

 

Hanno detto di I Love Dick

«Questo è il libro piú importante sugli uomini e sulle donne che l’ultimo secolo ci ha lasciato» (Guardian)

«I Love Dick è uno dei più importanti libri mai scritti sull’essere donna» (Observer Magazine)

«Uno dei piú esplosivi, rivelatori, laceranti e insoliti memoir mai portati sulla pagina» (Rick Moody)

«Per anni, prima di leggerlo, ho continuato a sentir parlare di I love Dick. Sono in ritardo di due decenni, ma ho capito subito di avere tra le mani un testo incandescente» (Leslie Jamison, New Yorker)

 

Chris Kraus

L'autrice. Chris Kraus, di origini neozelandesi, è nata a New York nel 1955 e ha trascorso la sua giovinezza tra il Connecticut e la Nuova Zelanda.

Si laurea alla Victoria University of Wellington in Nuova Zelanda e, tornata a New York, completa i suoi studi di recitazione con Ruth Maleczech e di teoria economica con Arthur Felderbaum.

Kraus ha realizzato film e video arte e messo in scena spettacoli e rappresentazioni in diversi città. Alla fine degli anni ’70 era membro di The Artist Project, un’impresa di servizio pubblico finanziata dalla città e compresa da pittori, poeti, scrittori, cineasti e ballerini. Il suo lavoro come artista di performance e video ha satireggiato la politica di genere della scena Downtown e ha favorito i tropo letterari, fondendo tecniche teatrali con Dada, critica letteraria, attivismo sociale e performance. Kraus è ebrea e affronta molti aspetti spirituali e sociali dell’ebraismo nelle sue opere. Dice che i suoi genitori hanno frequentato la chiesa cristiana e non le hanno detto che la sua famiglia fosse ebrea fino a quando non si è trasferita a Manhattan, forse per proteggerla dall’antisemitismo.

Esordisce nella narrativa nel 1997 con il romanzo I love Dick che diviene vent'anni dopo una Serie TV con protagonista Kevin Bacon[4]. Ha continuato a girare film fino alla metà degli anni ’90. A partire dal 2006 era sposata con Sylvère Lotringer, un ebreo che é soppravvisuto all’Olocausto da bambino; hanno divorziato nel 2016. Alcune delle sue opere sono basate sul suo matrimonio e sul suo ex marito.

Insegna cinema alla European Graduate School a Saas-Fee[5].

A I Love Dick si èispirata una serie televisiva.
 

Quello che segue è un racconto di fantasia liberamente ispirato a I Love Dick e alle tematiche che vi sono connesse e che sono state toccate nelle mie riflessioni.

Senza perdere la tenerezza


Mi trovavo in un resort vacanziero naturista un'estate di un paio d'anni addietro ed ero andato, come facevo solitamente da una certa ora del pomeriggio, a passareun po' di tempo in la grande piscina naturista con annesso hammam dove praticare lo scambismo che, a differenza di altri luoghi similari, è misto, cioè aperto alle coppie e ai singoli.
Mentre ero a bordo piscina, separata da me solo da una sdraio vuota, c'era una tipa affascinante dalla pelle bianco-lattea e capelli corvini, seno piccolo, ma sodo, intenta a leggere con interesse un libro, che era "I Love Dick": proprio, prendendo spunto da questa sua lettura abbiamo avviato una conversazione, io ne ho riconosciuto la copertina e, in effetti, ricordavo di averlo a casa, senza tuttavia averlo già letto.
Abbiamo parlato del più e del meno e lei con la sua pelle eburnea e un grande cappellaccio di paglia a tesa larga che continua a tenere su, benché fosse all’ombra, era realmente fantastica, anche per la sua variegata cultura. Veniva voglia, lì su die piedi, di toccarla e di stringerla.

Non ho avuto la presenza di spirito di domandarle se fosse qui solo per il naturismo oppure anche per le gioie dello scambismo, se fosse in altri termini – per usare il termine inglese – una swinger. La domanda rimase inespressa.

Poco dopo è arrivato il suo compagno e hanno consumato assieme un gelato; quindi, indolentemente se ne sono andati, per imbucarsi nell’hammam. Guardandoli in piedi, ho notato quanto entrambi fossero alti e longilineii, lei sinuosa e morbida nei movimenti, dotata di una grazia quasi felina. Una coppia davvero bene assortita, ho pensato.

Li ho seguiti, quasi immediatamente, spinto da un’irressistibile puslsione e da un forte rimescolio nei lombi.

E li ho trovati lì, in uno degli anfratti dell'hammam dove era messo a disposizione un grande sommier che può accogliere diversi scopatori contemporaneamente oppure situazioni tipo gang bang (per coloro che non conoscono il gergo, si intenda “ammucchiata”): si sviluppava un happening a tre, con la donna di prima messa carponi che veniva scopata da dietro da uno in piedi, mentre davanti a lei stava il suo partner che godeva delle sue effusioni orali.

A prenderla da dietro, sempre con l'autorizzazione partner, si susseguivano diversi uomini. Avrei voluto scoparla anche io: era ancora presto e non c'era ancora molta ressa.

Avrei potuto (e avrei voluto), ma non ero ancora pronto poiché subito prima una tipa mi aveva afferrato il pene, in ginocchio davanti a me, mi aveva donato un pompino, il primo della giornata, ed ero appena venuto. Un minimo di tempo per ricaricarsi ci vuole, per quanto veloci si possa essere nel recupero...

Per quanto desiderassi quella scopata non riuscivo a farlo venire duro e quindi giocoforza mi sono tenuto in disparte, fuori da quel gioco in cui avrei voluto buttarmi a capofitto.

Sono rimasto a guardare, tuttavia, perchè la situazione mi pareva assolutamente intrigante e, come ho già detto, lei mi piaceva da morire.

Più tardi, nell'arco della giornata ho visto quella coppia diverse volte aggirarsi nei diversi spazi dell'hammam. I due erano entrambi alti e longilinei: a causa di ciò non li si poteva non notare.

Lei mi pareva nella sua nudità un'elegante gazzella, ma insieme dotata di una grazia felina: insomma, al tempo stesso, preda e predatore.

Più tardi, mentre mi ero adagiato su uno dei grandi cuscini a tirare il fiato, dopo una travolgente scopata, ecco arrivare i due che si mettono comodi proprio accanto a me: elettrizzato ho allungato la mano e ho preso ad accarezzare la pelle serica della donna e le sue lunghe cosce di gazzella.

E' bastato un attimo e ci siamo avvinghiati: ho cominciato a baciarla nella bocca, mentre il compagno di lei in ginocchio sul divano ci guardava.

Baci e carezze e lei con grande tenerezza, a tratti oscillante verso la passione, mi accarezzava la schiena o me la strisciava con la punta delle unghie, provocandomi brividi di intenso piacere..

Poi, gliel'ho infilato dentro, dopo aver indossato il preservativo di rito, e ha avuto inizio una lunga e impareggiabile scopata, non violenta ed energica, ma dolce e lenta. E lei intanto tenendo le cosce ben divaricate continuava a cingermi e a carezzarmi con le sue lunghe mani la schiena, mandandomi in visibilio.

E intanto ci baciavano con passione.

E lei gemeva di piacere.

Il compagno, accanto a lei, all'altezza delle nostre teste, intanto si masturbava e se lo faceva venire duro.

Poi, in una pausa del lungo bacio per prendere fiato, lui le ha infilato il cazzo in bocca e se lo è fatto succhiare, mentre io continuavo a scoparla con tutta la dolcezza possibile. Anche il pompino che lei somministrava al suo partner era dolce ed appassionato allo stesso tempo, senza strattoni, fatto in modo da protrarre il piacere il più a lungo possibile, come piace a me. Quindi il guardarla mentre succhiava il cazzo del suo compagno era fonte per me di ulteriore piacere.

Poi, alla fine, con un lungo gemito sono venuto e ho sfilato il cazzo dalla sua vagina.

Ma sono rimasto disteso accanto a lei a carezzarla e a baciarla nella bocca, mentre il compagno prendeva a scoparla, tenendola sempre distesa di schiena.

E anche questa seconda scopata è durata a lungo. Lei  è venuta più volte, con lunghi gemiti, non rumorosi e plateali. Anche il compagno è venuto.

Dopo, appagati, siamo rimasti distesi a lungo con lei al centro, dispensandole carezze e baci, sino a che eccitati di nuovo ed entrambi con il cazzo duro abbiamo ricominciato ma questa volta a posizioni invertite.

E' stata la migliore scopata scambista a tre della mia vita.

Non ci siamo presentati, come si usa fare in questi luoghi della trasgressione, nemmeno tanto per sapere il nome di ciascuno.

Eppure, anche se nel più totale anonimato, si è trattato di una lunga parentesi di sesso, decisamente memorabile, eccitante, ma anche piena di tenerezza.

Quando è finita e ci siamo lasciati, sapendo che questa cosa sarebbe rimasta confinata all'hic et nunc, c'era dentro di me un pizzico di nostalgia.

E raccontandola - così come sto facendo adesso - mi viene voglia di ripetere  quell'esperienza, intensa e forte come un'ubriacatura. Anzi di più. E il cazzo mi viene duro e lubrificato, pronto di nuovo.

Ho più volte pensato e ripensato a questa avventura, ripercorrendola avanti e indietro nei suoi dettagli, e devo dire che la mia riflessione di fondo è che con questo tipo di esperienza - se solo si ha il coraggio di abbandonare le convenzioni -ci si si immerge in un vero giardino delle delizie e dopo non è tanto facile ritornare ad un registro "normale" di relazioni sessuali. E rimane nello sfondo una forte nostalgia anche se non tutti gli incontri con swinger e scambisti vari possono fregiarsi di questa sublime combinazione di carnalità ee tenerezza.

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18 ottobre 2019 5 18 /10 /ottobre /2019 09:45
Marco D'Eramo, Il selfie del mondo, Feltrinelli, 2017

Marco D’Eramo è un sociologo e giornalista che ha studiato il turismo nel libro “Il selfie del mondo” (Fetrinelli, 2017 ed ora anche in economica).
Non tutto il libro è di pari interesse, ma la prima parte per coloro che amano il camminare di lunga durata, il trekking ed anche il camminare profondo, anche in opposizione, può essere stimolo di riflessioni.

In particolare, all'interno del volume si ritrova un argomento d'un certo interesse ed è quello  in cui D’Eramo decreta la morte di città e territori: questo verdetto rilasciato dall’Unesco è il “Patrimonio dell’Umanità” o World Heritage.
Molti pensano sia un grande riconoscimento, che aiuta a salvare città, territori e beni materiali e immateriali. Ma in realtà, come spiega bene D’Eramo, ne certifica la morte, trasformando un luogo vivo, in evoluzione, una città abitata da gente vera, in una "disneyland" per turisti.
O meglio, quasi sempre il processo è già avvenuto e quando arriva il patrocinio l’Unesco, si tratta soltanto di una sorta di convalida ufficiale. Il bollino Unesco poi non fa che incrementare all'ennesima potenza il numero dei visitatori.
Le città, i paesi e i territori sotto l'implacabile pressione del turismo globale (pensiamo a Firenze, Venezia o a San Gimignano) si trasformano, gli abitanti storici se ne vanno, per lasciar posto a B&B, Case Vacanze, Affittacamere, Airbnb. I negozi “veri”, che vendono beni di prima necessità, si trasformano prima i negozi di prodotti tipici, e poi in negozi di souvenir standard, uguali in tutto il mondo: e si tratta di un processo che è difficilmente reversibile, una volta avviato.

Prendiamo - a titolo di esempio - il caso del bel paese medievale di San Gimignano. Chi ha camminato sulla Francigena lo conosce bene.
Ma gli abitanti autoctoni non possono più vivere nel suo centro storico: i prezzi sono alti, non c’è più un negozio vero (non si vive di soli pinocchietti di legno!), ma solo rivendite di souvenir standard, poste una accanto all’altro; le strade sono piene di gente all'inverosimile: insomma, tutto l'opposto di una cittadina a misura d'uomo e di conseguenza il nucleo storico della cittadina si è spopolato e se ne sono andati tutti a vivere in periferia. E, per quanto riguarda la Toscana, quando arrivano i famosi pinocchietti si può decretare senza ombra di dubbio che il processo di disneylandizzazione di un luogo è cosa compiuta: e il luogo con le sue radici storiche e con le vite narrate e da narrare che contiene si trasforma in un anonimo non luogo.

È paradossale che l’unintended consequence del voler mantenere l’unicità, l’irripetibilità di un sito, produca in realtà un 'non luogo' sempre uguale a se stesso in tutti i siti heritage della terra. Come per trovare i veri sangimignanesi devi uscire e allontanarti dalle mura medievali, così per trovare dove vivono davvero i laotiani di Luang Prabang bisogna pedalare in bicicletta per un paio di chilometri su Photisalath Road per raggiungere la città vivente”.
Il turismo è l’industria più pesante, più importante e più impattante del XXI secolo, tanto che ormai si parla dell’"Età del turismo" riferendosi alla nostra era.
Ovviamente l’etichetta Unesco non è causa del turismo, ma ne è in qualche modo certificato di garanzia, e copertura ideologica (istituzione “a fin di bene”).
L’etichetta Unesco ha aperto all’industria turistica una nuova, meravigliosa, sconfinata terra di conquista: perché costruire nuove Disneyland quando disponiamo di una caterva di città viventi e di territori che aspettano (anzi chiedono disperatamente) di diventare parchi a tema, col semplice mummificarsi, e quindi svuotarsi?”. E ovviamente poi si paga il biglietto, perché stupirsi se sui sentieri delle Cinque Terre o delle Gole di Samaria da anni, a Venezia da dopodomani o in altri luoghi a seguire pian piano, si pagherà il biglietto per entrare?".

Marco D'Eramo, Il selfie del mondo, Feltrinelli, Universale Economica, 2019

Marco D'Eramo, Il selfie del mondo. Indagine sull'età del turismo, Feltrinelli (Campi del sapere), 2017

(Dalla quarta di copertina) Un saggio che analizza il fenomeno sociale e globale del turismo: una ricerca attualissima, una critica sorprendente della contemporaneità, che è anche uno straordinario viaggio intorno al mondo.

Il turismo è l'industria più importante di questo nuovo secolo, perché muove persone e capitali, impone infrastrutture, sconvolge e ridisegna l'architettura e la topografia delle città. D'Eramo tratteggia i lineamenti di un'epoca in cui la distinzione tra viaggiatori e turisti non ha più senso e recupera le origini di questo fenomeno globale, osservandone l'evoluzione fino ai giorni nostri. La nascita dell'epoca del turismo rivive attraverso le voci dei primi grandi globetrotter, a partire da Francis Bacon, passando per Samuel Johnson, fino a Gobineau e Mark Twain, che restituiscono una concezione del viaggio ancora elitaria e che, tuttavia, porta con sé quella ricerca del diverso, del selvaggio e dell'autentico tipica di ogni esperienza turistica. Attraverso un percorso urbano che si sviluppa su tutto il mappamondo, d'Eramo smaschera la dialettica del fenomeno turistico e la affronta senza pregiudizi snobistici, collocandola nello spirito del suo tempo.

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16 ottobre 2019 3 16 /10 /ottobre /2019 10:20
Mio fratello rincorre i dinosauri (Italia, 2019)

Mio fratello rincorre i dinosauri (Italia, 2019) è un bel film, molto educativo e molto vero, che racconta di quanto possa essere arricchente in una famiglia la presenza di un bimbo down, ma anche quali e quante possano essere le difficoltà con le quali alcuni della famiglia debbano confrontarsi. E, naturalmente, le cose si complicano quando l'unità sociale elementare che è la famiglia deve istituire un confronto con il contesto societario più vasto oppure quando il portatore della disabilità - qualunque essa sia - deve fare il suo ingresso nel mondo.

In queste situazioni, l'affettività ha un potente ruolo cementante ed evolutivo. E sono sempre gli elementi più giovani dell'unità familiare che più facilmente possono subire le pressione del contesto allargato a potere subire delle conseguenze, come appunto dimostra la vicenda autobiografica raccontata da Giacomo Mazzariol (pubblicata da Einaudi Collana Stile Libero Extra nel 2016, con il titolo Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più) e trasposta in film da Cipani.

Il film - fatta salva qualche interpolazione necessaria per  rendere più fluida la sua sintassi - segue in modo piuttosto aderente il racconto scritto.
Alcuni hanno detto che il libro di Mazzariol (e il film) rappresenti la risposta italiana a Wonder (libro e film che ne è stato tratto): in effetti è così, anche se - ovviamente - vi sono delle differenze sia legate al contesto sia al tipo di "diversità" di cui viene raccontato. Anche se in Wonder vi è un fronte familiare compatta accanto al piccolo protagonista della vicenda, mentre nel racconto di Mazzariol è lo stesso Giacomo che, in un momento ben preciso della sua storia di evoluzione sociale e di costruzione del Sè, ripudia il fratello Gio affetto da Sindrome di Down salvo a ricredersi e a ritrovare il giusto e armonico equilibrio affettivo, con una riapertura e una dichiarazione in qualche modo "pubblica", attraverso un videoclip, divenuto rapidamente virale, "The simple interview".

Io stesso, nel vedere il film e nel leggere il libro, ho avuto una serie di flashback che mi hanno riportato indietro agli anni della mia pre-adolescenza e adolescenza e al difficile compito di mediare in quegli anni tra le istanze sociali nuove con cui iniziavo a confrontarmi e il fatto di avere un fratello disabile. Benchè in famiglia vi fosse la precisa consapevolezza di essere uniti affettivamente e motivati per costituire un team affiatato in cui il problema della disabilità di mio fratello doveva essere condiviso e gestito da tutti, senza distinzioni, l'avere un fratello disabile ha creato dentro di me - indubbiamente - delle risonanze e delle titubanze che, quando mi sono ritrovato davanti alle prime aperture nel sociale, hanno plasmato in qualche misura la costruzione del mio carattere, portandomi in taluni casi a scelte di isolamento piuttosto che di coraggiosa apertura.
Penso certamente che libri come questi (e i relativi film che a loro sono stati ispirati) dovrebbero essere fatti leggere nelle scuole o essere letti e illustrati ad alta voce dai docenti e poi discussi con gli allievi, poichè hanno da insegnare veramente tanto sui temi dell'accettazione e dell'integrazione, non in maniera teorica ma in modo semplice e diretto fondato su fatti realmente accaduti.

Chi ha tratto interesse a questi due racconti potrebbe trovare utile iun confronto con la priva prova letteraria di Mariapia Veladiano, La vita accanto (Einaudi, 2011), nella quale si racconta dell'infelice Rebecca, nata in una famiglia di rango sociale marchiata dalla sfortuna - sin dalla nascita - di essere palesemente brutta e, per questo, sin dalla nascita, rifiutata dalla madre e condannata ad una vita di semi-reclusione, dalla quale si salverà soltanto grazie al suo talento naturale e dal fatto che alcune delle persone che la circondano le vogliono bene, malgrado la sua bruttezza. Il racconto della Veladiano contraddice radicalmente il detto popolare "Ogni scarrafone è bello 'a mamma sua". In effetti si può essere condannati ad una forma di severo ostracismo per la propria malattia o bruttezza (e, in fondo, cos'è la malattia se non un'offesa alla purezza dei canoni estetici che si vorrebbero garantiti per sé e per i propri cari?). Ma anche il libro della Veladiano conferma l'assioma che sono gli affetti a salvare le persone e che anche nelle situazioni di più estreme di rifiuto affettivo possono aprirsi delle vie insperate per incanalare l'affettività e per ricevere l'affetto necessario ad un sano sviluppo psico-affettivo.

 

 

Mazzariol, Mio fratello rincorre i dinosauri, Einaudi Stile Libero Big, 2016

Giacomo Mazzariol, Mio fratello rincorre i dinosauri. Storia mia e di Giovanni che ha un cromosoma in più, Einaudi (Stile Libero Extra), 2016

(Risguardo di copertina) Ci sono voluti dodici anni perché Giacomo imparasse a vedere davvero suo fratello, a entrare nel suo mondo. E a lasciare che gli cambiasse la vita.
Hai cinque anni, due sorelle e desidereresti tanto un fratellino per fare con lui giochi da maschio. Una sera i tuoi genitori ti annunciano che lo avrai, questo fratello, e che sarà speciale. Tu sei felicissimo: speciale, per te, vuol dire «supereroe». Gli scegli pure il nome: Giovanni. Poi lui nasce, e a poco a poco capisci che sí, è diverso dagli altri, ma i superpoteri non li ha. Alla fine scopri la parola Down, e il tuo entusiasmo si trasforma in rifiuto, addirittura in vergogna. Dovrai attraversare l’adolescenza per accorgerti che la tua idea iniziale non era cosí sbagliata. Lasciarti travolgere dalla vitalità di Giovanni per concludere che forse, un supereroe, lui lo è davvero. E che in ogni caso è il tuo migliore amico. Con Mio fratello rincorre i dinosauri Giacomo Mazzariol ha scritto un romanzo di formazione in cui non ha avuto bisogno di inventare nulla. Un libro che stupisce, commuove, diverte e fa riflettere.
Insomma, è la storia di Giovanni, questa. Giovanni che ha tredici anni e un sorriso piú largo dei suoi occhiali. Che ruba il cappello a un barbone e scappa via; che ama i dinosauri e il rosso; che va al cinema con una compagna, torna a casa e annuncia: «Mi sono sposato». Giovanni che balla in mezzo alla piazza, da solo, al ritmo della musica di un artista di strada, e uno dopo l’altro i passanti si sciolgono e cominciano a imitarlo: Giovanni è uno che fa ballare le piazze. Giovanni che il tempo sono sempre venti minuti, mai piú di venti minuti: se uno va in vacanza per un mese, è stato via venti minuti. Giovanni che sa essere estenuante, logorante, che ogni giorno va in giardino e porta un fiore alle sorelle. E se è inverno e non lo trova, porta loro foglie secche. Giovanni è mio fratello. E questa è anche la mia storia. Io di anni ne ho diciannove, mi chiamo Giacomo.

L'Autore. Giacomo Mazzariol è nato nel 1997 a Castelfranco Veneto, dove vive con la sua famiglia. Nel marzo del 2015 ha caricato su YouTube un corto, The Simple Interview, girato assieme al fratello minore Giovanni, che ne è il protagonista. Giovanni ha la sindrome di Down. Il video ha avuto un'eco imprevedibile: i principali quotidiani gli hanno dedicato la prima pagina ed è stato commentato anche all'estero.
The Simple Interview è visibile su www.youtube.com/watch?v=0v8twxPsszY.html
Per Einaudi ha pubblicato Mio fratello rincorre i dinosauri (2016 e 2018) e Gli squali (2018).

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12 ottobre 2019 6 12 /10 /ottobre /2019 08:39
La Corsa de L'Ora (a cura di Franco Nicastro), Navaraa Editore, Palermo, 2019

"La Corsa de L'Ora" (2016) è un un bel film documentario di Antonio Bellia, premiato nel 2018, con Pippo Delbono, nella veste di narratore.

Il periodo compreso tra il 1954 e il 1975 fu quello in cui Vittorio Nisticò fu il direttore del quotidiano palermitano del pomeriggio L’Ora, originariamente avviato dalla famiglia Florio.

Il documentario ne ricostruisce le vicissitudini: da un lato, le battaglie contro l’intreccio di poteri e interessi tra la mafia e la politica in un momento storico di grande trasformazione per la Sicilia, dall’altro l’impegno di una generazione di intellettuali e artisti che vedono protagonisti personaggi come Sciascia, Consolo, Dolci, Guttuso, Caruso, che si fanno carico della necessità di essere interpreti di un cambiamento sociale e civile e che scelgono il piccolo quotidiano palermitano come luogo e strumento di questa grande scommessa.

Il film è stato vincitore nell 2018 Nastri d'Argento, sezione Docufilm.

Di recente con Navarra Editore (Palermo) è stato pubblicato un volume di contributi e di amarcord sul giornale L'Ora di Palermo che contiene abbinato il DVD con il film documentario incentrato su quegli anni ruggenti de L'Ora, ma anche con riferimenti al periodo successivo sino alla sua chiusura.
I diversi contributi, tutti scritti da giornalisti che lavorarono nella redazione dell'Ora e che successivamente seguirono altre strade sempre nel campo del giornalismo, avendo acquisito in quegli anni una solida statura formativa nel campo del giornalismo militante e coraggioso raccontano con diversi vertici d'osservazione, l'avventura del quotidiano palermitano non dalle sue più lontane origini, ma a partire dall'anno in cui Vittorio Nisticò ne assunse la guida, sino alla sua chiusura negli anni '80.
Ma gli anni ruggenti, quelli dell'esposizione del quotidiano che intraprese coraggiosamente grandi inchieste sulle condizioni della città furono appunto quelli della direzione di Nisticò e cioè quelli situabili nell'arco di tempo che va dal 1954 al 1975 e sono esattamente quelli su cui si é concentrato il documentario di Bellia.

Il volume è stato curato da Franco Nicastro.

(Dal risguardo di copertina) Nato all'inizio del Novecento come progetto della famiglia Florio, il quotidiano L'Ora fu diretto tra il 1954 e il 1975 da Vittorio Nisticò. Alla sua figura è dedicato La corsa de L'Ora, docufilm di Antonio Bellia (2017) allegato a questa pubblicazione, curata dal giornalista Franco Nicastro, alla quale dà anche il titolo.
L'Ora ha sempre conservato, lungo tutta la sua vita, le caratteristiche di un quotidiano sensibile ai fermenti di novità e ai tentativi di trasformazione dei vecchi equilibri.
Forte di una identità di sinistra, criticamente aggiornata. Difensore dell'autonomia siciliana come strumento di libertà e di progresso, ma mai "sicilianista".
Strettamente legato alle questioni della crescita sociale e civile di Palermo e dell'Isola, ma non provinciale, sempre attento, semmai, a quanto di nuovo maturava in Italia e nel resto del mondo. Un giornale di respiro nazionale impegnato a dare ai fatti locali il rilievo delle grandi battaglie di rinnovamento e a iscrivere le cronache e i commenti politici degli avvenimenti siciliani nella cornice ampia del riformismo e della democrazia.

L'attenzione sia del film che delle pagine dellibro è rivolta all'intera realtà de L'Ora quel "quotidiano che non fu solo una testata giornalistica ma un laboratorio di idee, un luogo di confronto vivace e irriverente, un presidio e uno strumento di battaglia civile..." (A. Bellia).
Gli articoli- firmati da A. Calabrò, M. Genco, F. La Licata,, S. Nicosia, M. Sorgi, V. Vasile,, P. Violante - sono ripresidal volume "Era l'Ora. Ilgiornale che fece storia e scuola" (a cura di M. Figurelli e di F. Nicastro, XL Edizioni, 2012).

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8 settembre 2019 7 08 /09 /settembre /2019 07:15

«Chiamatemi Tiresia. Per dirla alla maniera dello scrittore Melville, quello di Moby Dick. Oppure Tiresia sono, per dirla alla maniera di qualcun altro.
«Zeus mi diede la possibilità di vivere sette esistenze e questa è una delle sette. Non posso dirvi quale.
«Qualcuno di voi di certo avrà visto il mio personaggio su questo stesso palco negli anni passati, ma si trattava di attori che mi interpretavano.
«Oggi sono venuto di persona perché voglio raccontarvi tutto quello che mi è accaduto nel corso dei secoli e per cercare di mettere un punto fermo nella mia trasposizione da persona a personaggio».

«Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi, sono stato regista teatrale, televisivo, radiofonico, ho scritto più di cento libri, tradotti in tante lingue e di discreto successo. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario.
«Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla. Solo su queste pietre eterne».

Incipit di "Conversazione con Tiresia"

Andrea Camilleri, Conversazioni con Tiresia, Sellerio, 2018

Andrea Camilleri ci ha lasciato il 17 luglio 2019, quando era oormai vicino al traguardo centenario. Poco più di un anno prima, quando era già stato colpito dalla cecità, era andato in scena al teatro greco di Siracusa il suo monologo - durante il ciclo delle rappresentazioni classiche - il suo monologo su Tiresia, da lui stesso interpretato.
In quell'occasione, Sellerio ha pubblicato il testo del monologo nella collana il Divano, con il titolo "Conversazioni con Tiresia".
Leggendolo oggi dopo la morte di Camilleri, lo si può sicuramente considerare una sorta di testamento spirituale dell'autore, poichè mentre Tiresia parla di se stesso e delle controverse rappresentazioni che di lui sono state date nel corso dei secoli, e si trasforma man mano da personaggio a persona, i piani si confondono e si crea una sovrapposizione tra Tiresia e Camilleri stesso che si trasforma in un vate letterario  che si è incontrato e ha parlato con i grandi della letteratura e dello spettacolo, vivendo molte vite sino alla condizione della cecità che gli ha donato uno sguardo ancora più acuto.

Semplicemente geniale. Anche a Camilleri, come a Tiresia, sono state assegnate dagli dei sette vite; e, sicuramente, egli attraverso i personaggi che ha creato e attraverso coloro che leggono i suoi romanzi e le sue invenzioni e visioni vivrà molto a lungo ancora.

La RAI ha trasmesso la registrazione integrale del monologo recitato al Teatro greco di Siracusa, nel giorno della sua morte, suggellando così il valore di questa pièce e il suo significato di testamento spirituale di un autore letterario che è stato geniale e prolifico.

 

 

L'anima di Tiresia appare a Odisseo, opera del pittore svizzero Johann Heinrich Füssli

L'anima di Tiresia appare a Odisseo, opera del pittore svizzero Johann Heinrich Füssli

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7 settembre 2019 6 07 /09 /settembre /2019 09:24
Julie Otsuka, Venivamo tutte per mare (Buddha in the Attic), Bollati Boringhieri, 2011

Venivamo tutte per mare di Julie Otsuka  (The Buddha in the Attic, nella traduzione di Silvia Pareschi), pubblicato da Bollati Boringheri (Collana Varianti), nel 2011, si presenta come un'opera al crocevia: infatti, è nello stesso tempo, racconto di un'epopea per bocca degli stessi protagonisti e documento storico ineguagliabile.
Il titolo italiano, a differenza di quello in lingua originale - sicuramente più enigmatico -, statuisce tre elementi fondanti: il primo che si tratta di una storia corale, raccontata da più voci, il secondo che le voci narranti sono femminili e il terzo che, come momento fondante del racconto, vi è una traversata del mare (o dell'oceano) e dei suoi effetti.
A quale racconto ha messo mano dunque Julie Otsuka, cittadina statunitense, ma di origini nipponiche?
Oggetto del suo interesse è stata la grande epopea dell'emigrazione giapponese negli Stati Uniti, costituita da due tipologie diverse di migranti. Un gruppo più cospicuo di uomini che desideravano trovare dei lavori che consentissero (e alle proprie famiglie) di uscire da una condizione economica di pura sussistenza, dato che alla svolta del XIX secolo tutto in Giappone era bloccato ad uno stato a dir poco medievale (in virtù della radicale opposizione dell'Imperatore giapponese ad una qualsivoglia apertura alle innovazioni tecnologiche e alla liberalizzazione del commercio). L'altro gruppo, invece, era costituito da giovani uomini istruiti che desideravano avere l'opportunità di studiare ulteriormente e di apprendere il know-how delle innovazioni tecnologiche, base della crescita di uno stato moderno.
I Giapponesi che arrivavano dal Paese del Sol Levante presero ad insediarsi nella California, prevalentemente e negli Stati più a Nord, alcuni (molti) divennero braccianti agricoli, altri trovarono impiego nelle attività peschiere, altri ancora furono impiegati in attività di bassa manovalanza.
Erano operosi ed industriosi e, come i frugali Cinesi che avevano contribuito alcuni decenni prima alla costruzione della linea ferrata che collegava la costa ovest con gli Stati dell'Est, si accontentavano di paghe modeste.
Quando questo primo nucleo di migranti si fu stabilizzato sufficientemente, ci fu un'intensa ondata migratoria di donne giapponesi che vennero sposate in molti casi per procura, per facilitarne l'ingresso negli Stati Uniti.
E fu così che i migranti single si accasarono e costituirono delle famiglie. Costoro si autodenominarono Issei, cioè Giapponesi della prima generazione, mentre i nati sul suolo straniero vennero denominati Nisei (l'immigrazione giapponese vide anche negli stessi anni altre destinazioni, come il Canada nel Nord America, il Perù, l'Argentina e il Brasile ed ebbe analoghi sviluppi socio-culturali, con delle peculiarità uniche ed originali rispetto a movimenti migratori di altra origine).
La comunità giapponese negli Stati Uniti crebbe e prosperò: dai primi migranti presto raggiunte dalle mogli per procura nacquero e crebbero i figli e cominciò un lento processo d'integrazione che negli USA, tuttavia, venne bruscamente interrotto dal proditorio attacco giapponese contro Pearl Harbour. Di colpo i Giapponesi Issei  - a differenza dei rappresentanti delle comunità italiane e tedesche - vennero considerati potenziali nemici, cittadini inaffidabili, autori di trame segrete, agenti sotto copertura pronti a favorire sbarchi giapponesi sulle coste americane: insomma, furono oggetto di un rigurgito fortemente razzista e violentemente discriminatorio.
Rapidamente, in un crescendo, si passò da attività poliziesche mirate a singoli individui a restrizioni di massa che sfociarono nella deportazione collettiva di tutti gli Issei e dei Nisei, uomini, donne, vecchi e bambini, in campi di concentramento appositamente allestiti, ben lontani dalle originarie zone di residenza, e ciò a scapito del fatto che i Giapponesi si dichiarassero fedeli alla costituzione americana e che alcuni dei più giovani avessero chiesto di prestare servizio nelle forze armate di cielo, di terra e di mare.
Fu questo un capitolo oscuro nella storia degli Stati Uniti su cui gli Americani, dopo la fine del conflitto mondiale stesero un velo di silenzio, prima che si iniziassero delle attività di chiarificazione.
Gli stessi concittadini statunitensi non seppero granchè di quanto era successo: furono solo testimoni dell'improvvisa scomparsa quasi dall'oggi al domani di tutte le comunità giapponesi dal tessuto sociale, con l'abbandono di case, terre coltivati ed altri bene che in taluni casi vennero razziate dai soliti profittatori.
Alla fine della guerra i giapponesi vennero liberati e poterono ritornare alle loro attività, ma senza alcun risarcimento per ciò che avevano perso:  rimase per molto tempo un'insanabile ferita che creò un arresto significativo nel processo di crescita della comunità nippo-americana.
Il libro della Otsuka narra tutto questo, visto dagli occhi delle donne: e si tratta di un coro di voci collettive che finiscono con il diventare una voce sola, potente ed epica.
Capitolo per capitolo i momenti di un'epopea ci sono tutti: dal trepidante viaggio per mare, all'incontro - a volte deludente - con i mariti promessi, al confronto con una vita faticosa, a volte fatta di stenti e di umiliazioni, alla sessualità, all'arrivo dei figli e alla loro crescita con l'avvio di un'importante fase di integrazione, all'accendersi di relazione miste - spesso segrete - con i "bianchi", alle difficoltà di integrazione linguistica, all'accettazione di usi e costumi tanto differenti rispetto all'arcaica società che avevano lasciato alle spalle. Sino allo scoppio della guerra e all'avanzarsi imperioso di un periodo di incertezze tra voci mormorate, dicerie, in attesa del peggio. E, alla fine, la loro scomparsa sociale (quasi una cancellazione della loro presenza sino al giorno prima), con il loro "grande" internamento nei campi di concentramento.
Qui, non c'è più racconto, nel senso che il lettore non viene accompagnato sino ai campi di concentramente per Issei e Nissei: le voci delle donne si eclissano e rimane soltanto quella - malinconica e accorata - dell'assenza e dell'improvviso mancare al contesto sociale dell'intera comunità giapponese. La voce corale è soppiantata da quella degli "altri", ciascuno dei quali con motivazioni diverse constata l'assenza dei giapponesi, e si tratta di un amico, di un compagno di scuola, del vicino di casa, di un cliente del negozio di ortofrutta e così via.
Quella di Julie Otsaka è una narrazione potente e memorabile che, tra le altre cose, attraverso l'espediente narrativo di dar voce alle donne, getta una documentata luce di conoscenza - in maniera più efficace di qualsiasi saggio - di un fenomento migratorio e di un capitolo ancora poco conosciuto della storia USA contemporanea.
Ed è anche un tributo importante su di una questione ancora controversa e sulla quale solo dopo cinquant'anni dopo hanno lavorato delle commissioni d'inchiesta, espressamente costituite, le quali tutte arrivarono alla conclusione che da parte dei rappresentanti delle comunità NIssei vi erano state allo scoppio della guerra ben poche prove di slealtà nei confronti del governo americano, se non addirittura nessuna.
Giusto per completezza, ai tempi della Presidenza Ford, ai sopravissuti dall'internamento e ai loro discendenti venne riconosciuto un risarcimento nominale di $20.000 per il danno morale subito .
Un unico film ebbe il coraggio di esplorare questo tema spinoso e fu Benvenuti in Paradiso di Alan Parker (1990).

(dal risguardo di copertina)  Una voce forte, corale e ipnotica racconta dunque la vita straordinaria di queste donne, partite dal Giappone per andare in sposa agli immigrati giapponesi in America, a cominciare da quel primo, arduo viaggio collettivo attraverso l'oceano. È su quella nave affollata che le giovani, ignare e piene di speranza, si scambiano le fotografie dei mariti sconosciuti, immaginano insieme il futuro incerto in una terra straniera. A quei giorni pieni di trepidazione, seguirà l'arrivo a San Francisco, la prima notte di nozze, il lavoro sfibrante, la lotta per imparare una nuova lingua e capire una nuova cultura, l'esperienza del parto e della maternità, il devastante arrivo della guerra, con l'attacco di Pearl Harbour e la decisione di Franklin D. Roosevelt di considerare i cittadini americani di origine giapponese come potenziali nemici.
Fin dalle prime righe, la voce collettiva inventata dall'autrice attira il lettore dentro un vortice di storie fatte di speranza, rimpianto, nostalgia, paura, dolore, fatica, orrore, incertezza, senza mai dargli tregua. Un altro scrittore avrebbe impiegato centinaia di pagine per raccontare le peripezie di un intero popolo di immigrati, avrebbe sprecato torrenti di parole per dire cos'è il razzismo. Julie Otsuka ci riesce con queste essenziali, preziose pagine.

Julie Otsuka

 

Sull'Autrice. Julie Otsuka, nata a Palo Alto, in California nel 1962, vive e lavora tra New York e San Francisco.
Dopo la laurea con Bachelor of Arts all'Università Yale si è specializzata alla Columbia University, ottenendo un Master of Fine Arts.
Pittrice, esordisce nella narrativa nel 2002 con il romanzo storico Quando l'imperatore era un dio rigurdante l'internamento dei giapponesi negli Stati Uniti.
Con il secondo romanzo, Venivamo tutte per mare, sul tema delle donne giapponesi mandate in spose in America a connazionali sconosciuti, ottieneha ottenuto numerosi riconoscimenti quali il PEN/Faulkner per la narrativa e il Prix Femina Étranger.

 

Julie Otsuka, Quando l'imperatore era un dio, Bollati Boringhieri

Il seguito ideale di "Venivamo tutte per mare" è "Quando l'imperatore era un dio" che invece racconta neldettaglio, in forma semi-romanzata gli anni della detenzione dei giapponesi americani nei campi di concentramento durante gli anni del conflitto, vista attraverso le voci narranti di un unico gruppo familiare, ma sempre presente nello sfondo una grande coralità..
E' una storia dolorosa che ha lasciato segni che solo il tempo e l'aggiungersi di nuove generazioni a quelle che patirono la vergogna di essere rinchiusi nei campi  di concentramento hanno potuto lenire.
Le scuse ufficiali dell'Amministrazione USA alle comunità giapponesi sono arrivate soltanto con il Presidente Barak Obama.
Per quanto tardivamente sono arrivate.
E' una storia esemplare che, malgrado la distanza nel tempo e nello spazio ci riguarda e sulla quale tutti dovrebbero riflettere.



(Risguardo) "Quando l'imperatore era un dio" racconta un'altra pagina poco conosciuta della storia americana: l'internamento dei cittadini di origine giapponese nei campi di lavoro dello Utah, in seguito all'attacco di Pearl Harbour. Un tranquillo padre di famiglia arrestato nel cuore della notte; sua moglie, i suoi bambini costretti a un viaggio verso l'ignoto. Una storia emblematica del destino di chi divenne invisibile per tutta la durata della guerra.

Julie Otsuka, Quando l'imperatore era un dio (nella traduzione di ), Bollati Boringhieri, Collana Piccole Varianti, 2014

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6 settembre 2019 5 06 /09 /settembre /2019 09:20
Sebastiano Vassalli, Il Cigno, Einaudi (Supercoralli), 1993

Ho letto per la prima volta Il Cigno  di Sebastiano Vassalli  (Einaudi) nel 1993, alla sua prima uscita nella collana Supercoralli.
Di recente ho ripreso il volume dagli scaffali scritto da una rinnovata curiosità. E l'ho riletto con molto piacere.
Il volume di Vassalli offre uno spaccato dell'Italia unificata a cavallo tra la fine del secolo XIX e e i primi del Novecento.
E racconta di un delitto eccellente, che fu quello di Emanuele Notarbartolo, rimasto formalmente irrisolto, dopo ben tre processi celebrati tra Milano, Bologna e Firenze.
La vicenda giudiziaria durante quasi un decennio si risolse con il proscioglimento da tutte le accuse dell'allora onoverole Raffaele Palizzolo, deputato del Regno (in qualità di presunto mandante) e di Piddu Fontana,presunto esecutore dell'omicidio.
Lo sfondo dell'omicidio fu quello dello scandalo della Banca Romana e del Banco di Napoli, oltre che del Banco di Sicilia, di cui Notarbartolo era funzionario.
Questi istituti di credito erano autorizzati, al tempo, a emettere moneta carta, in assenza di una Banca Centrale, con la conseguenza che venivano portate avanti ogni sorta di malversazioni, in cui Francesco Crispi, per due volte Primo Ministro, fu implicato.
L'importanza della vicenda giudiziaria fu grande e rilevante, dal momento che per la prima volta si parlò di Mafia e della collusione tra questa organizzazione criminale e il potere politico.
Il Cigno (era questo il modo in cui confidenzialmente veniva chiamato il vanaglorioso Palizzolo) racconta di una vicenda ancora attuale, in cui l'ieri sembra oggi e dalla quale appare che, indubitabilente, nulla è è cambiato dai primi anni dell'Italia unificata: è una parabola efficace che mostra come le radici dei malaffare di oggi si ritrovano nella storia passata. E quindi questa storia di Vassalli, a metà tra il romanzo e il saggio di ricostruzione micro-storica e di affresco di un'epoca, non ha perso il suo smalto.
Rimane pienamente valida la riflessione contenuta ne "Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, "Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi".
Purtroppo Il Cigno, sia nell'edizione nei Supercoralli sia in quella successiva nella collana dei tascabili non è più disponibile in catalogo, Ma è possibile ancora trovarlo nel mercato online dei libri di seconda mano e vintage.

Sebastiano Vassalli

L'autore. Sebastiano Vassalli, nato a Genova, sin dalla prima infanzia vive in provincia di Novara.
Laureato in Lettere a Milano, ha discusso con Cesare Musatti una tesi su "La psicanalisi e l'arte contemporanea".
Dagli anni sessanta si è dedicato all'insegnamento e alla ricerca artistica della Neoavanguardia, partecipando anche al Gruppo 63.
Solo in seguito si è dedicato anche alla scrittura, incontrando successo soprattutto grazie al suo romanzo storico La chimera, ambientato a Novara negli anni a cavallo fra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo.
Fra i suoi titoli ricordiamo - oltre alla già citata Chimera - La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano e Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni.

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29 agosto 2019 4 29 /08 /agosto /2019 06:51

Nei racconti che seguono, incontrerete di tutto: da un mostriciattolo appollaiato sull'ala di un Boeing 727 a esseri trasparenti che vivono al di sopra delle nubi. Vi imbatterete in viaggi nel tempo e in aerei fantasma. Soprattutto sperimenterete quei dodici secondi di pericolo estremo nei quali tutte le cose che possono andare storte durante un volo vanno 'effettivamente' storte. Incontrerete claustrofobie, viltà e atti di coraggio. Se avete in programma un viaggio con la Delta, l'American, la Southwest o un'altra linea aerea, vi consiglio di portarvi dietro un libro di John Grisham o di Nora Roberts. Ma anche se siete a terra e al sicuro, vi conviene allacciarvi comunque le cinture di sicurezza e stringerle bene.

Stephen KIng, Introduzione a Flight or Fright, p. 7

Stephen King, Bev Vincent (a cura di), Odio volare. 17 storie turbolente, Sperling&Kupfer (Collana Pandora), 2019

Dopo circa un anno dalla pubblicazione in lingua originale ha visto la luce in traduzione italiana una raccolta di racconti "aerei" (di autori vari) che sono un vero e proprio inno alla fobia del volo.
Il titolo dell'edizione italiana è Odio Volare. 17 storie turbolente (Sperling&Kupfer, 2019, con il contributo di diversi traduttori), ma il titolo originale è fondato sull'alternativa tra il volare e la paura per il volo (Flight or Fright. 17 Turbulence Tales)
Come è noto il volare in aereo è statisticamente sicuro, per quanto succedano di tanto in tanto dei disastri aerei, ma ciò nonostante vi possono essere dei motivi i più disparati per aver paura del volare in alta quota, specie se, alle considerazioni più comuni, si aggiungono dei terrori senza nome e la timorosa attesa di terrificanti eventi sovrannaturali come, ad esempio, quello rappresentato nel magistrale racconto di Matheson  (Nightmare at 20.000 feet), ovviamente incluso nell'antologia.
Due sono stati i curatori della raccolta, Stephen King, primo ideatore di essa, e Bev Vincent che, avendo raccolto entusiasticamente il primo input di Stephen King in un occasionale e fortuito incontro - ovviamente in un aeroporto nordamaericano - è stato il principale "spigolatore" dei 17 racconti presentati nel volume.
E, naturalmente, non mancano un ottimo e inedito racconto dello stesso King (The Turbulence Expert) e uno di Bev Vincent (Zombies on a Plane).
Il pregio della raccolta è stato  quello di andare a scovare alcuni racconti (perfino uno in forma di frammento, a firma di Ambrose Bierce) che
altrimenti, volendo seguire personalmente un simile filone tematico, il lettore comune avrebbe fatto fatica a reperire.

L'operazione è perfettamente riuscita: Stephen King mettendo su questa preziosa antologia è riuscito a dare corpo alla sua paura di volare (di cui non ha mai fatto un mistero): paura e inquietudine che a suo tempo avevano generato il magistrale romanzo breve "I Langolieri".
Ovviamente per chi ha paura di volare sono possibili due alternative, rispetto a questo libro: non portarlo con sè durante un volo aereo, oppure - al contrario - acquisirlo e portarselo in viaggio come un potente talismano. A questo riguardo ci sarebbe da fare una dissertazione ermeneutica sul fatto che esattamente 17 siano le storie raccolte nell'antologia stessa (manca negli aerei solitamente la fila di poltrone contrassegnata con il 13).

Flight or Fright, 17 Turbulent Tales (edited by Stephen King and Bev Vincent)

Flight or Fright: 17 Turbulent Tales Edited by Stephen King and Bev Vincent

Fasten your seatbelts for an anthology of turbulent tales curated by Stephen King and Bev Vincent. This exciting new collection, perfect for airport or aeroplane reading, includes an original introduction and story notes for each story by Stephen King, and brand new stories from Stephen King and Joe Hill. Stephen King hates to fly. Now he and co-editor Bev Vincent would like to share this fear of flying with you.
Welcome to Flight or Fright, an anthology about all the things that can go horribly wrong when you're suspended six miles in the air, hurtling through space at more than 500 mph and sealed up in a metal tube (like - gulp! - a coffin) with hundreds of strangers. All the ways your trip into the friendly skies can turn into a nightmare, including some we'll bet you've never thought of before... but now you will the next time you walk down the jetway and place your fate in the hands of a total stranger.
Featuring brand new stories by Joe Hill and Stephen King, as well as fourteen classic tales and one poem from the likes of Richard Matheson, Ray Bradbury, Roald Dahl, Dan Simmons, and many others, Flight or Fright is, as King says, "ideal airplane reading, especially on stormy descents... Even if you are safe on the ground, you might want to buckle up nice and tight."
Book a flight for this terrifying new anthology that will have you thinking twice about how you want to reach your final destination.

Table of Contents:
Introduction by Stephen King
Cargo by E. Michael Lewis
The Horror of the Heights by Sir Arthur Conan Doyle
Nightmare at 20,000 Feet by Richard Matheson
The Flying Machine by Ambrose Bierce
Lucifer! by E.C. Tubb
The Fifth Category by Tom Bissell
Two Minutes Forty-Five Seconds by Dan Simmons
Diablitos by Cody Goodfellow
Air Raid by John Varley
You Are Released by Joe Hill
Warbirds by David J. Schow
The Flying Machine by Ray Bradbury
Zombies on a Plane by Bev Vincent
They Shall Not Grow Old by Roald Dahl
Murder in the Air by Peter Tremayne
The Turbulence Expert by Stephen King
Falling by James L. Dickey
Afterword by Bev Vincent

La copertina riprodotta è quella dell'edizione inglese, pubblicata da Hodder&Stoughton.

 

Odio volare. 17 storie turbolente

Stephen King e Bev Vincent (a cura), Odio volare. 17 storie turbolente, Sperling&Kupfer (collana Pandora), 2019

(Risguardo di copertina) Curata da Stephen King insieme a Bev Vincent, suo amico e collaboratore da sempre, Odio volare è una raccolta di racconti horror che hanno un particolare filo conduttore: sono tutti ambientati ad alta quota, a bordo di un aereo.

Ed essendo horror, naturalmente raccontano tutto quello che di orribile può succedere quando sei sospeso in aria a diecimila metri di altezza, chiuso in una scatola di metallo (e il riferimento non è per niente casuale) che sfreccia a più di 800 chilometri l'ora, insieme a decine di sconosciuti che potrebbero fare qualunque cosa. King, che sicuramente non ama viaggiare in aereo, ha fornito il suo personale contributo al volume aggiungendovi un'introduzione, le note a ogni storia e soprattutto un racconto originale L'esperto di turbolenze. Inoltre ha reclutato Joe Hill che ha scritto Siete liberi, altra storia ad hoc completamente inedita. Il resto del libro contiene un mix di storie nuove e già pubblicate di autori famosi e meno noti, tra cui Sir Arthur Conan Doyle, Richard Matheson, Ambrose Bierce, Dan Simmons, Ray Bradbury, e altri ancora. King ha raccontato così le origini del libro: Allora, eravamo seduti a cena prima della proiezione de La Torre Nera a Bangor, e sapevamo che molte persone sarebbero arrivate in aereo per partecipare all'evento. Io ho confessato che odio volare e la conversazione si è concentrata su storie di aerei, alcune spaventose, altre divertenti. Ho notato che non era mai stata pubblicata una raccolta di racconti horror sul volo, anche se me ne erano venuti in mente diversi sul tema. Qualcuno avrebbe dovuto farla. Bev Vincent, che è un incredibile pozzo di scienza, ha accettato di curarla con me e ora eccola qui. Bev e io pensiamo che sia una lettura ideale da aereo, specialmente durante gli atterraggi turbolenti.

 

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18 agosto 2019 7 18 /08 /agosto /2019 07:27
Don Winslow, Il Confine, Einaudi Stile Libero Big, 2019

Ho scritto, quando "Il Confine", ultima opera tradotta di Don Winslow (nella traduzione di Alfredo Colitto) e pubblicata da Einaudi Stile Libero Big nel 2019) è comparsa nelle vetrine delle librerie : "Non vedo l'ora di iniziare a leggerlo!". E' così è stato! Mi sono procurato immediatamente il volume e ho subito iniziato la scalata alla vetta delle sue oltre 900 fittissime pagine.
"Il Confine" si pone come terzo capitolo della saga dedicata da Winslow ai Narcos messicani, dopo "Il Potere del Cane" e "Il Cartello". La sua saga nel suo insieme ha la complessità e la forza di un romanzo come "Guerra e pace", forse.
Si tratta di vicende sfaccettate che coprono un arco di tempo di oltre 40 anni, sino allo scenario attuale e che illuminano alcuni snodi essenziali e retroscena (sia pure in forma romanzata, per quanto documentatissima) sulla "Total war on drugs" portata avanti a partire degli Settanta dalle diverse amministrazioni USA.
Interagiscono moltissimi personaggi dell'una e dell'altra parte, ci sono continui spostamenti di scenario e di tempo, tra Messico e Stati Uniti, con l'onnipresente "confine" tra i due Stati. Ma il fulcro e il volano dell'intera narrazione è Art Keller, agente della Dea, prima sotto copertura, poi direttamente sul campo in Messico e, infine, suo capo (nel terzo volume) che tenta in ogni modo di arginare lo strapotere dei Narcos e la loro crudeltà efferata. Si tratta di una guerra senza remissione di colpi: i morti e i feriti sono innumerevoli (e non si tratta solo di fiction, se si guarda ad esempio, all'elenco infiniti dei giornalisti uccisi dai Cartelli, a cui i tre volumi di Don Winslow sono dedicati).
Art Keller sa che sta combattendo una guerra sporca che non può essere vinta senza patti altrettanto sporchi e scellerati, senza ricorrere se necessari a colpi bassi e a tradimenti, senza infrangere egli stesso leggi e regolamenti, senza uccidere quando non ci sono altre alternative.
Keller è un duro e procede lungo la sua strada anche quando i colpi sono inferti personalmente a lui e alle persone che ama: per questo motivo porta sulle sue spalle un fardello di dolore che cioò nondimeno lo spinge ad essere ancora più determinato
Nel terzo volume si giunge al dunque e al nodo essenziale.
Ed è quando, attraverso una serie di passaggi, Keller arriva ad individuare un circuito di riciclo dei soldi sporchi del narcotraffico in investimenti immobiliari negli Stati uniti, investimenti in cui sono implicati personaggi legati alle più alte sfere politiche: in uesto caso si tratta nientemeno che del genero del Presidente Dennison (dietro il qual nome si cela l'attuale Trump) e lo stessso presidente. Da qui comincia un carosello pericoloso per la vita dello stesso Keller tendente ad insabbiare tutto.

Ovviamente, è proprio quest'ultimo romanzo che getta una luce inquietante sui principi stessi che muovuono la guerra alle droghe.
Il traffico di droghe, in un regime proibizionista , è infatti imbattibile: innanzitutto, perchè con i suoi continui trasformismi e con la sua duttilità e capacità di adattamento al mutare delle circostanze rende del tutto inutili delle misure che prima erano sembrate efficaci; in secondo luogo perchè genera dei profitti enormi che, assicurano lauti guadagni, a tutta una serie di persone nel lungo percorso che porta al "lavaggio" del denaro sporco e al suo investimento in imprese "oneste".
Gli interessi implicati sono troppo vasti e intricati - ci dice Winslow - perchè si possa volere andare a fondo in una battaglia per un'estirpazione radicale del mercato delle droghe, come ha illustrato anche - del resto - un precedente romanzo di Frederick Forsyth (Il Cobra, nella traduzione di Annamaria Raffo, Rizzoli, 2010). Risulta così evidente che la "war on drugs" il più delle volte - in ultima analisi - resta soltanto una facciata - dispendiosa per impiego di mezzi e di uomini, ma in definitiva inutile (ma nello stesso tempo essa stessa diventa una macchina che fa business e che fa girare tanti, tantissimi soli governativi).

E alla luce di quanto ci mostra Winslow, perfino l'idea tanto cara a Donald Trump di un muro invalicabile che protegga il confine tra Stati Uniti e Messico per evitare l'ingresso di immigranti clandestini e di droghe è assolutamente risibile e di mera "facciata" a fornte degli insospettabili legami affaristici che si possono creare in altre sedi e in altri livelli.

Nessuno vuole veramente che il traffico delle droghe si esaurisca mai, mentre è sufficiente che la "war on drugs" generi dei risultati che non siano però mai decisivi.

La lezione che se ne trae è che tutti - in diverso modo - sono coinvolti in una lotta per il Potere e che il traffico delle droghe è una mera strategia per conquistarlo.

L'intera trilogia di Don Winslow (come molti altri suoi r omanzi) è dura e spietata, ma la sua rappresentazione non è mai compiacente, ma piuttosto un modo per denunciare lo stato delle cose, oltre che un modo per rendere omaggio a tutti coloro che nel tentativo di portare avanti le loro idee, denunciare, mettere sull'avviso, dire la verità sono stati spietamente uccisi dai Narcos oppur sacrificati in nome delle logiche del Potere.
Ogni volume della trilogia è preceduto dal lunghissimo elenco di giornalisti messicani uccisi dai Narcos perchè tentavano di dire  la verità: e leggere tutti questi nomi fa davvero impressione. Per non parlare delle decine di migliaia che ogni anno muoiono nella guerra per il potere e il controllo tra i diversi Cartelli.


(Soglie del testo) Art Keller ha trascorso la vita combattendo la guerra al narcotraffico dall'altro lato del confine. Adesso è tornato a casa, ma la guerra lo ha seguito. Pensava che una volta scomparso Adàn Barrera avrebbe trovato pace. Si sbagliava. A prendere il posto che è stato di Adan, e prima ancora di suo zio don Miguel Angel, ci sono già Los Hijos, la terza generazione. E ora, a capo della Dea, Art si rende conto che in realtà i nemici sono dappertutto: nei campi di papavero messicani, a Wall Street, alla Casa Bianca. Gente che cerca di farlo tacere, di sbatterlo in galera, di distruggerlo. Gente che vuole ucciderlo. Con "II confine" Don Winslow tira le fila di una storia di violenza e vendetta, corruzione e giustizia, ormai divenuta leggenda. E dipinge un ritratto di straordinaria potenza dell'America d'oggi.

Hanno detto:
«Il confine mi ha totalmente conquistato. Tutti dovrebbero leggerlo. È un romanzo sociale al livello di Tom Wolfe e John Steinbeck. Attento, furente, pieno di suspence, a tratti comico, e sempre avvincente. Un libro duro ma importantissimo» (Stephen King)

 

Don Winslow

L'Autore. Don Winslow, ex investigatore privato, uomo di mille mestieri (tra cui il regista, l'attore e la guida nei safari), è autore di molti romanzi che lo hanno consacrato come uno dei nuovi maestri del crime e del noir contemporanei.
Einaudi Stile libero ha pubblicato, tra gli altri, L'inverno di Frankie Machine (2008), diventato un vero e proprio caso letterario, Il potere del cane (2009), La pattuglia dell'alba e La lingua del fuoco (2010), Le belve (2011, stesso anno in cui esce Satori, per Bompiani), da cui Oliver Stone ha tratto l'omonimo film. Nel 2012, sempre per Einaudi Stile libero, è uscito I re del mondo, prequel di Le belve. L'anno successivo esce Morte e vita di Bobby Z, da cui è stato tratto il film Bobby Z - Il signore della droga, diretto da John Herzfeld con protagonisti Paul Walker, Laurence Fishburne e Olivia Wilde.
Un nuovo ciclo, che vede protagonista l'investigatore Franck Decker, è stato inaugurato nel 2014 con Missing. New York (Einaudi Stile Libero). Nel 2015 esce Il cartello (Einaudi); nel 2016, London Underground, il primo romanzo, di una serie di cinque, che ha come protagonista Neal Carey e L'ora dei gentiluomini (Einaudi). Nel 2017 esce Corruzione e Nevada connection, sempre per Einaudi; nel 2018 esce Lady Las Vegas. L'autore ha ricevuto nel 2012 il prestigioso Raymond Chandler Award, il premio letterario istituito da Irene Bignardi nel 1996 in collaborazione con il Raymond Chandler Estate dedicato alla scrittura noir che ogni anno laurea un maestro del genere.

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14 agosto 2019 3 14 /08 /agosto /2019 07:54

«Io ho un nome molto strano, mi chiamo Vercingetorige, perché a papà quando sono nato è saltato il ghiribizzo, come dice la mamma. Però tutti mi chiamano Torè. Dal giorno dello scompiglio, comunque, ho capito che non ci sono nomi strani, ci sono nomi e basta. Infatti, anche se qua a Linosa molti si chiamano Giuseppe, Franco, Salvatore, Maria e questi nomi qua, da altre parti non è così. Infatti è impossibile che anche al papà di Ahmed e Fatima e di tutti gli altri sia saltato il ghiribizzo. Il papà di Ahmed e Fatima lavora a Londra, e loro hanno fatto questo lungo viaggio per raggiungerlo. Meno male che mio padre fa solo piccoli viaggi in mare per pescare e non va mai via da Linosa! A scuola io non sono per niente un tipo tranquillo 8p. 13)

Dario Flaccoviosito web

Valentina Gebbia, Metà bianchi Metà neri, Dario Flaccovio Editore, 2019

Valentina Gebbia ci offre nelle pagine di Metà bianchi Metà neri, Dario Flaccovio Editore, 2019, attraverso le note diaristico di un bambino isolano, una storia di migrante. In quattrocento vengono salvati da un barcone che si è arenato sulla costa di Linosa e le genti dell'isola (i residenti sono meno di 400) sono mobilitati per occuparsi di loro, in attesa che l'isola sia di di nuovo raggiungibile, poiché nel frattempo le condizioni meteo sono peggiorate.
Con la popolazione locale, accogliente e provvida, si stringono subitolegami di amicizia e di solidarietà: Torè, il giovane protagonista, è portato a vedere più le somiglianze che le differenze.
E vorrebbe anche che questo gruppo di migranti rimanesse per sempre nell'isola assieme a loro.
La dura e crudele realtà si imporrà, con il ristabilirsi del bel tempo, e Torè vedrà partire i suoi nuovi amici con un peso nel cuore e un senso di incolmabile nostalgia, ma a causa di questa esperienza porterà con sé - per sempre - un'importante lezione di vita.

E' una lettura da consigliare a tutti coloro che si recano in vacanza a Linosa, poiché le pagine di questo libricino sono dense di impareggiabili descrizioni dell'isola e delle abitudini dei suoi abitanti.
Ma è anche da consigliare a tutti coloro che vogliano trasmettere ai più piccini una lezione di tolleranza, di accettazione dell'altro e di civile convivenza tra i popoli.
E' anche un libro che rappresenta una bella semplificazione della formula esortativa "Restiamo umani" che viene più volte ripetuta o addirittura esposta su lenzuola appese fuori dai balconi e alle finestre: un appello alle regole fondamentali dell'accoglienza e del vivere civile contro le esternazioni di Salvini "pifferaio della paura".

(Soglie del testo) Metà bianchi metà neri è il racconto delicato del fenomeno migratorio e del suo portato umano e sentimentale.
Attraverso gli occhi del piccolo Torè viene raccontato l’arrivo di quattrocento migranti sull’isola di Linosa.
Qui, nello spazio ristretto di una comunità accogliente e disponibile nei confronti del prossimo, nascono sentimenti e legami inaspettati.
La storia è scandita attraverso le pagine di un diario in cui il bambino registra quanto accade intorno a lui, a partire dall’amicizia con un coetaneo appena sbarcato.
Sviluppo del racconto ed epilogo convergono nel disegnare i tratti di un’umanità capace di superare ogni barriera etnica, linguistica e sociale.

L'Autore. Valentina Gebbia, scrittrice, regista, attrice e giornalista, è laureata in Giurisprudenza e abilitata alla professione di Awocato. Ha pubblicato parecchi romanzi premiati dal pubblico e dalla critica, come la serie di gialli della sgangherata famiglia "Mangiaracina Investigazioni", e vari racconti in antologie. Ha diretto corti e documentari, e il lungometraggio "Erba Celeste", tratto da uno dei suoi libri. Per queste Edizioni ha pubblicato il racconto "Rekhale" e il romanzo "Fuoco grande, il mistero degli incendi di Caronia", ospitato in vari convegni e trasmissioni televisive.

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DSC04695.jpegQuesta pagina è la nuova casa di due blog che alimentavo separatamente. E che erano rispettivamente: Frammenti. Appunti e pensieri sparsi da un diario di bordo e Pensieri sparsi. Riflessioni su temi vari, racconti e piccoli testi senza pretese.

Era diventato davvero troppo dispendioso in termini di tempi richiesti alimentarli entrambi, anche perchè nati per caso, mentre armeggiavo - ancora alle prime armi - per creare un blog, me li ero ritrovati ambedue, benchè la mia idea originaria fosse stata quella di averne uno solo. Infatti, non a caso, le loro intestazioni erano abbastanza simili: creatone uno - non ricordo quale dei due per primo - lo ho "perso" (per quanto strano ciò possa sembrare) e mi diedi alacremente da fare per ricrearne uno nuovo. Qualche tempo - nel frattempo ero divenuto più bravino - il blog perso me lo ritrovai).

Ohibò! - dissi a me stesso - E ora cosa ne faccio?

La risposta più logica sarebbe stata: Disattiviamolo!. E invece...

Mi dissi: li tengo tutti e due. E così feci. E' stato bello finchè è durato...

Ma giocare su due tavoli - e sempre con la stessa effcienza - è molto complicato, ancora di più quando i tavoli diventano tre e poi quattro e via discorrendo....

Con overblog ho trovato una "casa" che mi sembra sicuramente più soddisfacente e così, dopo molte esitazioni, mi sono deciso a fare il grande passo del trasloco, non senza un certo dispiacere, perchè il cambiamento induce sempre un po' di malinconia e qualche nostalgia.

E quindi ora eccomi qua.

E quello che ho fatto - ciò mi consola molto - rimane là e chiunque se ha la curiosità può andare a dargli un'occhiata.

 

Seguendo il link potete leggere il mio curriculum.

 

 


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